I racconti di Miyamoto Teru / Bagliori fatui

8 Settembre 2018

Originariamente pubblicati in un arco di tempo che va dal 1978 al 1988, gli otto racconti contenuti in Bagliori fatui (trad. dal giapponese di Paolo Villani, ed. Carbonio 2017) hanno sancito l’ingresso nelle librerie italiane dell’opera di Miyamoto Teru, autore poco tradotto in Europa ma molto noto in Giappone fin dagli esordi, quando coi primi due romanzi brevi della cosiddetta “trilogia dei fiumi” (Il fiume di fango, 1977; Il fiume delle lucciole, 1977; Il fiume delle luci, 1978) ottenne rispettivamente il premio Osamu Dazai (1977) e il premio Akutagawa (1978), ovvero il più prestigioso riconoscimento letterario nazionale.

 

Nato nel 1947, Miyamoto Teru appartiene alla generazione di autori cresciuti durante l’età critica della ricostruzione postbellica. Le coordinate più ricorrenti nelle sue opere, di ispirazione spesso autobiografica, rimandano alla regione operaia di Osaka-Kobe, a quartieri di periferia e a villaggi desolati, e in generale a scenari di povertà che interessano gli strati più umili della popolazione, dimenticati nelle retrovie mentre il resto del paese inseguiva il miracolo di una rapida ripresa economica. Lo stesso Miyamoto conobbe da bambino il peso del fallimento dell’impresa di famiglia, trascorse un’infanzia e un’adolescenza costellate da numerosi traslochi e prima di dedicarsi alla scrittura, oltre a cercare di sostenersi con lavori a breve termine, soffrì di frequenti attacchi di panico quando fu impiegato presso un’agenzia pubblicitaria. In parallelo a una grande passione per la lettura, molte caratteristiche della sua sensibilità letteraria, in effetti, si direbbero maturate proprio a seguito di esperienze personali, a cominciare dalla profonda capacità di introspezione e dal sincero interesse per gli aspetti più riposti e problematici della vita quotidiana.

 

 

Una delle storie più intense della raccolta, Sulle scale, si apre con la rievocazione di un ambiente urbano fatiscente, dove il narratore racconta di essersi trasferito con la sua famiglia nel 1962, quando aveva appena cominciato le superiori: «Imboccando la traversa della strada percorsa dal tram si capiva che l’isolato del quartiere Taishō di Osaka dove vivevamo delimitava una zona di edifici abbandonati oramai inabitabili, un’area zeppa di caseggiati in legno con i tetti ondeggianti e le porte d’ingresso divelte». A distanza di molti anni il ricordo è indelebile e quasi insostenibile, per l’uomo che vorrebbe invece tagliare i ponti col proprio passato. «Non voglio più, cascasse il cielo, mettere piede in case da poveri» esordisce la sua voce nell’incipit del racconto. «Persino passare nei pressi di luoghi del genere mi fa venire la pelle d’oca.» Anche il protagonista del racconto che apre il volume, Forza vitale, è riluttante a rievocare la propria infanzia, benché un uomo incontrato per caso al parco glielo suggerisca come trucco per sentirsi meglio nei momenti di sconforto. «Cosa cambia se rammenti quel passato? Non puoi farci ritorno, la nostalgia si somma alla frustrazione.» Eppure, in entrambi i casi, come anche in tutte le altre storie, la dimensione del ricordo finisce per costituire il nucleo centrale di una narrazione stratificata, nella quale il presente della diegesi è perlopiù relegato ai margini in funzione di cornice.

 

Sarebbe davvero arduo tenere il conto di tutti i ricordi presenti nella raccolta, anche perché molti di essi sono ricordi di secondo grado, racchiusi all’interno di altri o appartenenti a personaggi diversi rispetto al narratore. Le occasioni da cui scaturiscono sono le più varie, e lo stesso si può dire del loro contenuto: si va da ricordi scolastici (Forza vitale, Vendetta) a vicende famigliari di abbandono, violenza e morte (Sulle scale, Bagliori fatui, La matita per le sopracciglia, La notte dei ciliegi), passando per situazioni più singolari risalenti agli anni dell’università, come l’incontro notturno con un ciclista (Morire e rinascere migliaia di volte al giorno) e una faticosa esperienza di lavoro presso un cantiere stradale (Il mistero dei pomodori).

