Sassi, ombre, visioni

18 Giugno 2014

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Petit discours de la méthode 1

 

Se è vero che possiamo individuare il nodo più alto di una struttura interpretativa della Recherche nella frase “Marcel diventa scrittore”, come ha suggerito Gérard Genette (ma allora perché non un nodo generico ancora più alto “qualcuno fa qualcosa”, o addirittura “qualcosa accade” – riserviamo questa discussione a un altro momento), probabilmente il nodo strutturale pertinente più alto della Divina Commedia di Dante Alighieri è occupato da una frase come “Dante visita in sequenza l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso”, o, più topograficamente, “Dante scende al centro della Terra e risale verso regioni eteree”. Ai nodi inferiori troveremo queste stesse frasi arricchite da modificatori (“in compagnia di Virgilio”, “in compagnia di Beatrice”) e altre ancora che via via arricchiscono la nostra visione parziale o interpretazione dell'opera.

 

Erwin Panofsky aveva distinto vari livelli di interpretazione di un'immagine. Senza questa molteplicità le immagini non sarebbero interpretabili. Saremmo costretti a vedere nella teoria dei Santi e degli Apostoli nell'abside del Duomo di Monreale una curiosa foto di gruppo di persone all'apparenza scocciate, che portano uno scomodo disco d'oro in precario equilibrio sul capo; dovremmo rassegnarci a descrivere la Venere di Botticelli come una bizzarra messinscena ginnica.

 

Accenno in questo modo sommario a grandi problemi interpretativi che intendo lasciarmi rapidamente alle spalle e che sollevo soltanto al fine di rendere esplicita la metodologia di questa breve indagine. Nessuno potrebbe negare che esistano diversi gradi di profondità nell'interpretazione di un'opera. Ma risulta anche difficile negare che esista un primo livello di comprensione e di godimento (jouissance) che non solo rende possibile l'accesso a tutti gli altri livelli, ma merita altresì di venir considerato come un luogo perfettamente legittimo in cui sostare per apprezzare quello che si sta leggendo o, in generale, esperendo della creazione artistica.

 

Catalogo dei rancori; manifesto politico; trasmissione di messaggi e invettive più o meno velate; guida semi sistematica del sapere medievale; percorso iniziatico, anche se un po' tardivo; vasto progetto di risollevamento morale e spirituale di un'epoca; oltre a essere tutte queste cose, e prima di essere una qualsiasi di queste cose, la Commedia è il racconto in prima persona di un movimento, di un viaggio, scandito in episodi, puntellato da vari incidenti, reso vivo dalle considerazioni personali del narratore, osservato da un punto di vista che il lettore cerca di fare suo. Leggere la Commedia è in primo luogo un essere lì dove le cose capitano, per un breve istante.

 

La comprensione di questo viaggio risulterà forse parziale o addirittura oscura a chi non riunisse in sé svariate competenze: una certa fluidità nel leggere un idioma del due-trecento, una familiarità con la politica e la diplomazia dell'Italia e dell'Europa coeva, nozioni di metrica, la conoscenza approfondita di robuste credenze religiose e sottili controversie teologiche, una buona informazione sull'antichità classica, una visione d'insieme della scienza dell'epoca, l'impregnazione del tessuto letterario e artistico toscano – o quantomeno di quello che oggi si pensa che fosse stato tale tessuto, ché l'arte è poca cosa in confronto alla vita, e il tempo a separarci dal Trecento cresce senza rimedio allontanando l'eco di quel mondo, distorcendola in sempre nuove guise. Chi avesse la benedizione di accedere se non a tutte a molte di queste sfaccettature godrebbe del privilegio di una ricca esperienza cognitiva alla lettura degli endecasillabi danteschi, esperienza che si manifesterebbe nella disponibilità di inferenze, collegamenti, ricordi, immagini; in misura maggiore di quanto sarebbe possibile per chi possedesse minori competenze di sfondo. Ma a quest'ultimo sarebbe pur sempre disponibile la comprensione o la pre-comprensione degli incidenti di viaggio di Dante – Dante che cammina, che scende e che sale, che incontra questo o quello, che descrive, che classifica, che spiega, che dialoga, che viene istruito; che si preoccupa, dubita, dorme, sogna, sviene, teme; che gioisce e spera.

 

Parafrasando lo storico David Freedberg, possiamo anche dedicare una vita intera a produrre interpretazioni raffinate di una Venere botticelliana o di un Ercole Farnese, ma mentiremmo a noi stessi se negassimo di provare un piacere squisitamente sensuale nella contemplazione a costo zero di corpi nudi e ben formati che ci si offrono allo sguardo come una promessa; né, a vero dire, abbiamo il dovere di non approfittare di questo piacere, e anzi c'è ragione di sospettare che stravolgeremmo le intenzioni degli artisti se dichiarassimo irrilevante il gusto più immediato dell'osservazione di quel che essi ci mostrano, attribuendo invece un primato ai significati celati dell'opera, addirittura dichiarandoli essenziali e degni in modo esclusivo della nostra attenzione a detrimento della prima e diretta, corporea impressione.

 

La restrizione metodologica qui seguita non va però di pari passo con una richiesta di semplificazione. Restringere l'interpretazione alla comprensione della trama vuol dire sostanzialmente limitare il numero e il tipo di inferenze che consideriamo accettabili o pertinenti, ad esclusione di altre che pensiamo poter scostare o che dobbiamo neutralizzare. Ma molte di queste inferenze, molti dei concetti evocati, rischiano semplicemente di non soddisfarci per una ragione o per l'altra – e uso qui un temine assai blando, “non soddisfarci”, a nascondere una molteplicità di crucci: logici, cognitivi, metacognitivi, emotivi. (La ricomposizione, sostengono gli interpreti più raffinati, avverrà proprio a quel livello più profondo che mette in gioco in modo essenziale le ricche conoscenze di sfondo di cui ci siamo, metodologicamente, voluti privare; vedremo tra poco che così non può essere, almeno in alcuni casi tutt'altro che marginali.) In molte situazioni non capiamo quello che sta succedendo, o forse non possiamo capirlo. (Ed ecco che interpreti più avveduti ci invitano a consultare il ricco apparato di note e di commenti che accompagna una moltitudine di edizioni della Commedia.)

