Se l’anonimato muore sul web

28 Luglio 2011

Love and Revolution


Vancouver, 15 giugno 2011. Dopo aver perso la finale della Stanley Cup, i tifosi della locale squadra di hockey danno a fuoco e fiamme il centro della città. La polizia reagisce duramente.
Il fotografo di Getty, Richard Lam, è sul posto per riprendere i tafferugli, quando si imbatte in una coppia che, incurante dei disordini intorno, sembra baciarsi appassionatamente. Lam coglie l’attimo e scatta una foto che il giorno dopo farà il giro del web, delle tv e dei giornali di tutto il mondo, dove il “Vancouver Riot Kiss” verrà subito paragonato ad altri baci iconici della storia della fotografia, come “Day in Times Square” di Alfred Eisenstaedt e “Le Baiser de l'Hôtel de Ville” di Robert Doisneau.


Man mano che l’immagine diventa un tormentone virale, cresce però anche la curiosità (e la morbosità) sull’identità dei due ragazzi: Chi sono? Perché si baciano? Stanno forse recitando? Su Twitter, Facebook e i quotidiani online scatta la gara della verifica a posteriori (un tratto ormai distintivo dell’informazione accelerata dei nostri tempi: tutte le fasi del processo giornalistico - ricerca, raccolta, verifica e pubblicazione delle notizie - sono ormai vissute insieme ai lettori, in una sorta di Grande Fratello dell’informazione in tempo reale, fatto di “gialli”, misteri e pseudo-notizie).
Per una giornata intera le interpretazioni e le speculazioni sul bacio di Vancouver proliferano: c’è chi parla di fotomontaggio, chi di “abuso” ai danni di una manifestante ferita, chi tira addirittura in ballo un gruppo di situazionisti newyorkesi.
 

Passano 24 ore e a Perth, città australiana agli antipodi di Vancouver, la ventinovenne Hannah Jones vede la foto su un portale online e strabuzza gli occhi: “È mio fratello! L’ho riconosciuto dai pantaloni, perché porta sempre quelli”, dirà poi al sito NineNews, a cui racconterà altri particolari del “Romeo” di Vancouver: si chiama Scott Jones, ha 29 anni, vive in Canada da sei mesi dove fa il comico, ed è fidanzato con Alexandra Thomas, la ragazza che si vede nella foto.
Basterà poco perché anche l’ignaro Scott si renda conto di tutto il tam-tam e diffonda la propria versione: la sua ragazza era stata colpita della polizia, lui stava solo cercando di tranquillizzarla. Nessun atto situazionista, nessun fotomontaggio. Solo due normali ragazzi finiti per caso nell’obiettivo di un fotografo. E che, al di là di ogni desiderio di esibizionismo, in poche ore sono saliti sulla ribalta globale, catturando l’attenzione morbosa di media e semplici utenti mobilitati per identificarli.


Su internet chiunque sa che sei un cane


Cina, 2006. In un video che ha fatto presto il giro dei forum e dei blog, si vede una ragazza uccidere sadicamente un gatto. Le reazioni degli utenti sono subito scandalizzate. E non si fermano ai soli commenti online: l’indignazione si trasforma subito in una mobilitazione di gruppo per identificare e punire l’autrice del gesto. Centinaia di utenti si mettono a scandagliare il web, analizzano ogni singolo fotomontaggio del video, provano a risalire alla location esatta in cui si è consumato l’atto, fino a quando la ragazza non viene riconosciuta (si chiama Wang Jue, è un’infermiera di 26 anni) e costretta a pubblicare le sue scuse sul sito ufficiale del comune. Dopo lo scandalo perderà anche il posto di lavoro, insieme all’amico che aveva girato il video.
 

Stessa sorte toccata a una ragazza sud-coreana che era stata ripresa con un cellulare nella metropolitana di Seoul, mentre si rifiutava di raccogliere la cacca fatta dal suo cane sul treno. Anche qui, il video finisce online, scatta la riprovazione generale e la corsa di centinaia di utenti a rintracciare la ragazza. Una volta identificata, verrà umiliata con la pubblicazione di dettagli sulla vita privata sua e della famiglia. Sarà poi costretta ad abbandonare l’Università.
 

In Cina e nel Sud-est asiatico, il fenomeno degli utenti che si mobilitano in rete per una causa - più o meno giusta - con lo scopo di punire un individuo è ormai una pratica diffusa (e tollerata dalle autorità). Il fenomeno è noto come “human flesh search engine” (e cioè: motori di ricerca in carne ed ossa) e negli ultimi anni ha portato allo scoperto diversi casi di corruzione delle autorità locali, come pure di stigmatizzazione di comportamenti anti-patriottici.
Allo stesso tempo, però, gli “human flesh search engine” sono anche criticati per il metodo utilizzato: a prevalere è sempre il pubblico ludibrio, l’offesa gratuita, lo sciacallaggio. A cui si accompagna spesso la totale messa a nudo dell’identità delle persone prese di mira, con la rivelazione di dettagli che non hanno nulla a che vedere con il gesto compiuto.

