Pasolini, La lunga strada

3 Gennaio 2017

“Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi. Un silenzio meraviglioso è intorno a me: la camera del mio albergo, in cui mi trovo da cinque minuti, dà su un grosso monte, verde verde, qualche casa modesta e normale”. Così scrive su carta intestata dell’Albergo Savoia di Casamicciola Terme, a Ischia, Pier Paolo Pasolini nel luglio del 1959. Partito da Ventimiglia, sta esplorando le coste e le spiagge italiane scendendo fino in Sicilia per poi risalire a Trieste. Si tratta di una serie di articoli, tre in tutto, che il settimanale Successo dell’editore Palazzi, diretto da Arturo Tofanelli, gli ha commissionato.

 

L’idea è del fotografo Paolo di Paolo e Tofanelli ha pensato subito a Pasolini quale compagno di viaggio. Nel mese di maggio ha pubblicato Una vita violenta, suo secondo romanzo dopo la scandaloso Ragazzi di vita; il riscontro di critica e di pubblico è positivo, come racconta Nico Naldini in Pasolini, una vita, biografia del poeta riedita da poco in forma accresciuta (Tamellini Edizioni). Si tratta di uno dei primi reportage sull’Italia del boom, che scopre le vacanze e si stende al sole sotto gli ombrelloni nelle spiagge. I due, lo scrittore e il fotografo, partono insieme dalla città di confine con la Francia.

 

Come racconterà molti anni dopo Paolo di Paolo, Pasolini siede taciturno accanto a lui in automobile e la conversazione langue. Raggiunta la prima meta, Viareggio, salgono nelle loro camere d’albergo. Di Paolo propone di vedersi a cena. Pasolini accetta, ma subito precisa: dopo però ci separiamo. Alla sorpresa del suo accompagnatore, Pasolini spiega che probabilmente lui, il fotografo, ha gusti diversi, e che magari dopo cena avrà sicuramente voglia di divertirsi con una donna. Cenano, poi Pasolini si congeda. Di Paolo si alza e fa in tempo a vederlo lì fuori, in mezzo a un gruppo di ragazzi vocianti, come se tra loro ci fosse già una grande intesa. Sembravano, racconta, amici da una vita. Il viaggio prosegue verso Genova, dove si presenta uno dei ragazzi di Viareggio. Fotografo e scrittore si separano, ciascuno farà il suo lavoro da solo. Il risultato è sulle pagine di Successo.

 

Di Paolo fotografa, racconta, come se lavorasse per “il Mondo”, Pasolini scrive come solo Pasolini sa scrivere. Anche se tempo dopo in un articolo definirà il reportage “un piccolissimo, stenografato Reisebilder: in cui sono andato non oltre la prima cute”, questi fogli di viaggio descrivono l’Italia e le sue coste come un luogo meraviglioso e incantato, dove non è ancora esplosa la speculazione edilizia e non è avvenuta la “mutazione antropologica” che lo strazierà quindici anni dopo e di cui racconterà in Scritti corsari. Successo fece dei tagli, probabilmente motivati da ragioni di spazio, sebbene in un caso, quello di un concorso di bellezza maschile sulla costa veneta dell’Adriatico, la riduzione suggerisce l’ipotesi di una piccola censura nell’Italia sessuofoba degli anni Cinquanta.

 

La lunga strada di sabbia, Fotografia di Philippe SéclierLa lunga strada di sabbia, Fotografia di Philippe Séclier

 

Il dattiloscritto integrale è stato ripristinato e raccolto in un volume, La lunga strada di sabbia (Contrasto, pp. 197, € 24,90), mentre figura incompleto nelle opere di Pasolini (Romanzi e racconti, 1946-1961, Mondadori). L’ha realizzato un fotografo francese, Philippe Séclier. Nel 2001 Séclier ha ripercorso la strada di Pasolini scattando delle fotografie nei luoghi delle sue soste, come racconta nella presentazione. Dopo l’incontro con la nipote dello scrittore, Graziella Chiarcossi, nel 2005, ha avuto in mano il dattiloscritto originale; ha cercato Paolo di Paolo e recuperato un ritratto di Pasolini, l’unico scatto di quel viaggio che lo raffigura: in piedi a Genova, sul lungomare, maglioncino, camicia bianca e cravatta, sguardo serio e fiero.

 

Le foto di Séclier sono color seppia, morbide, pastose, evocano quello spazio e quei luoghi, visti oggi. Ma con l’occhio di ieri. Sono immagini malinconiche e nostalgiche, dotate di un’energia e di una vitalità che richiama le pagine di Pasolini. Sono il ritratto di quell’umile Italia che il poeta aveva cantato qualche anno prima del suo transito sulle coste nelle Ceneri di Gramsci. Se fino al litorale romano Pasolini ritrova in quell’estate del 1959 i suoi amici, che cita, e con cui s’accompagna (Fellini, Elsa de Giorgi, Moravia, ecc.), quando invece s’immerge nel Sud la sua prosa sembra lievitare: uno stato di grazia che scaturisce dal paesaggio, ma anche dai corpi delle ragazze e dei ragazzi che vede.

 

La sua prosa rivela qui una sensualità differente, separando con cura tra l’incanto di un mondo visto e immaginato nel proprio passato e il “grande fritto misto all’italiana” attuale. Ci sono luoghi dove dichiara di aver lasciato “un pezzetto sanguinante di cuore” e, anche se non lo dice, sono i corpi dei ragazzi, mescolati al paesaggio, a dargli tutta quella felicità cui si sente vocato come uomo e come poeta. Arrivato sull’Adriatico, conosciuto anni prima nel corso dell’infanzia, mette subito a fuoco l’artificiosità delle spiagge, delle costruzioni, stigmatizza il colore “cacca di bambini” con cui sono tinteggiate le nuove case. Si lascia andare anche al racconto di “una avventuretta” giovanile a Riccione, con una allieva ballerina, a quattordici o forse quindici anni. La storia parte da una fotografia che ha conservato e s’allarga con forza visiva all’addio della giovinetta rinnovato nella sua memoria. Sta per diventare regista.

 

La prosa di Pasolini è scarna, sincopata, ma non priva di eleganza, anche se poi la definirà “ron ron rondista”, l’unico stile, dice, a disposizione per quella esperienza giornalistica. Ma è uno dei suoi soliti gesti blasé, perché ci sono frasi che sconfinano nella poesia, e il modello è piuttosto quello del simbolismo tardo romantico con un tocco alla Biagio Marin; il tono è quello della confidenza diaristica, non certo dell’articolo di giornale. A Trieste va a Lazzaretto, ultima spiaggia italiana prima del confine jugoslavo, e tende l’orecchio per cogliere la parlata del luogo: “Presteme el petine!”, “Speta”, “Giovanota!”, “Da dove vignìu?”, “Da quela barca lavìa?”, “A me mi ocoressi un petine, questo el xè roto!”. Termina il viaggio: “Sulle povere voci, sulla povera spiaggetta, il temporale getta un’ombra leggera, biancastra. Qui finisce l’Italia, finisce l’estate”.

 

 

Questo pezzo è apparso precedentemente su La Stampa

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