Febbre d'archivio / Sven Augustijnen, Le Réduit

12 Novembre 2016

Dirigendoci oggi verso la base militare di Kamina attraverso la strada che conduce verso il quartiere generale, vediamo sul lato sinistro un insieme di nove case circondate da filo spinato. Accanto alla bandiera della Repubblica Democratica del Congo sventola quella della Repubblica Popolare Cinese. L’insieme di queste nove case contrasta con quello sul lato destro della strada – erede del colonialismo belga - che porta le tracce di più di mezzo secolo di storia.

Sven Augustijen, Bruxelles, 15 luglio 2016

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen, vista della mostra, La Loge, 2016 - Copyright & Courtesy dell’artista e La Loge. 

 

A Bruxelles in un modo o nell’altro si parla sempre dell’Africa. Una mostra, un documentario, una conferenza o un semplice “appel à projet” affrontano sempre temi e problemi legati al continente africano. “Politically correct”, particolarmente sensibile agli “studi di genere” e all’arte engagé, il Belgio ritorna costantemente sul proprio passato coloniale, facendo i conti con un’eredità cruenta e indubbiamente controversa.

A gettare però nuova luce sulla tormentata storia coloniale e politica del Belgio è la mostra Le Réduit realizzata da Sven Augustijnen (Malines, 1970) presso “La Loge” di Bruxelles, un elegante “Tempio massonico” in stile modernista costruito alla metà degli anni ‘30 nel cuore della città. Scevra da ogni retorica e iconografia postcoloniale, l’esposizione infatti mette a fuoco uno degli ultimi lasciti del colonialismo belga in Congo in modo secco, sobrio e sincero.

 

Siamo alla fine degli anni ‘40 e in un clima paranoide e di paura dettato dall’inizio della Guerra fredda, il Belgio decide di costruire un vero e proprio “réduit nazional” nel Sud-est del Congo per ospitare il capo di Stato, i suoi ministri e le loro rispettive famiglie in caso d’invasione sovietica. 

Immune da tutti gli stereotipi e paternalismi che continuano ad affollarsi intorno a questo immenso ed estremo continente, Le Réduit ripercorre analiticamente la costruzione della base militare di Kamina, una piccola città ricca di giacimenti minerari situata a nord della provincia del Katanga. Come in Spectres (2011), il lungometraggio che ricostruisce il delicato processo di decolonizzazione del Congo attraverso l’assassinio del Primo Ministro Patrice Lumumba (17 gennaio 1961), anche in quest’occasione l’artista arriva subito dritto al punto, non ci gira attorno e lo fa presentandoci una serie di documenti d’archivio del “Centre de Documentation historique des Forces armées” che documentano la progressiva edificazione della città congolese ribattezzata “Cité de la Peur” o ancora “Couillonville” dalla popolazione locale. 

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen – La Loge, 2016 – fotografo anonimo – Courtesy dell’artista, La Loge & Centre de Documentation historique des Forces armées. 

 

Le Réduit, un progetto di Sven Augustijnen, vista della mostra, La Loge, 2016 – Copyright & Courtesy dell’artista e La Loge. 

 

Una successione di vedute aeree scattate da un fotografo anonimo nel 1953 mostrano la planimetria della città dotata d’infrastrutture civili e militari che si estendeva su una superficie di centinaia di kilometri, mentre un insieme di fotografie in bianco e nero montate su passe-partout ritraggono delle famiglie africane vestite con “gli abiti del potere occidentale”, delle abitazioni con i tipici frontoni triangolari in stile fiammingo e una serie di “cerimonie di Stato”, simbolo della “dignità imperiale” come “la posa della prima pietra” in terra straniera da parte di un generale. Queste immagini, “la cui evidenza brucia”, sono chiaramente molto lontane dagli “esotismi” del XVIII secolo e dai pensieri ibridanti e tipicamente postmoderni degli anni ‘80, ma anche da quella particolare imagerie postcoloniale che ha caratterizzato gli anni ‘90 e che ancora oggi influenza la poetica e il linguaggio di molti artisti. 