 

Vorrei notare che questa tesi descrittiva, secondo la quale non capiamo molte situazioni del testo che leggiamo, non riflette la fenomenologia della lettura e della fruizione, e qui si situa uno dei problemi più interessanti per la nostra ricerca. L'illusione di capire è infatti tirannica, ci fa passare oltre, laddove, se fossimo veramente puntigliosi e onesti dovremmo stare per ore a far le pulci all'autore, chiedergli conto delle sue proposte, fare il processo alle sue intenzioni. Siamo quindi presi a tenaglia tra la possibilità che il fenomeno cui facciamo riferimento – la perplessità di fronte all'incongruo – non esista, dato che l'illusione di capire fa comunque piazza pulita dei dubbi del lettore, da una parte, e dall'altra la possibilità che ciò che è incongruo non si riveli poi tale se solo accettassimo di fare quel passo in più nella pratica interpretativa e ci dotassimo degli strumenti adeguati. Voglio invece sostenere che la frequentazione attiva del livello che per il momento chiamerò “superficiale”, e che corrisponde al “preiconologico” di Panofksy, è l'esercizio più importante per entrare nel cuore della narrazione. È il livello per affrontare il quale andiamo equipaggiati con risorse deboli e necessarie, camminiamo con le nostre gambe, ma non dobbiamo per questo chinare timidamente il capo: le nostre armi sono la comprensione spontanea del mondo, delle cose che lo abitano e delle persone che lo animano. Questa lettura attiva non è necessariamente un atto ostile nei confronti dello scrittore. Ogni opera dell'immaginazione vive di un equilibrio precario ed eccitante tra il necessario contare sulle capacità cognitive dell'interprete e la sfida costante alle leggi che l'autore vorrebbe dettare. Ad un estremo, ci sembrano piatte le storie eccessivamente realistiche e documentarie, conformi all'assioma della facile comprensione; non offrono appigli all'immaginazione, imitano e ripetono il già visto, non ci trasportano altrove. Sono all'altro estremo stravaganti e normativamente inaccettabili le trame che proponessero, poniamo, l'immotivata gelosia di PI greco per una ingenua lucertola a due teste. Ma il cammino mediano non è per i timorati.

 

Aïda Muluneh, Jane Alexander

Aïda Muluneh, The 99 Series, 2013 © Aïda Muluneh (detail). Above: Jane Alexander, Frontiert with Church, 2013, Installation view MMK Museum für Moderne Kunst Frankfurt am Main, photo: Axel Schneider © MMK Frankfurt

 

Mission Impossible

 

Dante è un essere umano che vaga tra le anime incorporee. È un unicum in un mondo altro, retto da leggi straordinariamente diverse. Egli stesso non saprebbe spiegare bene quel che gli succede, in particolare quando racconta di eventi strani che segnalano il confine tra i due mondi; fa fatica a convincersi (e per questo, come ammonisce la retorica, faticherà a convincere); qua e là proprio non si capacita; viene benevolmente rimesso al suo posto ora da Virgilio, ora da Beatrice, l'uno e l'altra trovando impertinente il suo desiderio di razionalizzare cose che apparentemente travalicano i limiti della ragione umana; addirittura sviene a più riprese sotto la tensione cognitiva che gli impone il mondo da lui stesso creato.

 

Eppure Dante non ha scelta. Non ha scritto un'epica cavalleresca o un poema galante, non parla se non accessoriamente di fiori o di armi ma di virtù, di leggi, di politica e teologia, inserendo i concetti in una narrazione figurata. L'esercizio della giustificazione è difficile. Perché non affidarlo ad altri? Così Chirone:

 

“Siete voi accorti

Che quel di retro muove ciò che tocca?

Così non soglion far li piè d'i morti.”

(Inferno XII, 80-82)

 

Così un'anima senza nome incontrata più tardi:

 

“...e io facea con l'ombra più rovente

parer la fiamma; e pur a tanto indizio

vidi molt'ombre, andando, poner mente.

Questa fu la cagion che diede inizio

loro a parlar di me: e cominciarsi

a dir: ‘Colui non par corpo fittizio’.”

(Purgatorio XXVI, 7-13)

 

Le due situazioni appena evocate parrebbero perfettamente comprensibili. Visibili, quasi, al punto che alcuni pittori e illustratori le hanno anche rappresentate con sincera dovizia di particolari. Non si tratta, direi, di un problema di apparenze. Il mondo possibile che Dante rappresenta è visivamente prossimo al nostro. La distanza è piuttosto concettuale.

 

Che cosa scoprono esattamente Chirone e l'anonima anima del canto ventiseiesimo del Purgatorio, ovvero che cosa pensa Dante che debbano scoprire? Si rendono conto del fatto che Dante non è come loro disincarnato, e quindi in particolare che ha proprietà fisiche diverse dalle proprietà – per il momento sconosciute – delle anime e in generale del mondo soprannaturale. Anzi, snidano la sua alterità proprio in virtù della constatazione del fatto che Dante avrebbe proprietà fisiche peculiarissime: fa rotolare i sassi, spezza la luce e proietta un'ombra, ovvero fa le cose che facciamo anche noi e che le anime – apprendiamo – non fanno né possono fare. Questa Differenza tra le anime e Dante non è di per sé tale da preoccuparci. Possiamo benissimo accettare che il mondo soprannaturale sia concettualmente molto distante, ovvero perfettamente incomprensibile al nostro intelletto. Possiamo anche spingerci assai oltre e dichiarare che è un mondo al limite penetrabile dalla ragione ma ciononostante completamente opaco all'intuizione. Questo però non è quanto la Commedia ci chiede di fare. Ci chiede invece di vedere la differenza tra i due mondi, accettando la sorpresa degli abitanti del mondo soprannaturale di fronte a delle proprietà visibili di Dante; ci chiede in buona sostanza di prendere il punto di vista delle anime e di fare due conti.

 

Solo che al tempo stesso ci obbliga a non accettare il risultato del nostro calcolo mentale, risultato che dovrebbe nelle intenzioni dell'autore sboccare su un deciso giudizio di alterità: questo è il nostro mondo, quello il loro. Chirone dunque si stupisce per il fatto che Dante fa rotolare dei sassi, cosa che le altre anime non fanno, non tanto perché si muovono con passo felpato, o più felpato del maldestro poeta sulla scomoda china franosa che conduce al Flegetonte, ma perché proprio non possono muovere tali sassi; si suppone non potendo interagire con essi.

 

 

Fermiamoci un secondo, arretriamo e analizziamo la metafisica di questa vignetta.

 

La generica anima evocata da Chirone non fa rotolare sassi. Al tempo stesso, si presume, cammina sul suolo che la sosterrebbe. Non abbiamo informazioni su altri modi di incedere a contatto del suolo. Anzi, di anime che camminano abbiamo molteplici e ripetute evidenze nella Commedia. Per esempio gli indovini del canto XX dell'Inferno, pur avendo la testa montata al rovescio sulla schiena, con tutte le complicazioni del caso, non risultano muoversi con andamento diverso da quello di una normale camminata, di chi sta insomma coi piedi per terra. Non sono per esempio tali anime disordinatamente distribuite a diverse altezze rispetto al terreno, o addirittura parzialmente o completamente immerse nel suolo con il quale non dovrebbero (secondo Chirone, e di Dante che per bocca di Chirone parla) affatto interagire. Se lo sono, non camminano certo, e il suolo serve anzi a tenerle al loro posto, come capita ai simoniaci dell’Inferno XIX.

