Sicurezza sociale per il fare comune nel mondo / Uberizzazione dell'economia

9 Novembre 2017

Né rimpianti né ortodossie potranno aiutarci ad affrontare seriamente le esigenze dell’universo del lavoro contemporaneo. Tali posture, per quanto comprensibili, rischiano di spingere verso battaglie inefficaci e drammaticamente segmentate, incapaci di coagulare largo consenso attorno a sé. Non ricompongono il quadro e, a ben vedere, si fermano alla descrizione, un po’ querula, della fase perdente del lavoro salariato e subordinato. Osservare questo vuole dire osservare solo lo sfondo, tra l’altro in progressiva e incontrovertibile contrazione, e soprattutto vuole dire bloccare sotto un grumo di nostalgia la differente soggettività politica dei nuovi lavoratori e delle nuove lavoratrici, a partire dal fatto che non si riconosce la manifesta mutazione della nozione stessa di lavoro, uscita ormai completamente da cardini e binari noti, sessualmente connotati, per allargarsi, tra tensioni e contraddizioni, ad altri possibili campi semantici ed epistemici che descrivono le diverse forme dell’agire umano nel mondo (fare, attività, creazione, prestazione, relazione, iniziativa…). Si parte, insomma, da un abuso del linguaggio – la maggioranza delle donne questa storia la conosce assai bene.

 

Naturalmente, tutto ciò rappresenta un immenso problema, che continua ad avere radici molto profonde e antiche, ma anche necessita di un aggiornamento dello sguardo, cioè ha bisogno di rivolgere “verso l’avvenire la lanterna dell’esperienza che altrimenti sembra illuminare solo il passato”. Dunque addirittura c’è urgenza di Rifare il mondo… del lavoro come titola un piccolo libro interessante a firma di Sandrino Graceffa, tradotto in Italia da DeriveApprodi dopo l’uscita in francese lo scorso anno. Graceffa è attualmente amministratore delegato di SMArt, Société Mutuelle des Artistes, nata a Bruxelles nel 1998 sotto forma di associazione senza scopo di lucro, oggi diventata una cooperativa che fornisce servizi, assistenza, assicurazione ai freelance, basandosi su principi mutualistici, e contemporaneamente lavora su un piano politico, portando avanti, dentro la cornice europea, la proposta di flexsicurity.

Si ricostruisce perciò, in questo libro, che è fondamentalmente una lunga intervista a Graceffa condotta da Roger Burton, Virginie Condier e Carmelo Virone, la storytelling di SMArt, arrivata a contare 75mila iscritti. Dal Belgio si sta allargando in vari paesi europei, tra i quali l’Italia.

 

Sergio Bologna, nella sua introduzione al testo, sottolinea il grande valore simbolico rappresentato dal fatto “che una società di mutuo soccorso così solida abbia il suo quartiere generale nella città sede dello sconsiderato governo europeo, così sbilanciato a favore di chi sfrutta la forza lavoro”.

 

L’immagine che prevale in questo arcipelago europeo, pure tra difformità, è infatti quella di un mercato del lavoro fluttuante, connotato da impieghi discontinui e variabili, tra i quali aumenta il numero dei working poor, con residui di politiche sociali e assistenziali sempre più subordinate alla accettazione della massima disponibilità e flessibilità dell’impiego precario, oggi incarnata dal lavoro scarsamente qualificato e scarsamente retribuito della Gig Economy. In realtà, i diritti sociali e collettivi ottenuti dal lavoro non sono affatto rappresentazione di una naturale evoluzione della civiltà giuridica, ma un’eccezione divenuta possibile quando il movimento del lavoro si è presentato come soggetto collettivo. Oggi notiamo una completa ridefinizione del rapporto tra lavoro e cittadinanza, si riaffermano dinamiche escludenti a tutto discapito di quelle includenti.

 

Il tema dell’aggiornamento delle forme della rappresentanza e della assicurazione sociale è, perciò, più che mai centrale in un mondo dove, mentre la robotizzazione avanza, aumenta lo stato di sfruttamento intensivo non del lavoratore ma della persona nella sua interezza, all’interno di un lavoro completamente “soggettivato”, che, indipendentemente dalla professione, tende ad allagare gli spazi della vita. È il lavoro ri-produttivo, è il lavoro sociale prodotto e riprodotto nel tessuto sociale (dalla cura alla comunicazione e al consumo), che sollecita costantemente i retroterra emotivi, cognitivi, relazionali del soggetto. Vanno tenute in conto la modularità della prestazione richiesta, la diversità dei contratti, le differenze retributive a parità di mansione. Allo stesso tempo, avremo varietà soggettive di partecipazione e di coinvolgimento, vale a dire varietà di percezione soggettiva, e modalità difformi di fare appello a risorse, energie, competenze, emozioni e comportamenti soggettivi del corpo-mente. Il problema dell’unità d’azione si pone allora con sempre più forza e rigore sul piano della attualità, delle battaglie politico-sindacali che vanno realizzate in modo dinamico, con innumerevoli collegamenti ramificati, da costruire giorno per giorno.