 

In diversi casi, a fronte dell’ineludibile contesto di miseria, è proprio il ricordo a fornire ai vari personaggi una sensazione di riscatto o sollievo, perché permette loro di rievocare circostanze critiche che nonostante tutto hanno potuto sopportare o superare. Ciò avviene spesso quando il ricordo, cessando di essere soltanto una questione privata, diviene espressione di un bisogno relazionale e si trasforma in racconto condiviso, suscettibile di essere ridefinito secondo nuove prospettive. In Vendetta, confrontandosi dopo anni con alcuni ex compagni di classe diventati membri della yakuza e decisi a vendicare le sevizie di un vecchio professore di educazione fisica, un ragazzo cerca di spiegare loro perché non avesse fatto nulla per ribellarsi, e mentre prova a inventare una scusa ha l’impressione di aver detto inconsapevolmente la verità; in La matita per le sopracciglia il narratore trova strano che sua madre «raccontasse senza alcun freno fatti che finallora non aveva raccontato a nessuno», come un tentativo di suicidio di cui parla con un’insolita allegria; in Il mistero dei pomodori il protagonista inizia a narrare agli amici «intenzionato a farla breve», «ma nel tornargli in mente i ricordi lo coinvolsero tanto […] e continuò a raccontare con uno strano sorriso sulle labbra».

 

 

All’enfasi sulla stranezza, frequente e tutt’altro che casuale in racconti dove la messa a fuoco sul singolo dettaglio è quasi sempre sintomatica, fa poi riscontro il carattere straordinario ed epifanico che assumono determinati episodi attraverso il filtro della memoria. Anche i ricordi più tormentosi, in questo senso, sono concepiti come possibilità di andare oltre l’hic et nunc della propria condizione individuale e temporanea, instaurando un dialogo col passato e con le altre persone e attingendo a nuove energie derivanti da una più profonda comprensione delle cose. Il concetto di Forza vitale (Chikara) che dà il titolo al primo racconto, oltre a ricorrere in modo più o meno esplicito in diverse storie, indica un’energia precaria e preziosa, costantemente minacciata da spinte distruttive, che richiama il conflitto tra la vita e la morte ma soprattutto l’immagine di una loro misteriosa prossimità. Il ragazzo che in Sulle scale è costretto a sopportare una drammatica situazione famigliare, arrivando per disperazione a rubare e a picchiare la madre, trova nel luogo di passaggio della sua palazzina un ambiente che sembra la traduzione metaforica di questa energia da mantenere in equilibrio, come lui stesso comprende molti anni dopo:

 

Sedevo sempre sul settimo gradino contando sia dall’alto sia dal basso con una insistenza simile in qualche modo a una magia scaramantica. Era un luogo trafficato e sporco, ma era al centro del palcoscenico della palazzina. Se volgevo l’attenzione all’esterno sentivo le parole della gente in arrivo dalla fermata del tram, e mi sembrava di avvertire persino il calore carnale delle coppie che sottovoce si scambiavano effusioni per strada. Forse piantato su quel gradino cercavo di mantenere con tutte le forze il mio equilibrio umano. Il saliscendi su cui altalenavo poteva sbilanciarsi da un lato ma io ci restavo ancorato sopra.

 

In Morire e rinascere migliaia di volte al giorno, ciò che in una freddissima notte salva il ragazzo dal rischio di morire assiderato durante un lungo viaggio a piedi nelle periferie di Osaka, nonché dalla disperata solitudine di un mondo dove «le persone di buona volontà sono proprio poche», è il calore umano di un provvidenziale incontro con un ragazzo che lo invita a montare sulla sua bicicletta. Il ciclista alterna attimi di estrema depressione ed euforia, e benché in un primo momento venga scambiato per un pazzo dal compagno di viaggio, un suo pensiero circa le infinite volte in cui ricorda di essere morto e rinato, nonché di essere esistito anche prima della sua nascita, lo fa apparire ai suoi occhi sotto un’altra luce, tanto che arriva a paragonare il suo viso a quello di un santo. 