 

Le anime quindi sono per noi fonte di cruccio metafisico, infinitamente più di quanto non sia il corporeo Dante per l'incorporeo Chirone. Lo stesso suolo che le sostiene, opponendo loro una resistenza adeguata, si rivelerebbe perfettamente inefficiente una volta sbocconcellato in frammenti, pietre.

 

“così prendemmo via giù per lo scarco

di quelle pietre, che spesso moviensi

sotto i miei piedi per lo novo varco.”

(Inferno XII, 28-30)

 

La divisione che sembrava correre tra il nostro mondo e quello delle anime si è spostata all'interno del mondo delle anime e separa in modo che per il momento non possiamo che considerare arbitrario le pietre che oppongono resistenza all'azione e quelle che non lo fanno.

 

La ridda inferenziale è pronta a scattare, e non faremo qui nulla per trattenerla. A un primo livello, che scarteremmo volentieri per l'eccessiva ingenuità se non ci fossimo dati come compito un'adesione completa alle molteplici possibilità del pensiero interpretante, c'è da supporre una qualche incapacità o incompetenza dei morti rispetto al calciare pietre.

 

“Così non soglion far li piè d'i morti.”

 

I morti, pigri per natura (ma non tutti lo sono, e certo non lo saranno gli accidiosi che verranno costretti all'iperattività, Inf VII), o deboli, non riescono a smuovere le pietre che calciano. Per quanto ci si mettano di buzzo buono, il loro movimento si arresta poco prima, oppure il calcio raggiunge la pietra con forza insufficiente. Se solo volessero impegnarsi un po' di più, otterrebbero risultati incoraggianti, i ciotoli cambierebbero di posto, e addirittura si potrebbe mettere il loro zelo al servizio di progetti di pubblica utilità, come per esempio rimuovere la frana del settimo cerchio il cui attraversamento costa tanta fatica a Dante. Oppure – ma non vogliamo certo dare ad intendere che questa sia una delle ipotesi anche solo lontanamente da prendere in considerazione – sono solo i piedi ad essere indolenti. Il resto del corpo è vigoroso e tonico, le estremità affaticate e sconcertate dall'idea dell'inciampo, guardinghe. Di certo le due ipotesi suaccennate hanno il vantaggio di non costringerci a un dualismo della materia pietrosa. Non ci sarebbero pietre che sostengono e pietre che non oppongono resistenza, ma solo piedi dal comportamento capricciosamente selettivo di fronte a due stati tra loro prossimi della materia.

 

Qui si aprono altre strade. Possiamo baldanzosamente accettare un dualismo della materia dell'Inferno. Da quali leggi sarebbe informato tale dualismo? Fintantoché una porzione di materia è parte integrante del suolo, ad esso saldamente unita (ma molto ci sarebbe da dire su quest'avverbio, “saldamente”), essa avrebbe la virtù di sostenere chi vi si appoggia o vi si affida, ovvero di opporsi con la reazione all'azione. Ma una volta mutata in parcella autonoma (o per tremoto o per sostegno manco, Inferno XII, 6, Dante ha come tutti noi del resto le idee chiare sulle cause possibili della frammentazione dei sassi), ecco che essa non è più nella condizione di resistere e di interagire, e li piè d'i morti la attraverserebbero senza influenzarne la posizione e senza imporle il loro movimento.

 

 

Ipotesi non del tutto peregrina. La difficoltà di interagire con gli oggetti soprannaturali è attestata dalla Commedia.

 

“Io vidi una di lor trarresi avante

per abbracciarmi [...]

O ombre vane, fuor che nell'aspetto!

Tre volte dietro a lei le mani avvinsi

e tante mi tornai con esse al petto.

Di meraviglia, credo, mi dipinsi.”

(Purgatorio II, 76-82)

 

Non una, non due, tre volte Dante si ostina a cercare un contatto con il corpo immateriale che gli si para davanti, e a questo punto ha ben diritto di manifestare sorpresa (anche se non ne è completamente sicuro: “credo, mi dipinsi”). Si potrebbe poi anche osservare che a voler ben cercare, di cose strane metafisicamente parlando ne accadono tante, e questa non è che una di quelle. Per esempio risulta qualche violazione flagrante della continuità spaziotemporale. Nella settima bolgia l'infelice Vanni Fucci viene morso da un serpente, si trasforma in cenere dalla quale risorge nelle fogge che aveva prima del morso.

 

“E poi che fu a terra sí distrutto

la polver si raccolse per sé stessa

e 'n quel medesimo ritornò di butto.”

(Inferno XXIV, 103-105)

 

È veramente lo stesso Vanni Fucci? O non è invece un altro, simile a tal punto al primo da non esserne distinguibile? Se era lo stesso, come ci richiede ('n quel medesimo) del tutto ovviamente la trama, che cos'era mai la cenere nel quale si era dissolto? Potevamo noi in quel momento che diremmo di transizione indicare la cenere e asserire ammiccanti, al modo di un prestigiatore: “Ecco qui davanti a voi Vanni Fucci, come tra poco potrete tutti constatare?” Forse abbiamo qui a che fare con un tipo di identità per fiat: decido io, autore, chi è chi.

 

Oppure ancora, per tornare a incerte interazioni materiali, la barca di Flegïàs sprofonda più che non suol con altrui (Inferno VIII, 30) sotto il peso di Dante, eppure Virgilio è costretto a respingere il “brutto” Filippo Argenti, che minaccioso distese al legno ambo le mani (Inferno VIII, 40), probabilmente nel tentativo di ribaltare il natante. Filippo Argenti non pesa nulla, da un lato, e dall'altro che cosa se non la sua massa potrebbe minacciare la stabilità della barca?

 

E per finire, la fiamma del Purgatorio scalda e scotta ma non consuma (Purgatorio XXVII, 49):

 

“Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro

gittato mi sarei per rinfrescarmi.”

 

Considerando che il vetro fonde intorno ai 1400°celsius la titubanza di Dante, che deve essere a più riprese incoraggiato da Virgilio ad attraversare le fiamme e finisce con il farlo solo al pensiero dell'incontranda Beatrice, è perfettamente comprensibile; resta perlomeno il dubbio sul meccanismo che permette al corpo di Dante di sentire nel proprio il dolore che provocano siffatte temperature senza subire un'alterazione somatica corrispettiva.

 

Ma come abbiamo già avuto modo di rimarcare, non sono queste stranezze metafisiche a opporre ostacolo alla comprensione. Vagamente riusciamo a separare nell'immaginazione gli effetti dolorosi e gli effetti materiali del calore; vagamente riusciamo ad immaginare la dissoluzione in cenere e la ricomposizione. Continuando nella nostra raccolta di dati, noteremo invece che i sassi (parcelle pietrose staccate dal suolo) rappresentano un insostituibile strumento di punizione per avari e prodighi, i quali nel quarto cerchio, annunciato dal misterioso blaterare di Pluto, vagano in due opposte schiere che si infrangono l'una contro l'altra e come la risacca del mare si fanno mutuo e spiacevole ostacolo:

 

“voltando pesi per forza di poppa”

 (Inferno VII, 27)

 

ovverossia facendo rotolare, e con notevole sforzo, dei massi. L'immagine è poderosa e buia, la fisicità della punizione moltiplica la reminiscenza del supplizio di Sisifo per il numero delle anime e la fa poi crescere esponenzialmente in virtù di quegli scontri inevitabili tra le due armate che devono, ciascuna per conto proprio, concludere il giro assegnato il cui percorso è stato con malizia tracciato per coincidere, ma in opposta direzione, con quello dell'altra.

