La poesia di Giuliano Scabia / Cisbicchio!

Una vecchia tipografia milanese, restaurata da poco, con annessa cartoleria. Si vendono articoli di cancelleria vintage: quaderni, matite, pennini. Un bel signore, capelli d’argento, sorriso mite, occhialetti curiosi, è seduto dietro un banco di legno laccato di chiaro. Voglio comprare dei pennini: ce n’è uno a forma di manina con l’indice puntato, mi ricorda lo yad o teitel, il cursore per la lettura pubblica del Sefer Torah. E poi c’è quello a forma di torre Eiffel: un miraggio delle mie scuole elementari. Chiedo al signore se posso vederne qualcuno ma – sorpresa – il venditore di pennini non è lui. Peccato. 

Un movimento goffo e faccio cadere con la borsetta l’espositore di cannucce – ne acquisterò una verde bosco, lucida, bellissima. E il signore argentato, serafico, commenta con arguzia intorno alla pericolosità delle borsette delle donne.

 

È il 2 giugno 2015: sono arrivata in questo posto fuori del tempo – la cartoleria e tipografia Fratelli Bonvini – per la festa di Doppiozero e per assistere al reading di un poeta che non conosco. Ma il mio interesse è tutto rivolto al presunto venditore di pennini. Chissà chi è. Si muove elegante, discreto. 

Tutto è pronto per la lettura nel piccolo cortile sul retro della tipografia. E – sorpresa sorpresa – il poeta è il finto venditore di pennini! Beh, mi dico, non avevo poi sbagliato di molto. Con penne e pennini ha pur sempre a che fare.

Lui è Giuliano Scabia e legge con fascino (di quello sì, ne ha da vendere) alcune quartine del suo avventuroso poema Albero Stella di poeti rari. Quattro voli col poeta Blake. La lettura è così coinvolgente che trascina anche me sul platano grande di St James Park, in volo sopra Londra in compagnia del poeta visionario, sua guida, suo Virgilio. E mi fa attraversare d’un fiato tutta la poesia, tutta l’epica fin dalle origini.

 

Mentre legge mi trovo a dirmi: toh, ma questo è Omero, questo è Dante, e Ariosto, e questo sa di Pascoli, e qui Leopardi e qui e qui… ma tutto è nuovo, tutto ha un timbro, una cadenza mai sentiti, un passo lieve come un frullo d’ali, un profumo di pane appena sfornato. 

Esco da lì con la voglia di correre e rimediare all’ignoranza. Mi sono accorta – direbbe lui – che esiste il poeta Giuliano Scabia. Ma ci voleva la voce, la sua voce. Che mi è rimasta dentro e ora, quando torno ai suoi versi e alla sua prosa, o li leggo con gli studenti, ritrovo quel passo, quell’accento e mi pare di vederlo a fianco a me – ma un po’ discosto – o laggiù in fondo all’aula. E non so dire l’emozione che mi ha preso, la contentezza che mi ha travolto quando ho letto la trilogia di Nane Oca: è stato un po’ come tornare a casa, nel paesetto di campagna lombarda (non che voglia tornarci, ma è sempre là in fondo). O quando ho visto i filmati di alcune sue azioni teatrali: benedetta la rete se concede a chi allora era distratto di guardare a ritroso Marco Cavallo, il Gorilla, l’angelo e il diavolo l’un l’altro legati sorprendere gli ignari abitanti del Casentino. Ma mi mancava vederlo all’opera prima della messa in scena. 

Così, non ho perso l’appuntamento dell’annuale festival L’importanza di essere piccoli, promosso dall’associazione culturale SassiScritti, che recava in programma per il 6 agosto Giuliano Scabia con i suoi Canti brevi e l’accompagnamento di solisti e musicisti diretti da Saverio Lanza. 