Per parafrasare una famosa vignetta del 1993 del settimanale New Yorker: ormai su Internet chiunque sa (e presume) che tu sia un cane.


Estensione del dominio del tabloid


Nell’introduzione di “Uno per tutti tutti per uno”, l’iper-celebrato guru della rete Clay Shirky racconta l’aneddoto di una ragazza che, dopo aver dimenticato un cellulare sulla metropolitana, riesce a ritrovarlo grazie all’aiuto di amici e sconosciuti mobilitati online: una sorta di motore di ricerca umano all’americana (la storia completa può essere letta qui). Shirky fa leva su questa storia per spiegare un argomento centrale del suo saggio: il potere delle “organizzazioni senza organizzazioni”; e cioè, come può “essere dirompente un’azione di gruppo, se al gruppo vengono forniti gli strumenti giusti”. A fornire questi strumenti “giusti” ci ha ovviamente pensato il web, che ha liberato una nuova forma di “intelligenza collettiva”, impensabile nell’epoca dei media analogici.


Col suo consueto atteggiamento panglossiano, Shirky tende però a sottovalutare gli effetti bi-direzionali della rivoluzione tecnologica. Certo, i pubblici connessi online riescono a rendere pubbliche molte storie che prima dovevano passare attraverso i cancelli dei media mainstream. Movimenti di protesta che prima erano stroncati sul nascere ora possono far sentire la propria voce anche nei regimi autoritari (e in alcuni casi sovvertirli). A volte, come nel caso della presunta blogger lesbica siriana Amina, gli utenti riescono addirittura a smontare le bufale in cui cascano le testate tradizionali. E tutto questo è senza dubbio un bene.


Un bene, però, che può essere piegato anche in direzione del tutto opposta. In “The Net Delusion”, Evgeny Morozov ha raccolto decine di esempi su come le “organizzazioni senza organizzazione” della rete possono essere manipolate per sostenere la nuova “sacra trinità” dei regimi autoritari: censura, sorveglianza, propaganda. Morozov parla ovviamente anche degli “human flesh search engine” sostenuti da Pechino come nuova forma di sorveglianza dal basso, sousveillance per dirla con un termine caro agli attivisti digitali. Lo stesso succede in Iran, Israele, Siria, Russia, dove blog e forum sono diventati veri e propri campi di battaglia in cui si aggirano migliaia di cyber-combattenti, pronti a silenziare le voci dissidenti o fuori dalla norma. E così, nel prendere il posto dei vecchi mezzi di informazione, questi vigilanti 2.0 spesso si appropriano della peggiore tradizione giornalistica: quella del tabloid, dello scandalo sbattuto in prima pagina e della persecuzione ad personam.
 


Ronde digitali a Vancouver 2.0


Mentre il mondo era ammaliato dalla foto dei due amanti degli scontri di Vancouver, un’altra forma di esposizione pubblica prendeva piede online. Questa volta molto più inquietante e meno romantica di quella che ha portato all’identificazione di Scott Jones e Alexandra Thomas.

 

Vancouver 2011 Riot Criminal List è il nome di un blog sbucato in rete a poche ore dagli incidenti (e presto rilanciato anche su Facebook) per raccogliere in maniera collaborativa le testimonianze degli scontri e così punire i tifosi violenti. In pochi giorni ha raccolto decine di immagini e video disponibili su Facebook, Twitter, Flickr, o sui cellulari. Il sottotitolo del blog è eloquente: “Crimini anonimi nel mondo del web 2.0? Non penso proprio”. Tra le tante persone identificate, anche Nathan Kotylak, una giovane star della squadra di hockey locale, ripreso mentre cercava di dare fuoco a un macchina della polizia. Dopo il riconoscimento, un altro utente ha subito pubblicato l’indirizzo esatto della sua abitazione, tanto che i genitori si sono visti costretti a lasciare la casa per non subire più minacce.
 

Anche qui, al di là del merito (è giusto lasciare impuniti i responsabili di atti vandalici?), resta una questione di metodo. Che è lo stesso alla base dei motori di ricerca umani cinesi, delle mobilitazioni di massa per identificare i ragazzi del bacio di Vancouver o, per spostarci nel mondo offline, delle ronde leghiste. Un metodo che alimenta morbosità e risentimenti di gruppo, oltre che pericolosi desideri di giustizia fai-da-te. Dall’intelligenza collettiva alla delazione dal basso il passo è davvero breve. Se l’anonimato muore sul web, c’entra davvero ben poco George Orwell, il controllo di stato o la nostra privacy nelle mani di Facebook e Google. I migliori sorveglianti siamo proprio noi.

 

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