 

“in eterno verranno a li due cozzi”

(Inferno VII, 55)

 

Sappiamo che l'Inferno dantesco è un luogo fisico, così come il Purgatorio: sono entrambe entità geografiche della nostra Terra. Il Purgatorio è scosso da terremoti (Purgatorio XX, 127 sgg). Non ci preoccupa quindi come interagiscono tra loro il suolo che sostiene le anime e i sassi evanescenti che non si lasciano spostare dalle anime evanescenti; sappiamo che quando appoggiamo uno di questi sassi sul suolo essi non verranno inghiottiti da quello. È invece il rapporto capriccioso delle anime con, da un lato, il suolo e, dall'altro, i frammenti a procurarci non poche perplessità.

 

Infatti, giunti a questo punto, per proteggere la coerenza dell'impalcatura metafisica possiamo attribuire a Chirone una semplice ignoranza dei modi in uso neanche troppo lontano, solo qualche cerchio sopra al suo, cosa che però non ci è evidentemente dato di perdonare a Dante. O invece continuare nella ridda inferenziale. Avari e prodighi non sarebbero dei morti come gli altri, per loro i macigni hanno tutte le inerzie e le solidità che riconosciamo ai nostri sassi e che fanno sì che quando noi li calciamo questi, se non troppo pesanti, si spostano. Come che sia, da qualche parte una cesura metafisica deve essere introdotta; possiamo al massimo spostarla da un punto all'altro dello scenario.

 

Vorrei ribadire il tema che mi sembra veramente importante. Non è la singolarità del mondo soprannaturale a creare qui un problema. Abbiamo strumenti concettuali anche sofisticati per dare un senso a entità ben diverse dagli oggetti concreti delle quali non esitiamo a popolare il nostro vicinato metafisico. Dopotutto numeri e sogni non sono oggetti materiali come sassi e bastoni, non lo sono i romanzi e non lo sono le onde; tanto sappiamo. Il mondo soprannaturale è poi veramente diverso? Gli esseri che lo popolano sono comunque concettualmente simili agli oggetti materiali, hanno forma e dimensione: sono semplicemente immateriali. Non sono entità di un genere metafisico inverosimile. E anche se gli oggetti soprannaturali fossero di un genere veramente diverso, una certa qual tolleranza e addirittura predilezione per l'eccentricità ci farebbe accettare di buon grado la loro singolarità. Ma, aggiungiamo, posto che questa non ci obblighi a una rinuncia alla coerenza (e per di più, a una rinuncia erratica). Il problema di Chirone è che per salvare la coerenza siamo costretti a un arbitrario dualismo della materia soprannaturale, senza peraltro sapere mai quando valgono le condizioni per l'attribuzione dell'una o dell'altra condizione – qui impenetrabile, lì penetrabile – alla materia che compone il mondo delle anime.

 

Osserviamo inoltre, e questo è un altro elemento qualificante del nostro argomento, che la sovrainterpretazione informata (da conoscenze storiche, teologiche, artistiche, da tutto ciò che va sotto il nome di “erudizione”) qui non ci aiuta punto. Quale conoscenza della teologia può aiutarci a sanare il conflitto cognitivo, il mistero di una distinzione metafisica tra sassi che sostengono e sassi che si lasciano attraversare, o tra anime che si appoggiano al suolo e anime che non riescono a calciarne un frammento?

 

Questo problema sorge alla frontiera tra naturale e soprannaturale, frontiera che finisce sciaguratamente con l'attraversare il mondo soprannaturale stesso. Le colpe dei dannati sono punite in modi assai efficaci, che generano sofferenza. Senza azione e reazione non avrebbe per noi nemmeno senso parlare di punizioni; non possiamo dare un significato a metafisiche che implichino l'inefficacia della punizione. Per esempio, una metafisica non interazionista come quella che si è soliti ascrivere a Malebranche permetterebbe di descrivere il balletto degli avari e dei prodighi nel modo seguente: al contatto della mano dell'avaro la pietra comincerebbe a ruotare di sua sponte (in realtà, per volere divino), senza che venga veramente trasmesso alcun impetus dal movimento dell'anima la quale per l'appunto è insostanziale. Questo movimento, visto da un osservatore esterno, assomiglierebbe a una transazione causale in piena regola, dato che ne imiterebbe in ogni dettaglio la cinematica, a includere anche le smorfie di sforzo che si dipingono sul viso del dannato, dello spingitore. Ma allora dovremmo a questo punto trovare un modo differente di far soffrire l'anima, che altrimenti sarebbe nei confronti della punizione quello che l'attore è nei confronti della morte in scena del personaggio che egli incarna. Per esempio, in concomitanza con il cozzo tra le due pietre, che come abbiamo detto sarebbe una pura illusione di cozzo, dio invierebbe agli spiriti che le stanno spostando un segnale e questi, all'istante, proverebbero una sensazione concomitante di fatica o di dolore. La coerenza generale dell'insieme sarebbe preservata ex machina, ma è chiaro che cominceremmo a perdere inesorabilmente di vista gli scopi e i modi. Perché mai impegnarsi in cotale pantomima, se quel che conta è soltanto che l'anima riceva un segnale vissuto soggettivamente come sgradevole e quindi punitivo? Le temibili pietre rotolanti si ritirano in buon ordine, metafisicamente parlando, per diventare un epifenomeno, una decorazione visiva che nulla aggiunge alla geometrica contabilità delle ricompense divine. Se l'illusione della punizione è quanto importa, e null'altro, potemmo tenere le anime in un grande deposito simile a quello di Matrix; Dante si limiterebbe a compitare per noi le etichette sui contenitori delle anime, racconterebbe quello che loro credono di subire, enunciando brani di un vasto, ordinatissimo registro.

 

Dominique Zinkpè, Axel Schneider

Dominique Zinkpè, Errance, 2013 Installation view MMK Museum für Moderne Kunst Frankfurt am Main, photo: Axel Schneider © MMK Frankfurt

 

Visibilità

 

Perché mai la pantomima, allora? Non si deve cercare troppo lontano. Il perché, la ragione di questo problematico imbastardimento metafisico sta nella necessità di rendere visibili le scene e i loro contenuti. L'improponibile metafisica della Commedia è sotto l'imperio della sua esigente epistemologia. In qualche modo le anime devono accorgersi dell'anomalia costituita da Dante, l'epistemologia predilige da sempre scorciatoie visive, e le cose che vediamo sono in primis oggetti materiali. “Vediamo” i sassi rotolare, sospinti dall'unico piede in grado di spingerli; nel nostro caso quello appartenente a un essere umano.