 

Siamo partiti per l’appennino tosco-emiliano, su su, bordeggiando boschi che non godevano acqua da mesi, lungo la strada che porta a Porretta fino alle spalle di Pistoia, a Spedaletto. Vi si è fermata due mesi Matilde di Canossa, dicono. Chissà, forse impedita dalla neve che allora doveva scendere generosa. All’ingresso un involto, una chiesa in pietra grigia in cima a una scala che sale di traverso alla facciata chiusa dal poderoso campanile, un pugno di case linde e ben restaurate, gran vasi di fucsie e zinnie nella piazzetta, un lavatoio, una fontanella pubblica che chiacchiera, il Limentra che gorgoglia a fil di voce e, di là dal rivo su un dosso erboso, un piccolo cimitero che fa desiderare di riposare lì in eterno. Qui, una visione straniante: seduto a gambe incrociate, addossato al muro di cinta, c’è un giovane solitario che pare un santone indù. Il paese è un incanto. Il bosco tutt’intorno. 

Nel tardo pomeriggio arriva Giuliano con i musicanti per l’ultima prova. È per questo che sono qui. Il poeta è già venuto per altri sopraluoghi, questa è l’ultima messa a punto dello schema: sono giorni – dice – che fa disegni per cercare di capire quale dev’essere la forma della commedia. Ce li mostra: una drammaturgia pensata e preparata con matite colorate su fogli di carta bianca o gialla – somiglia a quella usata nelle botteghe dei macellai. In uno di questi sono ben rilevate le linee nere che da alcuni punti segnati su una linea chiara a zig zag arrivano al blu di un grande cielo stellato. Scabia si incammina verso la chiesa, sale i gradini e sosta davanti all’ingresso, alle spalle il campanile: è la prima delle sei stazioni in cui si snoderà l’azione, da qui partirà il corteo che attraverserà il paese. Ma ora assistiamo alla prova. 

Giuliano ha attorno i musici, in mano i Canti brevi, e dice: sono come una coppa in cui stanno appollaiati sul bordo tutti i poeti, i personaggi e gli amici cui sono dedicati. Da questa coppa il canto si alza verticale, seguendo la linea del campanile, verso il cielo. Ecco, la commedia è questa, e mostra il disegno. E continua scandendo le parole, lasciando ad ognuna il proprio spazio in modo che ci arrivi dritta, scolpita, avvolta solo dall’inflessione pavana: noi cantiamo per le stelle, deve entrare molto dentro questa idea che a fatica lo ha visitato. Perché ogni luogo ha una sua forma data dai muri e dalle presenze, l’ascolto è l’inizio del teatro.

 

 

Racconta dei greci che facevano i loro teatri in luoghi adatti all’ascolto, come il teatro di Epidauro che è in una valletta dall’acustica perfetta e ascolta la foresta intorno, e gli animali che poi entrano dentro le tragedie e le commedie, ballano nel coro e si fanno sentire in alto. Ecco, dunque, perché siamo qui: da questo luogo in su, e poi a zig zag per il corpo del teatro, che è il paese tutto, andiamo nel punto più elevato a cantare l’infinito – Sempre sarà che stelle chiare – a parlare sempre con le stelle non con le persone, con il cielo della notte, anche se ci fosse temporale. E allora qui cominciamo con Notte. Questa non l’avevamo provata, dice Giuliano, ma non ce n’è bisogno, i musici sanno bene che fare, tra poco andranno a cantar messa. Noi si aspetta la notte con le sue stelle per lo spettacolo che per noi c’è già stato.

E la notte arriva, serena, stellata. Giuliano è in cima alle scale della chiesa, di sotto s’è assiepato numeroso il gruppo d’ascolto. Ci dà il benvenuto e le istruzioni su come procedere in corteo, mostra il piccolo libro tutto arredato con i colori delle bandierine segnapagina. Da qui si leveranno i canti per far ri-sonare il paese e per farli arrivare fino stelle, questo è il teatro: chi ci sente? chissà dove arriva la nostra voce.