 

Evidentemente, non ci si può limitare al breve elenco degli effetti dei nuovi imperativi sociali fondati sulla prestazione individuale che “elegge la forma impresa come forma soggettiva adeguata alle esigenze produttive del capitalismo contemporaneo”, come notano Federico Chicchi e Anna Simone. È necessario rimarcare come la trasformazione del paradigma di produzione e la presente forma precaria dell’organizzazione del lavoro – in apparenza autonomamente dis-organizzata e sparpagliata sul territorio – si reggano su meccanismi di etero direzione e di ricatto, resi possibili proprio dalla parcellizzazione della responsabilità sociale, “al fine di rendere più efficaci e fluidi i processi che presiedono all’accumulazione del valore”. Cioè, appunto, per intensificare lo sfruttamento, si segmenta il mercato del lavoro anche tra chi sa reggere la stretta della società della prestazione e chi invece va abbandonato al suo quotidiano burnout (senso di impotenza, mancanza di controllo, senso di sovraccarico, disadattamento da mancanza di riconoscimento, esaurimento emotivo).

 

 

È il collasso della sicurezza collettiva, che ha funzionato come scenario nel fordismo, a rendere obbligatoriamente adattabile il soggetto al sistema, predisponendolo alla competizione con altri, in una gara che deve trasformarsi nell’impresa della vita per la sopravvivenza. Nel libro, Graceffa rileva infatti che la preoccupazione per la protezione sociale si è “spostata sull’individuo che si considera come una impresa unipersonale a tutti gli effetti, alla ricerca del miglior livello di rendimento, del miglior rapporto qualità-prezzo e cerca di ridurre al massimo i suoi oneri sociali”. L’immissione del desiderio, in tale processo, è passaggio significativo ma tuttavia, a mio avviso, regge ormai a fatica, eccezion fatta per gli addicted: venti anni di “postfordismo” savage lo hanno consumato, amore sfinito da pratiche di bondage non consensuali. Dunque è un desiderio non veramente desiderabile, una simulazione di piacere da produrre nel meccanismo spettacolarizzato di compra-vendita della merce lavoro, in un mercato dove il dumping è la norma e i prezzi sono in infinita discesa.

 

Tra queste direttrici complesse e in tensione, SMArt e Graceffa provano ad articolare una risposta e una proposta, scoperchiando le questioni relative ai nuovi modelli di distribuzione, della solidarietà interpersonale, delle necessità di un regime europeo universale di previdenza sociale. Non è un caso che la Société Mutuelle des Artistes muova dalla difesa mutualistica degli artisti, lavoro intermittente, individualizzato per eccellenza, paradigmatico dell’economia dell’affetto e dell’imperativo creativo applicato al campo sociale. L’artista è perfetta metafora del lavoro nella contemporaneità. E lo stesso vale per il lavoro riproduttivo svolto dalle donne, oggi archetipo dell’interezza di un agire sociale (riproduzione sociale) che viene riportato nell’alveo della forma di vita capitalistica. Il libro si apre sul parallelo tra lavoro sociale e lavoro artistico: in entrambi i casi si tratta di lavori che hanno una funzione sociale, una grande utilità pubblica, ma “la società non concepisce tale impegni come un lavoro”. Si allarga allora (finalmente) la consapevolezza che il nucleo del problema che abbiamo oggi con il lavoro si genera a partire dai lavori, dai mestieri, dai compiti fondamentali per la crescita, il benessere, la coesione ma storicamente non riconosciuti, non retribuiti, non tutelati. Ivan Illich li ha chiamati lavori-ombra, potremmo anche definirli lavori-specchio della modificazione generale del lavoro. Nell’assenza progressiva di forme di mediazione statuali, il problema si fa (finalmente) comune: “Lo si voglia o no, il lavoro dipendente a tempo indeterminato non è più la forma predominante dell’impiego”, afferma Graceffa, e appare ineludibile la necessità di superare la nostalgia, “inventando un nuovo quadro fondato sulla solidarietà e sul mutualismo”.