 

La vista richiede luce. I corpi esposti alla luce fanno ombra. Dante fa ombra. Ma in svariati luoghi del Purgatorio l'ombra di Dante crea scandalo, metafisicamente parlando; pur più evanescente dei sassi che vengono fatti rotolare lungo il declivio, non è meno indicativa della natura terrena del protagonista. Un luogo è stato sopra citato, unito al finitimo 22-24:

 

“Dinne com'è che fai di te parete

'l sol pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro de la rete.”

(Purgatorio XXVI, 7-13)

 

Un altro è il seguente:

 

“Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio

rotto m'era dinanzi a la figura,

che avëa in me de' sui raggi l'appoggio.

Io mi volsi dallato con paura

d'essere abbandonato, quand'io vidi

solo dinanzi a me la terra oscura.”

(Purgatorio III, 16-21).

 

L'assenza d'ombra di Virgilio è per Dante un falso negativo: l'assenza dell'ombra dovrebbe permette di concludere all'assenza della cosa, perché tutte le cose fanno un'ombra (nelle appropriate condizioni di luce). Dante si sente pertanto abbandonato. Ma l'assioma fondamentale da cui dipende la tenuta del suo ragionamento è falso: ci sono delle cose che non fanno ombra, ovvero le anime e in genere le cose soprannaturali, tra queste lo stesso Virgilio. Un terzo passo legge:

 

sì che 'suoi raggi tu romper non fai

(Purg VI 55-57)

 

E un quarto:

 

quando dietro di me, drizzando 'l dito

una gridò: Ve' che non par che luca

lo raggio da sinistra a quel di sotto

e come vivo par che si conduca.

Li occhi rivolsi al suon di questo motto

e vidile guardar par maraviglia

pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.

(Purg V, 4-9)

 

(Ecco, si noti che le anime non solo vedono e sono viste, ma pure gridano e si fanno udire.)

 

Si ripropone il tema del dualismo mobile. La linea di confine tra corpi ombrosi e corpi diafani si sposterebbe all'interno del mondo soprannaturale. Appuriamo e diamo per accertato che i corpi terreni fanno ombra. Apprendiamo che le anime non ne fanno punto. Questo problema si limiterebbe riproporre il paradosso di Chirone se non fosse che qui è in gioco l'idea stessa dell'epistemologia dantesca. Che la linea sia mobile è evidente. Le montagne e gli edifici del Purgatorio fanno ombra.

 

“E vedi omai che 'l poggio l'ombra getta.”

(Purgatorio V, 51)

 

Se tutti gli oggetti fossero trasparenti, compreso il suolo sotto i piedi di Dante, non ci sarebbe bisogno di uscire “a riveder le stelle”, basterebbe, di giorno, guardare sotto l'orizzonte. Salvo che giorno e notte si alternano nel Purgatorio, il che significa che l'ombra della Terra continua a espletare la sua funzione, come la espletano le ombre dei particolari geografici della Terra, monti, colline e via dicendo.

 

Sono dunque perplesse le anime, e probabilmente a poco vale la consolazione o esortazione di Virgilio:

 

“...io vi confesso

che questo è corpo uman che voi vedete

per che 'l lume del sole in terra è fesso.

Non vi maravigliate”

(Purgatorio III, 94-97)

 

Ma che i corpi facciano o meno ombra non è problema da poco, quasi si trattasse soltanto di un aneddotico manifestarsi di macchie scure in un mondo perfettamente chiaro, senza sfumature di luce come in certe tavole di un fumetto di Tintin. Un corpo che non fa ombra è un corpo che lascia passare la luce, e un corpo che non fa nessuna ombra è un corpo che lascia passare tutta la luce che lo colpisce. Ma un corpo che lascia passare tutta la luce è un corpo che non ne riflette. E un corpo che non riflette luce è un corpo che non è visibile (a meno che, e ne parleremo tra un istante, non si tratti di un corpo che emette luce.)

 

Quindi l'Assioma di Visiblità che tiene in piedi tutta la Commedia e le permette di compiere la sua funzione didascalica si infrangerebbe su questa impossibilità fisica. E tuttavia:

 

“O ombre vane, fuor che nell'aspetto!”

(Purgatorio II, 81).

 

Uno potrebbe dirsi – riattivando il mulinello inferenziale – che diverse altre possibilità sono disponibili a Dante. La principale ci imporrebbe di considerare che l'implicazione da visibile a riflettente non reggerebbe affatto. Si danno dei corpi visibili che non sono corpi passivi, capaci solo di rimandare la luce che ricevono da altrui; il Sole e le stelle fanno certo parte dell'orizzonte cosmologico di Dante (e con essi i pianeti, che all'epoca si pensava risplendessero di luce propria.) Nella fattispecie però le uniche cose visibili oltre ai corpi opachi come Dante sarebbero quei corpi che lucono di luce propria, se abbiamo escluso che le anime riflettano luce. Le anime potrebbero allora avere l'apparenza di certi pesci fosforescenti dal lucore debole che abitano i mari tropicali. Proseguendo a tastoni in questa esplorazione, potremmo immaginare che la flebile luce emessa dalle anime-pesce e da tutta la materia soprannaturale sia certo sufficiente a rendere visibile il loro sembiante e proiettasse inoltre d'intorno una luce bastante a cancellare tutte le ombre che inevitabilmente si producessero in questo frangente. La cancellazione sarebbe solo virtuale, in un senso: le ombre ci sarebbero sempre, ma da un lato cadrebbero su superfici luminose, e dall'altro un'infinità di sorgenti di luce (una per ogni punto di un corpo che emette raggi) distribuite in ogni direzione dell'ambiente creerebbe un numero talmente grande di ombre sovrapponentesi che queste si cancellerebbero l'un l'altra, impedendo a una qualsiasi di loro di spiccare tra le invidiose compagne. Questa alternativa alla trasparenza – i corpi qui immaginati che emettono luce sono infatti dei corpi perfettamente opachi alla luce – ha l'ulteriore vantaggio di dare un senso alla proiezione dell'ombra di Dante a terra, dato che il suolo su cui viene a battere l'ombra è per forza di cose un suolo opaco. Se il suolo fosse diafano, l'ombra sarebbe invisibile, come lo è quella che viene proiettata sui vetri e sugli specchi.