Ma prima, per introdurci nel teatro della poesia, legge l’inizio di Una signora impressionante: è la sua idea di poesia. Legge fino a questo paragrafo:

 

Poesia è nel corpo. Corpo della poesia. Un’allodola (ce ne sono ancora? le guardavo passare a stormi e le ascoltavo) quando vola e canta è poesia. Come l’usignolo. Come il gatto che cammina. Come la lepre che fugge. E l’acqua che scivola. E la trasparenza. E la brezza. E allora?

Allora anche l’azione è poesia: dire la poesia, cantarla – ma anche costruire una poesia, metterla nel mondo: una casa, un giardino, una bicicletta, un bacio, un cavallo azzurro: quando coi matti abbiamo fatto il cavallo azzurro sentivo che insieme costruivamo una poesia.

 

Scabia ci sta chiamando a fare poesia, insieme, con il nostro ascolto e il suo canto.

Poi racconta la storia del librino: l’ha voluto un amico di Valverde, sulla montagna Etna, per la sua piccola casa editrice, Le Farfalle, 499 copie numerate, non una di più: ma qualcuna però ve la faccio sentire mentre passa quel bambino, ciao bambino buonanotte, e la sua mamma, e la nonna, guarda che meraviglia, buonanotte buonanotte, ciao bambino, ciao. 

Ecco, dopo lo studio, i sopraluoghi, i disegni è arrivata anche l’improvvisazione. Scabia ha catturato nell’azione anche chi se ne sta allontanando.

Poi, legge, legge dapprima Utopia del Paradiso dedicata a Benenghéli, il suo cavallo di cartapesta – a grandezza naturale! –con cui ha galoppato per boschi e prati:

 

Torneranno i ciuchi e i cavalli

a parlare del Paradiso – le valli

e le pianure trionferanno d’insetti

e uccelli – il Sole in suo carro

borioso e noi con lui a esplorare 

l’ombra. Com’è ricco

il futuro. Ricco di

non essere ancor giunto alla presenza.

 

E continua: ve ne leggerei tantissime, ma ci aspettano le stelle, il canto per le stelle. La poesia nasce tutta cantata, poi s’è perso il canto… avete mai pensato al primo verso del Canzoniere, sistema di canti, il suono… lui sta parlando della musica non della sua dolenza amorosa.

Questa però ve la leggo, è dedicata al Gorilla Quadrumano.

E questa perché è dedicata ai miei amici di Marmoreto… e anche questa perché mi piace tantissimo, e questa perché c’è una chiave nell’ultimo verso. Ma ve le leggerei anche tutte, perché io, mi godo a leggere, mi godo!

E ora basta, fermiamoci qui. Il resto della lettura, della lezione (niente musica quando dico la poesia, perché se no si rovina la musica e si rovina la poesia, anche i film che mettono la musica sotto i dialoghi: bocciati, non si deve fare), del lungo corteo dietro al poeta e al coro, della preghiera nel buio della notte davanti alle colonne degli abeti sul limitare del bosco, o in riva al torrente, fino all’epilogo buffo della distribuzione del santino, lo lasciamo all’immaginazione. 

Ma grazie Giuliano, abbiamo goduto anche noi. Cisbicchio che godimento!

 

Angela Borghesi

 

Il teatro verticale infinito di Giuliano Scabia

 

Canti brevi per il cielo della notte

(osservando Giuliano Scabia mentre costruisce un nuovo dramma)

Luglio 2017.

Sono venuta da Nimes per seguire Scabia mentre prepara l’azione dei Canti brevi.

È una struttura nuova – mi dice Giuliano mentre disegna nel suo laboratorio. Sta cercando la forma dello spettacolo. Vedi – dice – il paese è il palcoscenico, tutto il paese, il centro è la chiesa, la scalinata, il campanile quadrato è l’asse. Ma la forma non è orizzontale, è verticale.

Verticale? – domando.

Verticale, – dice. – Canteremo e reciteremo per le stelle. Il soffitto del teatro saranno le stelle. Un soffitto infinito.

Ecco – adesso ha completato, a colori, la partitura: si va a zig zag per tutto il paese (che è piccolo, col suo torrente) e nella parte alta del disegno c’è il blu con le stelle d’oro e la luna.

