Lezioni di entomologia di un giovane medico / Farfalle nelle terre rosse del popolo Swazi

4 Febbraio 2017

Molti decenni fa, in una magnifica giornata d’autunno australe, dopo un volo di quasi una giornata ed un altro più breve su di un piccolo turboelica, atterrai sull’altopiano meridionale africano a 1000 metri di quota. La temperatura era sorprendentemente fresca per questo primo impatto con la terra d’Africa, una terra rossa e argillosa cosparsa di macchie di alti eucalipti verdi argentati e di praterie gialle lucenti che esalava aromi ignoti a chi come me proveniva dalle latitudini settentrionali e mai aveva toccato il suolo africano. Era un profumo morbido e aromatico che ricordava quello dell’incenso misto a legno arso: ovunque le narici percepivano il bruciato, che evidentemente proveniva dalle povere capanne che mi attorniavano, e non ci si poteva liberare da questo sentore di terra selvaggia. Ero giunto in Swaziland, il paese del popolo Swazi che ancora viveva con i propri usi e costumi ancestrali. La gente incolonnata in attesa dei pochi parenti e amici giunti con il mio piccolo aereo era vivacemente vestita con un manto rosso dai disegni bianco e neri a strie regolari e zigzaganti. Alcuni di loro, portavano delle strane piume mozze per metà e di colore rosso vivo infilzate nelle folte capigliature ricciute. Altri invece vestivano come quei guerrieri africani che avevo visto nei film sulle guerre d’Africa e di cui avevo anche un soldatino che mi era stato venduto come «zulu» : indossavano rudimentali gonnelline di pelle di capra o di vacca, e impugnavano un lungo bastone e addirittura uno scudo rivestito di pelle bovina bianca a macchie nere proprio come nella bellissima bandiera multicolore del paese e come nelle immagini dei guerrieri zulu che avevo visto nei libri. 

 

 

 

 

Ero giunto in un altro mondo, lontanissimo, e non solo geograficamente, dall’occidente di allora. Stavo andando in una missione nella parte più povera del paese, quella delle lowveld, ovvero le terre basse, bruciate dal sole e ricche di paludi e di piantagioni di canna da zucchero, certamente un ottimo vivaio per le anofele che trasmettono la malaria, al confine con il Mozambico. Questo paese era in guerra da anni e i suoi poveri cittadini superavano la frontiera arrampicandosi, in ore e ore di cammino, sulla Lebombo Mountain lungo sentieri impervi per cercare aiuti, alimenti e cure nelle rare cliniche e missioni dello Swaziland che, se non altro, disponevano di mezzi essenziali per l’assistenza ai poveretti affetti dalle malattie più comuni tra cui appunto la tremenda malaria. E in questa missione restai a lungo, almeno così mi pare di ricordare, lavorando come giovane medico. Con le suore infermiere si faceva la clinica tutti i giorni assistendo i malati: alcuni giorni si lavorava nel piccolo ambulatorio della missione e altri giorni in cliniche ambulanti che aprivano una volta la settimana. Instancabilmente, si cercava di dare accesso alle cure per piccoli disturbi ma anche per le temute polmoniti, diarree, malaria e malnutrizione nei villaggi più sperduti dove non arrivava alcuna assistenza sanitaria da parte dei servizi governativi, come era norma in quell’Africa di allora e come troppo spesso accade ancora oggi. Si andava ogni settimana regolarmente in piccole baracche sulle montagne dove la gente attendeva dall’alba l’arrivo di un “dogutela”, un dottore, in vecchie chiese sconsacrate, in casolari circondati da malsane piantagioni di canna da zucchero dove le zanzare abbondavano, e ancora in rudimentali capanne tradizionali dal tetto di paglia e le pareti di sterco di vacca misto ad argilla nelle zone più distanti. In questi luoghi si arrivava solo con una sorta di jeep sgangherata che aveva dato la sua parte migliore molti anni prima e che ancora fumando ci portava nel mezzo del “bush”.

 

 