 

In questa metafisica della fosforescenza avremo però qualche difficoltà a trovare un posto all'ombra stessa di Dante. La sua causa e sorgente non potrebbe essere per definizione la debole luce che emettono le anime-pesce, perché come abbiamo visto l'infinità di sorgenti di luce della materia soprannaturale cancellerebbe qualsiasi ombra che le stesse producessero. Quell'ombra dev'essere per forza il risultato dell'intervento di una sorgente luminosa assai più potente delle putative anime-pesce, per esempio il Sole la cui presenza ci viene peraltro costantemente ricordata e non può essere pertanto ignorata a cuor leggero. Ma un Sole così raggiante da permettere l'emergenza dell'ombra di Dante non avrebbe difficoltà a sovrastare con la sua luce l'effetto di cancellazione delle deboli ombrine delle anime-pesce, e quindi, dato che tali anime sono ormai per definizione da considerarsi opache, non incontrerebbe nessun problema a corredarle di ombre altrettanto fiere di quella del poeta; quest'ultima perderebbe così la sua salienza e con ciò stesso la sua ragion d'essere narrativa.

 

Abbiamo certo altre strade davanti a noi che ci permetterebbero di salvare le apparenze e l'Assioma di Visibilità senza obbligarci a ipotesi troppo robuste e forse strampalate come quella delle anime-pesce (che, sia detto di passaggio, ci obbligherebbe anche a ritoccare altri punti fondamentali della nostra cartografia metafisica, per esempio dovremmo spiegare come funziona la notte, se – mettiamo – di notte tutta la fosforescenza si attenua e si spegne e lascia il passo ad una vera opacità, con tutti i problemi che ne conseguono). Un'alternativa che viene subito in mente è di attribuire alle anime una trasparenza dimidiata, leggera. Esse sarebbero invero incapaci di riflettere la maggior parte dei raggi solari; alcuni tuttavia non le attraverserebbero e, riflessi, permetterebbero loro di venir viste. Il prezzo da pagare per questa seppur flebile facoltà riflettente sarebbe la proiezione di una leggera ombra, appena visibile, talmente discreta e poco interessante – potremmo pensare – da passare perlopiù inosservata. E certo non in grado di sostenere il confronto con l'ombra massiccia e tenebrosa che l'intruso metafisico in visita dal mondo naturale si porta appresso (con crescente imbarazzo). Queste ombre più deboli, lungi dall'essere un parto della nostra preoccupata immaginazione, hanno avuto una certa qual fortuna iconografica, a partire dagli affreschi di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, dove le anime contemplano attonite l'ombra di Dante stoltamente ignare del fatto che anch'esse proiettano un ombra al suolo: più piccola, più debole, appena accennata, ma ombra purtuttavia.

 

Oppure il Sole concentra il suo fascio luminoso sul solo Dante? (Implausibile.)

 

Nel Purgatorio (XXVI, 7-13) ci parla di un fenomeno luminoso complesso: l'ombra di Dante accentua il contrasto che fanno le fiamme:

 

“e io facea con l'ombra più rovente

parer la fiamma.”

 

Così infatti accade in realtà: le fiamme sono molto più visibili al buio che alla luce (anche se alla luce non sono certo invisibili, e Dante concede il comparativo: “più rovente”). Non è un'osservazione banale e testimonia di un'attenzione fenomenologica di primissima classe. Non possiamo neanche iniziare un paragrafo sulla curiosità scientifica di Dante che ci obbligherebbe a lunghe digressioni e a scendere su un terreno filologico che ci siamo preclusi; ma il lettore che volesse precorrere da cima a fondo la Commedia con un occhio non solo alle figure, ma anche allo sfondo, verrà ripagato da meravigliosi spiragli sui fenomeni naturali che non faticheranno ad apparirci sottilmente paradossali, quasi ironici, dato che Dante li usa come trampolino metaforico per la comprensione del soprannaturale, invertendo l'ordine intrinseco nel progetto metafisico che vorrebbe invece la spiegazione delle cose del mondo tributaria della comprensione di un ordine superiore. (A titolo di esempio, Purg XXVI, 34-36, le formiche si scambiano segnali quando si incontrano; Par XII 10-15 il doppio arcobaleno; Purg XXXII 109-111 osserva le diverse qualità dell'ombra smorta,/qual sotto foglie verdi e rami nigri; Par XVI 28-29 nota il ravvivarsi della brace cui si apporta aria; Purg XXX, 25 rimarca la velatura del Sole in un alba brumosa).

 

Ho accennato a un Assioma di Visibilità e certamente avrei dovuto parlare di un più generale Assioma di Percepibilità, a includere non soltanto il visibile ma anche l'udibile e altri sensi (Purg XXXI, 3 sgg;). Dante è prodigo di metafore sonore; Purg XIII 28; Purg XIV 152; Purg XIX 36; in certo senso l'udito è meno pregnante, il grido delle anime a Purg XXII 139 sgg. non assorda quanto la luce acceca, e non ci sono svenimenti metacognitivi dovuti alla musica o al suono.)

 

Visione o percezione in generale, di primato si tratta, ed è un vecchio problema. La struttura stessa del Paradiso viene distorta come in una lente prospettica che facilita la visione. Le anime sono tutte nell'empireo ma appaiono disposte nei vari cieli del Paradiso per permettere a Dante di capire meglio la gerarchia delle beatitudini.

 

“Così parlar conviensi al vostro ingegno

però che solo da sensato apprende

ciò che fa poscia d'intelletto degno.

Per questo la Scrittura condescende

a vostra facultate, e piedi e mano

attribuisce a Dio e altro intende.”

(Paradiso IV, 40-45)

 

Dopotutto, il volgo capisce solo quel che vede:

 

“lì si vedrà ciò che tenem per fede

non dimostrato, ma fia per sé noto

a guisa del ver primo che l'om crede.”

(Paradiso II 43-45)

 

Il che, concediamolo, è già un progresso rispetto al voler toccar con mano, che obbligherebbe a una assai più impegnativa ricerca di trampolini metaforici. Peraltro preclusi, come ricorda Dante per bocca di Stazio che cerca inutilmente – anima contro anima – di abbracciare i piedi di Virgilio. È vero che c'è una profonda saggezza nel presentare le anime come corpi e non come entità astratte, la stessa saggezza (o malizia) che presiede all'edificio intero della resurrezione, la quale è per l'appunto una resurrezione della carne e non dello spirito. Ma c'è un limite a tutto, e Stazio se ne rende conto:

 

“quand'io dismento nostra vanitate

trattando l'ombre come cosa salda”

(Purgatorio XXI, 135-136)

 

L'intelletto senza ipotesi e l'immaginazione senza mordente

Curiosità, abbiamo detto. Fin dove porta Dante? E fin dove è lecito pensare che possa condurlo? A Dante non mancano né immaginazione né fantasia. Se i libri illustrati prediligono l'Inferno, è nel Paradiso che troviamo le macchine immaginative più complesse: la croce composita (Par XIV), l'aquila fatta di anime che parla come un sol uomo (Par XIX), e altre visioni. Né mancano a Dante notevoli competenze astronomiche e curiosità scientifica, come abbiamo visto. Potrà egli unire queste mirabili competenze e abilità?

