Come si può fare letteratura dopo piazza Tian’an men / Zhu Wen lascia

15 Marzo 2017

Zhu Wen: stralci da un’intervista. Parole sue in viva voce, in quell’inglese approssimativo. Traducendole in italiano fatico a riprodurre un’intonazione, la cantilena personale. Vengono frasi un po’ afone: ma tant’è.

Casa sua è Nanchino, la sua giovinezza nella seconda metà dei dorati anni ottanta promessa di riforme, di maggiore libertà, di vento nuovo. Finita e archiviata la Rivoluzione Culturale, riabilitate molte tra le vittime. 

Niente studi letterari: la famiglia gli impone la facoltà di ingegneria per irreggimentarlo. Fin da bambino, dice, “ero pieno di talento e quindi considerato una testa calda: attenti, dicevano gli insegnanti ai miei genitori. Sa pensare con la sua testa”. Sa usare le parole, sa esprimersi, è il migliore quando scrive articoli per il giornale della scuola. Me lo racconta Zhu Wen, tutto questo: è la sua versione.

Si è seduto tranquillo, abbandonato sullo schienale. Nessun nervosismo, nessuna urgenza di sottolineare passaggi importanti. Racconta, e chissà quante volte già gli hanno chiesto di raccontare se stesso. Ho letto alcune interviste, oggi mi sembra – o è una mia speranza – che ripercorra le proprie tappe con più libertà, come se stesse parlando di un altro. Lo aiuta il tono strafottente, sempre: liumang. Con me se lo può permettere, lo sa. 

 

Non ci ride, non commenta i fatti che descrive, non enfatizza mai. “Mi tenevano d’occhio: ecco perché mi iscrivono a ingegneria, che porta diritto a un buon lavoro, ben pagato, stabile.” Genitori in difficoltà, i suoi. Non è un problema di soldi, anzi: è che un pezzo della sua famiglia, cugini, zii, sono scappati. Loro sono di Quanzhou, di fronte a Taiwan (“Il capolinea oceanico del viaggio di Marco Polo”, mi ricorda). E quindi è facile uscire dalla Cina comunista, andare a cercar fortuna. I suoi genitori, parenti stretti di cotanti reazionari espatriati, sono sotto sorveglianza. 

“Con l’inizio della Rivoluzione Culturale, le cose si mettono male. Lì davanti c’è Taipei, ci pensi? I miei vengono subito spediti in campagna. Per loro è un’umiliazione, io invece ero contentissimo di vivere in un paesotto, libero di andare a zonzo, con tanti altri bambini intorno: la mia infanzia è stato un gran bel periodo. È lì che sono diventato un po’ selvaggio.”

Testa calda, talento, un po’ selvaggio: parole pronunciate con quella presunzione da bulletto. Una sua specifica forma di grazia. 

 

Quando la tempesta si placa, tornano a Quanzhou, poi il padre trova lavoro a Nanchino. Tu entri a ingegneria. Come reagisci?

“Comincio a scrivere poesia”, è la meravigliosa risposta. “Diari. Una reazione a quella scelta forzata. Come una vita segreta, notturna. Ma non dimenticavo l’università, studiavo tanto, sono diventato un buon ingegnere. Mi è sempre piaciuto il lavoro duro: I was devoted.” In inglese: dedicato. Allo studio, al lavoro, a tutto quel che fa: ingegnere di giorno, poeta la notte. Ci tiene, a questo ‘devoted’.

“Sono stato fortunato a capire che potevo esprimermi scrivendo. Ma restava un segreto.” 

Si era già fatto notare. Fin dall’università: si vive in camerata, i compagni ti vedono che passi la notte a scrivere. La voce corre: e un giorno gli si presenta un poeta noto: un tipo silenzioso, chiuso, piccolino: “Chi poteva mai pensare che saremmo diventati amici, noi due, così diversi”... Ha ancora vent’anni Zhu Wen, mentre me lo racconta: io vedo lui in quel periodo, faccia da schiaffi.

 

Ph Christophe Agou. 

 

A sentire Zhu Wen, questo poeta è famoso in università: giovanissimo, è nel gruppo che pubblica ‘Tamen’ (Loro): una rivista illegale, ci tiene a ricordare Zhu Wen: “Potevi essere arrestato”. Una rivista che però riesce a prosperare nel clima di apertura di quegli anni. “Non c’era spazio per un’editoria indipendente, le case editrici erano”, e sono ancora adesso, anche indirettamente, “controllate dallo stato”. Anni grandi: Zhu Wen diventa uno dei protetti della redazione, Han Dong che ne è il carismatico e più anziano leader, diventa il suo mentore. Comincia a incontrare nomi affermati.

Gli anni ottanta meriterebbero un libro a sé, con le voci di questi reduci, ragazzi in crescita in un atipico maggio francese, denso di discussioni infinite su ogni possibile testo, oltre che di bevute e cameratismo. Gli anni forti della formazione, quando finalmente in Cina si traduceva tutto dal mondo intero, e i giovani passavano nottate a parlare, costruendo la propria personalità artistica e una rete di relazioni che non si è mai spezzata. Immaginavano un futuro che non venne. 