 

 

Parlando della genesi di un suo romanzo, Kinshu (1982), Miyamoto rievocò un’analoga intuizione che ebbe anni prima quando si scoprì affetto da tubercolosi, e che Nakagawa Hisayasu ha riproposto nella sua Introduzione alla cultura giapponese come esempio di un peculiare atteggiamento nei confronti della morte. Durante un viaggio in treno, l’autore cominciò a sputare sangue e pensò di essere prossimo alla fine, ma si sentì di colpo sereno quando fuori dal finestrino gli apparve «il rosso mantello di foglie che copriva una montagna stagliata contro il cielo stellato». «Il pensiero che mi colse all’improvviso fu, in sintesi, che persino dopo la morte si continua a vivere. D’un tratto quell’idea crebbe e mi riempì di straordinaria allegria: a volte assumiamo una forma di morte, altre una forma di vita; ma la vita che è la nostra origine non perirà.»

 

Riflessioni di questo genere compongono la trama nascosta della storia conclusiva La notte dei ciliegi, l’unica scritta interamente in terza persona, nella quale un’anziana donna, nel giorno dell’anniversario della morte del figlio, riceve la visita dell’ex marito e quella di uno studente, ma soprattutto trovano uno sviluppo compiuto nel racconto più esteso della raccolta, Bagliori fatui, in cui una giovane madre non smette di interrogarsi sull’inspiegabile suicidio del suo primo marito, e nonostante abbia cercato nel frattempo di rifarsi una vita, sposandosi e trasferendosi in un solitario villaggio di pescatori, sembra incapace di recidere i legami col passato. Concepito come un lungo monologo interiore della donna che è al contempo un tentativo di colloquio silenzioso con l’amante perduto, il racconto restituisce l’impressione di una memoria totalizzante, in bilico tra il pensiero ossessivo, l’appello a una realtà insondabile e la contemplazione, e in diversi passaggi – dalla descrizione delle increspature luminose sulla superficie del mare alla visione di spalle del giovane che cammina sulle rotaie sotto la pioggia – si dimostra esemplare della finezza con cui Miyamoto riesce a tradurre in immagini il mondo interiore dei suoi personaggi.

 

In un’intervista rilasciata nel 2011, contenente tra l’altro un accenno impietoso all’odierna letteratura giapponese, l’autore disse che gli scrittori sono condannati a descrivere cose che non si possono spiegare a parole, mentre proprio questa impossibilità ha concorso allo sviluppo di arti come la pittura, la musica e il balletto. Data la qualità evocativa e calibrata della sua prosa, non stupisce che diversi suoi libri siano stati oggetto di trasposizioni cinematografiche, dando luogo in almeno due casi a lavori eccezionali, fedeli allo spirito delle opere originarie: il toccante racconto d’infanzia e formazione Doro no kawa (Il fiume di fango, 1981) diretto da Oguri Kôhei, e il primo, superlativo lungometraggio di finzione di Kore’eda Hirokazu, Maboroshi no hikari (1995), tratto proprio dal racconto Bagliori fatui.

 

Nota

 

Il volume in lingua inglese che ha ispirato l’edizione italiana di questa raccolta, Phantom Lights (Kurodahan 2011), presenta gli stessi otto racconti in un ordine diverso (e a mio parere meno efficace), corredati da un’eccellente introduzione del curatore e traduttore, Roger K. Thomas. La stessa Kurodahan ha pubblicato nel 2014 Rivers, prima traduzione inglese integrale della “trilogia dei fiumi” di Miyamoto. L’edizione in lingua inglese di un’altra sua celebre opera, il romanzo epistolare Kinshu, è stata pubblicata da New Directions nel 2005, sempre a cura di Roger K. Thomas. Il passo relativo a Miyamoyo Teru tratto dall’Introduzione alla cultura giapponese di Nakagawa Hisayasu si legge alle pagine 49-51 dell’edizione Mondadori (2006). L’intervista citata si può leggere online sul sito di El País.

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