 

Dante nel canto XXII del Paradiso si reca oltre il cielo di Saturno. Da lì si volge indietro a contemplare la Terra. Concediamogli il fatto che non passa molto tempo da quelle parti. Che cosa avrebbe dovuto vedere, che invece non vede? Diamo subito la risposta, anche perché sembrerà lesiva dell'integrità del testo e lesiva del principio di carità interpretativa. Dante avrebbe dovuto vedere, e riportare, nientemeno che la Terra gira su se stessa. Scarto subito l'obiezione per cui nella cosmologia tolemaica di Dante il fatto che la Terra giri su se stessa non era nemmeno concepibile; è un'obiezione che non ha mordente, e anzi sono proprio le ragioni profonde di questa apparente inconcepibilità a minarla alla base. I contemporanei di Dante, e con loro chi li aveva preceduti ma anche chi li ha seguiti – inclusi noi, osservatori celesti del ventunesimo secolo – sono di fronte al fatto visivo di un movimento lento e incessante delle stelle fisse nel cielo, da est a ovest, ogni giorno; e certo Dante non sa che questo movimento osservato dipende dalla rotazione della Terra. Ma sapere è una cosa, fare ipotesi un'altra, e immaginare un'altra ancora. Ipotizzeremo che non riesca a concepire il movimento della Terra – come non vi era riuscito quasi nessuno prima di Copernico – per una ragione legata alla percezione visiva e alle sue leggi; l'Assioma di Visibilità lavora a volte dentro di noi, contro di noi. La Terra è un sistema di riferimento troppo grande per poter diventare figura; e solo le figure si muovono visivamente, mai gli sfondi che fanno loro da cornice, quella cornice senza la quale il movimento non sarebbe nemmeno visibile. Accettiamo quindi reinterpretandola la lezione che ci viene impartita dagli epistemologi relativisti; ci piace l'idea di una Terra che non è mai figura, che fa da sfondo al cielo e alle piccole cose che vediamo muoversi in esso. L'immobilità o addirittura immotezza dello sfondo è però un Assioma fondamentale che vale in tutto l'Universo. Una stella fissa, foss'anche grande come l'asteroide del Piccolo Principe, e un minimo di stazza o quantomeno di estensione geometrica la deve pur avere per poter accogliere il corpo di Dante, diventa automaticamente il sistema di riferimento che fa da sfondo alle piccole figure nel suo cielo, tra cui la Terra. Il movimento osservato di una stella dalla Terra, dato quello che Dante crede di sapere (o semplicemente sa, secondo i nostri epistemologi) è una rivoluzione intorno al nostro pianeta in uno dei nostri giorni. Quindi se dalla stella Dante, e noi con lui, sta osservando una Terra che appare sorgere e tramontare, deve vedere di queste parti sempre diverse durante il tempo che corrisponde a un giorno terrestre. E quindi, per definizione, deve vederla ruotare su se stessa. Ma, a quanto ci risulta, non è in questo modo che la vede. Ho preso tutte le precauzioni metodologiche, culturali e concettuali possibili nel presentare questa clamorosa cecità di Dante. (Per esempio non gli ho rimproverato di compiere un'osservazione, eventualmente da Saturno, da un pianeta che – come oggi sappiamo – a sua volta ruota su se stesso, cosa che Dante non poteva sapere.) I limiti del nostro esercizio sono tutti concettuali: è entro i limiti della conoscenza disponibile a Dante che egli avrebbe dovuto vedere, e farci toccar con mano la rotazione della Terra su se stessa.

 

Dante potrebbe sfidare la validità dell'Assioma dello Sfondo. Sostenere, e ne forse ha qualche ragione, che l'universo è cognitivamente anisotropo: quello che vale qui non vale lì e non tanto dal punto di vista fisico, ma dal punto di vista mentale. Uscito che sei dal mondo sublunare, ti metti a pensare e a vedere le cose in modo diverso, al punto da dover abbandonare persino la logica elementare. Oppure Dante potrebbe accettare la validità dell'Assioma dello Sfondo e concluderne che la stella dalla quale guarda la Terra è troppo piccola per esercitare l'effetto sfondo, e non relega quindi a figura il cielo da esso osservato; la Terra restando sfondo, avremmo l'impressione di essere sulla seggiola di una giostra.

 

Ancora una volta, non sono le conoscenze astronomiche pertinenti o la capacità di assumere punti di vista differenti a far difetto a Dante. È pur vero che là dove sale in cattedra, nel Canto II del Paradiso, si perde in una astrusa spiegazione delle macchie lunari. Ma quando deve dare informazioni utili al lettore è difficile coglierlo in fallo. In Purgatorio XVIII 76-81 mette in relazione caratteristiche geografiche (Roma, la Corsica e la Sardegna) con l'orientamento del sole al tramonto; Purgatorio VIII 91-93 registra l'incedere delle stelle; Paradiso X 13 sgg descrive l'inclinazione dell'eclittica, “l'oblico cerchio che i pianeti porta”. Dante è tanto astronomo quanto basta a fargli pardoneggiare gli strumenti che, se solo venissero ben utilizzati, farebbero di lui un precursore di quel Keplero il quale all'esperimento mentale della Terra vista dalla Luna dedica un Sogno prudente e avvincente ma comunque rivoluzionario.

 

Forse però stiamo giungendo a una biforcazione, ci si impone una scelta; non possiamo più semplicemente leggere la Commedia cercando di capire quello che avviene, né possiamo lasciar correre a briglia sciolta la macchina del ragionamento a partire dai fenomeni che Dante osserva; dobbiamo prendere distanza dal testo, sondare le motivazioni del poeta, fare ipotesi più alte e forse più audaci.

 

 

La doppia punizione di Ulisse

 

Quando Ulisse naufraga sull'isola dei Feaci si ritrova nudo, privo di conoscenza su una spiaggia. Poco distante Nausicaa lava i panni, gioca con le ancelle. Il grido di una di esse risveglia Ulisse. L'eroe ascolta trasognato, fa ipotesi confuse, si pone domande, pensa questo e quello, gira intorno al problema in modo affatto vano, favoleggia di ninfe.

 

“Ahimè, da quali uomini ancora sono giunto?

Sono essi violenti e selvaggi e privi di legge,

o forse ospitali, e temono in cuore gli dèi?

Ora mi giunse un grido femminile, come di fanciulle,

di ninfe che abitano le alte cime dei monti

e le sorgenti dei fiumi e dei prati erbosi.

Dunque io sono vicino a esseri che parlano?”

(Odissea, VI, 119-126)

 

Poco importa. Qualcosa accade, qualcosa deve accadere.

 

Fare.

Agire.

Ora.

 

“Ma voglio io stesso provare a vedere” (ibid.)

 

Agire, conoscere, ora. Ulisse deve andare a vedere. La conoscenza è una forma di azione. Non ce la ritroviamo tra le mani, è invece il risultato di una ricerca. Nemmeno è possibile la delega, è invece assunzione di responsabilità; è punto di vista, è prima persona.