 

Di ‘Tamen’ escono quattro o cinque numeri, poi è l’89. I carri armati in Piazza Tian’an men, i morti, gli arresti, la fine di tutto. Zhu Wen: “L’89 è la cosa più importante della nostra vita. ” 

Ma l’89 è censurato, non esiste. Tema sensibile: per gli scrittori è una porta sbarrata. Come si può fare letteratura dopo piazza Tian’an men, è una possibile domanda. Da una prospettiva artistica è peggio: come fare letteratura se la cosa più importante della tua vita va negata, cancellata. Il grumo nero e innominabile si annida, duro come un diamante, dentro alla vitalità creativa e all’immaginazione dello scrittore.

Non è una sindrome di Stoccolma, è al contrario una necessità cosciente di rimozione: per Zhu Wen e i suoi amici imposta dall’alto, per altri autoimposta per non presentare alla censura testi considerati inaccettabili.

 

L’89 di Zhu Wen ha un decorso facilitato. Lo spavento, il silenzio nel quale si vivono i giorni di giugno a Nanchino, finiscono superati dalla realtà. Dopo settimane di solitudine, nelle quali i ragazzi di ‘Tamen’ non osano neppure incontrarsi, Zhu Wen a luglio deve discutere la sua tesi di laurea. Ne esce a pieni voti. È fortunato: in città è in costruzione una centrale termoelettrica, viene assunto di filata e lavora per anni alla costruzione dell’impianto che è destinato a divenire l’impiego di una vita.

Sorprendentemente, gli piace: “Non frequentavo i quadri, ma gli operai”. They speak brave, mi dice Zhu Wen. “Ci tenevo a essere membro di quella working class.”

Stentoreo: “Non mi piacciono gli intelligenti”.

E leggendo i suoi racconti lo si ritrova in pieno, questo suo mondo.

 

Si divertiva: “Stavo con gli operai: fighting, drinking. Sharp speaking”. Day and night. Di notte scrive, in gran segreto: lo avrebbero preso in giro. “Ma la poesia è pura”. La fabbrica è sull’altro lato del fiume, rispetto al centro di Nanchino, lui alloggia in dormitorio: work and write, day and night.

La poesia è purezza: ribadito più volte, come un mantra. È lì che alberga Zhu Wen: è la sua tana e la sua espressione più autentica: il calco, l’origine, l’avatar più compiuto del bambino selvaggio e del bulletto liumang. Ci tiene a ribadirmelo, a ricordarmelo ogni volta: “Poetry is pure”.

Nel weekend il giovane Zhu Wen prende il bus, attraversa il ponte e va in città. Va a trovare i poeti: sono momenti bui, per la libertà di espressione. Gli amici arrestati a Pechino, scomparsi. Su tutto ciò, lui oggi preferisce sorvolare, un rapido accenno – un ricordo forse troppo forte.

“Era anche un tempo felice: la costruivamo noi, la centrale. In cinque anni. Eravamo orgogliosi e felici di costruirla.” 

Quando i primi moduli entrano in funzione insegna il lavoro ai nuovi arrivati. 

Continua però ad attraversare il ponte in autobus, nei fine settimana. Ha convinto gli altri (siamo nel ’91) che la rivista deve andare avanti: ‘Tamen’ riapre, lui e Han Dong ne sono il motore dentro a una sensazione di pericolo costante. Ma riescono ancora ad attrarre firme importanti: pubblicano un pezzo breve di Mo Yan, futuro premio Nobel. È il dopo Tian’an men, eppure me li descrive come begli anni, a Nanchino.

 

Ci pensa un po’. Mi chiede un bicchiere d’acqua. Tiepida, come usano i cinesi. Ho imparato anch’io a prendermi cura di me, a cullare il corpo con la purezza e il conforto di una tazza d’acqua calda. Buona digestione, umidificazione, senso di benessere che si spande dalle viscere alle membra. Distende la mente: oggi mi riporta alla domanda che ho sulla punta della lingua, la donna misteriosa a causa della quale rinunciò all’esilio, affrontò il pieno riaffermarsi della censura, ai limiti della paura fisica, il rischio della prigione. 

Ci alziamo, facciamo quattro passi dentro al mio bilocale, ci affacciamo alla grande vetrata, piano alto: è un bel vedere verso ovest, verso l’esterno. Oggi è una delle molte giornate di cielo azzurro – tante volte sono invece chiuso dentro a una foschia grigiastra densa di inquinamento. 

Al di là della zona verdissima delle ambasciate e oltre i cubi colorati del Village, il centro commerciale più alla moda della capitale, vediamo il terzo anello sopraelevato, le macchine in corsa, e il fondale di palazzi residenziali alti si apre all’altezza di Chaoyang Park, lasciando intravedere il quarto anello e altri grattacieli a grappoli. In fondo, sappiamo che c’è l’aeroporto, prima delle montagne con il loro profilo morbido. E le fabbriche, e i villaggi di campagna ancora poverissimi.

 

La mia domanda resta lì, perché lui posa il bicchiere, ricomincia a parlare: non vuole domande, vuole dire.

Il primo scossone: una costante nella sua vita. La centrale è pronta, il salario aumenterà, sta per iniziare una vita serena e confortevole, da quadro di fabbrica, fino alla vecchiaia. Zhu Wen – testa calda – va dal direttore, chiede un colloquio. Entra, siede di fronte alla scrivania e dice: voglio andarmene. Il direttore sgrana gli occhi. 

“I quit”, dice Zhu Wen.

 

Questo testo è estratto dal volume di Andrea Berrini, Scrittori dalle metropoli. Incontri a Pechino, Mumbai, Delhi e Singapore, Iacobellieditore, 2017.

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