Di notte si dormiva nelle camerette della missione messe a disposizione dalle suore missionarie, spesso sotto la rete contro le zanzare per proteggerci dalla malaria e preservarci da questo rischio incombente. Mi misi a studiare le zanzare locali per riconoscere al volo le temibili Anopheles che trasmettono il protozoo detto Plasmodium che causa la malattia. Tuttavia, avendo nel mio DNA la passione per i lepidotteri, pensai che fosse bene studiare pure le farfalle che popolavano i cespi fioriti della missione. Non è che avessi molto tempo, alzandomi sovente alle 5 del mattino per raggiungere i villaggi più sperduti e andando a letto presto dopo le dure giornate di lavoro con i malati. Ma non potevo non interessarmi alle farfalle in questo mio primo viaggio in Africa. Sin da bambino avevo desiderato cercare quei grandi papilionidi che avevo visto con invidia a casa di un ragazzino che abitava due piani sotto al mio nella casa di Miagliano e il cui padre lavorava in Nigeria. Questi, quando rientrava dall’Africa una volta all’anno, gli portava farfalle di grandi dimensioni che catturava a mano e che, di conseguenza, avevano impronte digitali un po’ ovunque. A volte arrivavano delle falene spelacchiate e con un’ala o due trasparenti tanto erano state manipolate nel tentativo di immobilizzarle senza uso di etere, come si costuma tra persone per bene. Tuttavia, le loro dimensioni di grandi saturnidi e sfingi tropicali erano tali da farmi rimanere a bocca aperta. Tra tutte queste vittime dei safari del padre del ragazzino mi aveva colpito, e ancora ricordo nitidamente malgrado avessi allora non più di otto o nove anni, un grande papilionide nero e giallo che arrivò compresso e appiattito all’interno di una bustina di plastica trasparente conservata, pareva, tra le pagine di un libro. La farfalla era piatta, come se fosse stata montata su di uno stenditoio opportuno, anche se le ali erano disposte in modo casuale e spiegazzate rispetto al torace, andando un po’ in tutte le direzioni anziché seguire i sacri criteri della preparazione entomologica. Ciononostante, ancora ricordo quell’immagine con piacere, così come ricordo il rifiuto a offrirmi l’esemplare pur sapendo, il ragazzino, che io ero serio su queste cose. Invece, se ne fece un baffo dei miei desideri e se la tenne non so dove prima si gettarla nel pattume. Ma non era l’unico a imitarmi in quei tempi. Allo stesso pianerottolo del ragazzino c’era una giovinetta il cui padre, che era pescatore accorto, ad un certo punto, sicuramente spinto dalla ragazzina ispirata dalla mia piccola collezione, cominciò tra una pesca e l’altra a catturare farfalle su nella valle del Cervo. E portava a casa materiale invidiabile che io non avevo mai visto prima, dato che non cercavo che nei prati del paesino e non mi avventuravo in quegli anni per la valle montana dove volavano le specie di più alta quota. Così, vidi per la prima volta mnemosyne e apollo della valle, quelli oggi estinti, vidi le erebie medusa, degli strani satirini scuri quali i ferula ed altro ancora. La ragazza, al contrario del vicino, preparava le farfalle con un po’ più di rigore, ma i risultati erano mediocri e mi toccava l’incombenza di aiutarla a classificare quei poveri esemplari poi collocati in una sorta di quadro e puntati sul velluto granata, se ricordo bene, con le ali disposte a tegole di tetto, una sopra all’altra, come si vede nelle storiche tavole disegnate ai tempi di Linneo e di Fabricius.

 

Ma torniamo allo Swaziland e ai suoi grandi papilionidi. Quando potevo, tra una clinica e l’altra e tra un viaggio sui monti con le suore e l’altro, durante le ore di pranzo o nel tardo pomeriggio quando ancora il sole brillava, uscivo in giardino sotto al grande albero di avocado che donava frutti saporiti e cremosi come mai ne avevo assaggiati. E lì, poco distante, stavano grandi cespi di buganvillee e fiori alti un metro che attraevano una miriade di insetti, specie dopo le rare piogge. Non erano passati che due giorni dal mio arrivo che, in una di queste escursioni all’ora di pranzo, vidi un grande esemplare di farfalla veleggiante tranquilla dal color giallo e nero. Era enorme, specie per me abituato alle nostre cavolaie e piccole licene. Tranquillamente, si mise a vibrare con le ali sopra un fiore allungando le sottilissime zampe sino quasi a posarsi; in realtà usava le ali vibranti per mantenersi in equilibrio sospeso e suggere avidamente con la spirotromba allungata il nettare del fiore. 

 

 

Ancora ricordo l’emozione a tale vista e soprattutto al riconoscimento che questa farfalla altro non era che la stessa specie che avevo visto giungere nel nylon, appiattita in modo irregolare, dalla Nigeria a casa del vicino. Si trattava di Papilio demodocus, una specie assai comune diffusa in tutta l’Africa sub-sahariana e nella parte meridionale della penisola araba. La sua larva vive di foglie di agrumi (da qui il nome inglese di “lime swallowtail” ovvero “coda di rondine del lime”) e, quando raggiunge la maturità, è straordinariamente mimetica con il suo colore verde con lieve strie nerastre e bianche. Questa specie mi accompagnò fedelmente per tutto il mio soggiorno nelle terre degli Swazi: la vedevo un po’ ovunque aggirarsi tranquilla e veleggiante, con fare imperiale di chi sa di essere bello e di stupire. A volte la vedevo dalla finestra del piccolo gabinetto medico svolazzare sui cespugli fioriti appena all’esterno e poi dirigersi decisa verso i vicini agrumeti e scomparire nell’intreccio delle piante, per ricomparire poco dopo e percorrere allegramente la spianata che stava di fronte alla clinica della missione. 

 

 

Mi distraevo facilmente nel vedere questo magnifico insetto color giallo-nero: gli occhi si spostavano facilmente dalla schiena del malato che stavo visitando verso il cielo azzurro dello Swaziland per seguirne le peripezie aeree. Così passarono molti giorni in quelle terre rosse australi; io andavo avanti a fare il medico di campo rallegrandomi grazie alle amiche “code di rondine del lime” che non mancavano agli appuntamenti sulle buganvillee. L’infermiera Sibungile, che aiutava le Suore nelle mansioni cliniche, e la farmacista Dolorosa, che dispensava i farmaci essenziali gratuitamente ai bisognosi, mi rivolgevano spesso domande curiose sulle farfalle. 

 

 

C’erano dicerie popolari straordinarie su questi insetti, come quelle che attribuivano la presenza di spiriti malvagi in alcune falene, e loro volevano saperne di più avendo avuto, tutto sommato, un orientamento scientifico alle cose della natura. Tra una visita e l’altra finii per tenere lezioni essenziali di entomologia pratica divertendo le giovani donne Swazi e acquisendo la fama riservata a quella sorta di scienziati un po’ grotteschi che sanno un po’ tutto e un po’ niente, ma che alla fine divertono e tengono allegra la compagnia. E intanto raccoglievo le mie “lime swallowtails”, badando bene a imbustarle in modo corretto, e non come faceva il padre del ragazzino dal quale le avevo ammirate per la prima volta anni addietro, per portarmele poi in Europa alla fine della mia avventura africana.

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