 

Cosa si agita allora in queste “memorie”, nel loro tempo storico e simbolico, di così profondamente diverso dalle silhouettes di Kara Walker, dai personaggi “di spalle” di John Akomfrah e dalle danses macabres di William Kentridge? Oltre al fatto che l’artista non è di origine africana e che il suo intervento si limita volutamente alla raccolta, alla scelta e all’esposizione di materiali d’archivio, cosa ci trasmette questo corpus d’immagini e documenti di così differente dalle narrazioni e dalle rappresentazioni di questi grandi “interpreti” del continente africano? La differenza sta nel fatto che le fotografie selezionate ed esposte da Augustijnen invitano a una radicale e immediata presa di coscienza della loro esistenza, coincidono e sono pari ai fatti del mondo che raccontano, non oltrealtrove

Nel Réduit, semplicemente, non c’è niente di bello, di epico e di poetico, nulla che possa emozionare o stimolare l’immaginazione verso un paese lontano e ancora parzialmente sconosciuto, seppur in modo intelligente e profondamente critico. In poche parole: dai materiali d’archivio ordinati in teche e vetrine dall’artista non risuona alcun “Triumphs and Laments”. Nell’asetticità degli album fotografici di militari e comandanti dell’esercito e nelle anonime mappe della città dove sono indicati ristoranti, prigioni e punti di ritrovo non trovano più spazio “I Maghi della Terra” di Jean-Hubert Martin (Centre Pompidou/Grand Halle de la Villette, Parigi 1989) né le riflessioni transdisciplinari e psicanalitiche di Bhabha, Spivak e Said. 

 

Animato “dall’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”, come scriveva Derrida nel suo Mal d’Archive, une impression freudienne (Édition Galilée, Paris 1995) in riferimento al concetto psicanalitico di archivio in Freud, Augustijen si documenta, studia, riunisce scupolosamente informazioni e testimonianze e ce le mostra così come sono, nude e crude come la brutalità e la franchezza della realtà che vi è dentro. Augustijnen non intellettualizza l’Africa, la sua storia e la sua gente, non la rielabora artisticamente attraverso affascinanti e conturbanti rappresentazioni, ma ce la fa vedere attraverso la logica e il rigore di un archivista alle prese con un insieme sterminato di documenti. 

Interprete sintomatico di una generazione di artisti, da Gerhard Richter a Renée Green, da Sam Durant a Thomas Hirschhorn, da Tacita Dean a Hans-Peter Feldmann, che nonostante le singole e profonde differenze hanno collezionato, conservato e archiviato in modo compulsivo oggetti, memorie e feticci personali, Augustijnen sceglie l’archivio come modello formale ed espressivo attraverso cui riflettere su un determinato momento storico del proprio paese in rapporto all’Africa. Pur non essendo il prodotto di fantasie e ossessioni personali, “l’archivio” che ci presenta Augustijnen, infatti, condivide con questi altri lo stesso ancestrale sentimento di paura: il rischio di una perdita di memoria, volontaria o involontaria che sia. 

 

A questo punto viene da chiedersi se non è proprio nella sincerità di questo “sentimento d’angoscia” e nella forza icastica dei documenti “presi in prestito” dall’artista che il Congo recupera in modo effettivo il diritto di raccontare il suo traumatico passato, non più dal punto di vista europeo o artistico ma dal suo proprio. 

Ancora una volta è questo genere di interrogativi che l’arte solleva, fornendo gli strumenti con cui pungolare e interrogare la storia di ieri e di oggi, i suoi paradossi e continui rivolgimenti. Del resto, come suggeriva puntualmente Hal Foster in An Archival Impulse (MIT Press, Cambridge 2004), la sua inconscia e inguaribile “febbre d’archivio” è sempre esistita.

 

La mostra:

Sven Augustijnen | Le Réduit

8 settembre – 19 novembre 2016

La Loge | Rue de l’Ermitage n. 86 – 1050, Bruxelles

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