 

È molto interessante, dal mio punto di vista, che i presupposti di una rete mutualistica, partano da questo snodo, immaginando “contropartite per il lavoro svolto fuori dall’impiego”. Si legge: “Bisognerebbe pensare a forme di remunerazione per coloro che si occupano dei loro genitori, dei loro figli, dei loro vicini o che si mobilitano per la creazione di legami sociali nel loro quartiere […] uscendo da una visione riduttrice che è troppo a lungo prevalsa nella nostra società”. Il ragionamento porta a concepire forme di reddito universale in cambio di una attività o funzione utile all’interesse generale, che va a contribuire al bene comune, a modi migliori di vivere insieme: dal lavoro di cura, alla cura della campagna, all’accoglienza turistica delle regioni, alla costruzione e all’intrattenimento dei paesaggi di cui beneficiano tutti. Graceffa solleva il tema dei corrispettivi, dei riconoscimenti “anche simbolici”, legati al ruolo che ciascuno individuo può giocare nella società. Benché non si parli di reddito incondizionato, l’idea di connettere forme di reddito alla costruzione di comune mi sembra azzeccata, anche considerando che tale costruzione è già in atto nella società: si tratta di aiutarla a individuarsi, riconoscendola, si tratta di salvaguardarla, cosicché ancora, e meglio, possa svilupparsi. D’altro lato, non si avvicina, forse, tale proposta, all’idea del Commonfare, di un Welfare del comune, che cerchiamo di precisare e di rappresentare, creando connessioni tra esperienze collettive, generazione di comunità, a partire dal riconoscimento della ricchezza collettivamente prodotta? “Praticabilità della vita, e quindi del lavoro e della produzione”, ha scritto Lucia Bertell in un bel libro che si intitola Lavoro ecoautonomo, “intrapresi e portati avanti a partire da combinazioni di vecchie e nuove categorie: reddito, rimuneratività, relazioni di utilità e vita, diversamente combinate e significate”.

 

C’è certamente un grande bisogno di liberare il lavoro dalla sua subordinazione e la proposta, avanzata da SMArt, di creare un regime europeo universale di protezione sociale insieme alla promozione di una economia collaborativa e non predatrice è la strada giusta, la trattazione che conducono appassionata. Senza entrare nel merito della attuabilità specifica del progetto nel contesto italiano, che trovo complessa, l’ispirazione è corretta: riconnettere i lavori alle prese con la loro atomizzazione, ricostruendo solidarietà e rappresentanza pur fuori dalle liturgie del modello unico che ha condizionato fino a qui l’agire sindacale tradizionale. Ricostruire allora regole collettive di protezione sociale, cosicché le persone non si sentano buttate, in solitudine, nell’arena dell’auto-sfruttamento, quand’anche tale condizione venga nobilitata dalla dizione auto-imprenditorialità (ancora una volta l’abuso del linguaggio).

 

Provocatoriamente, infine, ma anche seriamente, aggiungo che i lavori slash del presente (ricercatore/badante; giornalista/fattorino; art director/cameriere; progettista/casalinga) fanno paradossalmente giustizia della gerarchia tra i lavori, riportando il desiderio fuori dall’impiego, laddove è più giusto che sia, vale a dire sul terreno del cambiamento della vita e nella costruzione politica di reti sociali. L’ingiustizia sta nella mancanza di diritti per poter condurre una vita buona e dunque nella mancanza di tempo e dunque nella mancanza di reddito. Non nella rivendicazione di un ruolo, condizionato dall’ordine stabilito dal potere. L’idea di una equivalenza dei lavori va rilanciata e può prestarsi a una forma inedita di ricomposizione. Va valorizzata per cambiare di segno al pressing neoliberale e alle conseguenti, faticose, esposizioni che fragilizzano l’Io invece che rafforzarlo, tra voti infiniti di povertà. Questa è la partita politica che debbono affrontare le nuove soggettività, che sul pilastro della rivendicazione di reddito e di un nuovo ecosistema, meno schiacciato sul produttivismo, debbono puntare a costruire un nuovo patto.

 

La cognizione della condizione comune, la proposizione di forme aggiornate di mutualismo, può guidarci verso l’identificazione del tratto generale che sta alla base dello sfruttamento contemporaneo, che dilaga dentro l’esistenza. Tale cognizione è una forma di potere, che si materializza esattamente nella consapevolezza dell’essere, tutte e tutti, egualmente assoggettati dall’identica fragilità. Si può puntare a risolvere, almeno in parte, tale delicato aspetto della condizione umana solo attraverso una seria riscoperta del senso della condivisione e del ruolo della collettività.

 

 

Sandrino Graceffa sarà in Italia per presentare il progetto europeo di SMart e discutere di mutualismo il 10 novembre, in occasione dell’evento “Economie del mutualismo” organizzato da SMart e Human Foundation alla Città dell’Altra Economia a Roma, dalle 18.30.

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