È una forma che sto cercando di capire, – dice Scabia. – È nuova nel Ciclo del Teatro Vagante.

E come mai nasce dai Canti brevi? – domando.

Perché la poesia è la radice del teatro, – dice Giuliano. – E perché è venuto il momento di aprire il cielo del teatro verso l’infinito.

Scabia ha preparato a lungo questo evento insieme a Saverio Lanza – il compositore che lavora sulle voci improvvisando – con due visite di sopraluogo, una di giorno e una di notte.

Nel sopraluogo notturno verso mezzanotte ho sentito prendere forma il dramma, – dice Giuliano. – Era già lì, mi è entrato nel corpo.

Nel suo sperimentare Scabia ha aperto nuovi spazi e forme del teatro e della poesia. Ora assisto al nascere di una nuova visione – vedo la visione di Giuliano.

 

6 Agosto. 

È annunciato un temporale ma poi vengono le stelle: il cielo del teatro è pronto. Nel programma è scritto: Prologo, Partitura, Epilogo Taumaturgico. Il pubblico è particolare nell’ultimo giorno del festival “L’importanza di essere piccoli” inventato dai SassiScritti di Daria Balducelli e Azzurra D’Agostino – è intenso, curioso, grato. Sa di star per entrare in una cerimonia unica. 

Sono molto emozionata – è la prima volta che assisto a un evento di Scabia, “il più imprevedibile dei poeti italiani”.

Eccolo che appare sulla scalinata della chiesa. Ha in mano il libro dei Canti fiorito di petali – i segna pagina colorati. Questo piccolo libro, – dice – è un nido: sul suo bordo, come uccelli appollaiati ci sono dei, poeti, il Gorilla Quadrumàno, Nane Oca, il mio cavallo Benenghéli, amici – tutte le poesie sono dedicate. Tiene fra le mani il libro come una coppa. Da questa coppa, – dice – si leva il canto, che sarà per le stelle.

Poi parte il coro e sul canto Giuliano dice la prima delle 6 poesie scelte: 

 

Sto sulla soglia pronto

a indossar la notte – ma

che maschera verrà stanotte

a indossare me?

 

Ed ecco che non lontano si ode un altro canto – Giuliano, preceduto dal portatore d’altoparlante – guida verso il luogo della seconda stazione. Andiamo attirati dal coro – il legamento è da coro a coro, chiamati dal canto.

Quando arriviamo – nel buio – a una radura di pini alti vedo di colpo la forma immaginata da Scabia. Stiamo cantando (orando) verso l’alto, l’altissimo – il teatro (la poesia) è sulla sua soglia suprema.

L’ultima stazione (la sesta) è la più verticale. Il coro, seminascosto in un avvallamento, ci ha chiamati/convocati nel buio del bosco. Qui sale il canto tremante mentre Scabia dice: 

 

Sempre sarà che stelle chiare

davanti in ogni parte notte

a far cammino avremo. In nostre

barche per il tempo sparse

astronavi anime andremo

e sempre più chissà forse vedremo

dell’infinito il bordo estremo. Sì?

 

Esiste forma più pura e non chiesastica di preghiera? – mi dico. 

Ecco, la forma del dramma è compiuta come era stata progettata. Giuliano dice i versi dell’infinito seminascosto fra le foglie.

Poi scendiamo verso la piazza e là, accanto alla fontana, Scabia capovolge il dramma. Viene il momento “comico” della consegna del santino taumaturgico de L’azione perfetta. Ma prima Giuliano dice anche che siamo fragili, che siamo in pericolo, che l’acqua è in pericolo, che la specie si deve preoccupare. Poi mostra come far diventare efficace il santino taumaturgico – io non ci credo, dice, ma non si sa mai – e scende fra la gente per consegnarlo a tutti, mentre il coro canta e tutti si uniscono al canto, improvvisando diretti da Saverio.

Non si sa mai – ma io ci credo, – dico fra me e me, mentre prendo il santino. 

Dove sono stata, in che sogno, stelle e notte?

 

Marie France Deneige

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