 

È altrove che ci verrebbe fatto di cercare i segni del destino di Ulisse: il suo desiderio tracotante di ascoltare il canto delle Sirene, che mette in periglio la nave e la vita stessa dei suoi uomini. D'accordo. Ma la versione più pura del desiderio è quella che troviamo nascosta in questa piega di una pagina dell'Odissea; il dettaglio è apparentemente insignificante, e la sua importanza è in ragione inversa della sua apparente modestia. Devi conoscere. Sempre e comunque.

 

Anche per questo l'Odissea ha ridotto l'Iliade, luccicante di armi, cremisi per il tanto sangue versato, perlacea d'indimenticabili lacrime virili, a un modesto e quasi sinistro preambolo del viaggio vero di ciascuno di noi sulla Terra; a un ricordo stranito. A vagabondare con Ulisse ogni tanto ci volgiamo indietro e scorgiamo, in un passato che ci sembra lontanissimo, quasi non fosse mai appartenuto nemmeno allo stesso navigatore, e di colpo per noi incomprensibile, eroi ridotti a macchiette capricciose, guerrieri infeodati in vendette mafiose, donne attraversate e per tutta la vita segnate da tristezza non desiderata. Chiamiamo pure le cose con il loro nome: di che altro si trattava se non di guerre di bande originate da pretesti opachi, come il movente rozzo di lavare la macchia di un onore offeso; e mosse anche, sospettiamo, da un bisogno irrepresso di menare le mani, così, tanto per menarle. Un passato in cui la violenza dei clan era paludata di tirannici codici di comportamento che cercavano di ingentilirla in modo non convincente, quei codici che Ulisse ha definitivamente cancellato e ridicolizzato, sostituendo l'astuzia e lo stratagemma – perfettamente laici, efficaci e risolutori – al virile ma inconcludente suonarsele di santa ragione (e in che modo poi: coperti d'oro finemente cesellato, per soprammercato abitati dal sospetto a metà tragico e a metà farsesco di essere soltanto pedine di un trastullo divino impenetrabile e vacuo.) Proprio per questo Dante punisce una prima volta Ulisse, consigliere fraudolento, condannandolo a essere fiamma eterna. Ma da un lato la punizione non è bastante, e dall'altro è quasi blasfema.

 

E allora possiamo mettere in parallelo due grandi transiti all'emisfero australe, l'uno, quello di Dante, riuscito, l'altro fallito tragicamente; entrambi volti alla meta del monte del Purgatorio, nell'un caso raggiunta in modo perfettamente compiuto e strumentale a un'ascesa ancora più ambiziosa, nell'altro soltanto presagita. Alla chiusa dell'Inferno Dante passa attraverso il centro della Terra e si ritrova in un mondo rovesciato. Per spontanea dichiarazione, non ci si raccapezza.

 

“Io levai li occhi e credetti vedere

Lucifero com'io l'avea lasciato,

e vidili le gambe in sú tenere.”

(Inferno XXXIV, 88-90)

 

“Ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto

si sottosopra? E come, in sì poc'ora

da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”

(Inferno XXXIV, 103-105)

 

E non solo non capisce; dichiara uno stato d'inferiorità, riconosce di aver bisogno di Virgilio che gli spiega come siano entrambi passati per il punto “al qual si traggon d'ogni parte i pesi” (ibid. 111), e anzi gli intima di alzarsi, visto che la gravità adesso lo tira in senso opposto, e illustra anche che “Qui è da man, quando di la è sera”(ibid. 118) Apprendiamo così che i due viandanti sono in cammino verso gli antipodi, dove il giorno si scambia con la notte. E dopo un poco Dante scopre altri fenomeni rovesciati, di nuovo senza capacitarsene:

 

“Li occhi prima drizzai a' bassi liti

poscia li alzai al sole, ed ammirava

che da sinistra n'eravam feriti”

(Purgatorio IV, 55-57)

 

E di nuovo Virgilio con ammirevole pazienza gli dimostra che si trovano ora nell'emisfero australe, dove gli astri appaiono ruotare in senso inverso se guardiamo al polo di riferimento rispetto al senso in cui ruotano nel nostro.

 

Non è di una guida che ha bisogno Ulisse. Ulisse è una guida.

 

“E, volta nostra poppa nel mattino,

de' remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino”

(Inferno XXVI, 124-126)

 

Ha oltrepassato le Colonne d'Ercole, si è lasciato Siviglia a dritta e Ceuta a sinistra, e guadagna a babordo; siamo invitati a por mente al tragitto: poppa a est, quindi naviga verso ovest: sta quindi virando per volgere a sud. Dante ci sfida intellettualmente obbligandoci a calcolare la rotta, e poi incalza, il ritmo accelera, siamo trasportati al punto di vista di Ulisse, da lì ci appare quello che il navigatore osserva:

 

“Tutte le stelle già dell'altro polo

vedea la notte, e 'l nostro tanto basso

che non surgëa fuor del marin suolo”

 

Ulisse ha attraversato l'Equatore, il suo riferimento è ormai il cielo australe. Come Dante oltre Saturno, si volge a guardare indietro verso il luogo da cui proviene, e a differenza di Dante vede giusto, senza che nessuno gli debba spiegare alcunché: non vede più il nostro polo celeste, la stella Polare è sotto l'orizzonte. Ha intelligenza del mondo e, cosa ancor più importante, della sua situazione nel mondo; sapere da dove si viene è condizione necessaria per sapere dove ci si trova e quindi per capire dove si può andare.

 

Il viaggiatore Dante ha bisogno che Virgilio gli spieghi l'abiccì dell'astronomia; una conoscenza di cui Dante poeta deve pur sempre disporre per poterla mettere in bocca a Virgilio, ma che preclude senza esitare al Dante viaggiatore. Una conoscenza che invece il Dante poeta non nega ad Ulisse; in questa asimmetria implicitamente riconoscendogli una superiorità, inchinandosi quindi di fronte a un desiderio assoluto del quale comprende o soltanto presagisce che ha potuto smuovere la storia e trasformare la notte senza fine della violenza e dell'arbitrio in giorno sofferto ma sereno. Ma la dissonanza cognitiva è insanabile, non c'è viaggio in Paradiso, non c'è ascesa, non c'è sfoggio di erudizione, non racconto d'amore, non enciclopedia, non trattato, non progetto didascalico che possa riscattarla. Il mondo degli dei e degli eroi si allea con il Dio delle mille allucinate visioni; la scorciatoia è a portata di mano; la fine è nota (Inferno XXVI, 141-142):

 

“e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che l' mar fu sovra noi richiuso.”

 


 

Il saggio di Roberto Casati Sassi, ombre, visioni è pubblicato sul catalogo “The Divine Comedy – Heaven, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists – Kerber Editore” su invito del curatore Simon Njami. È gentilmente concesso dall’autore a lettera27 per la pubblicazione su Doppiozero.

 

lettera27 e Moleskine sono partner della mostra The Divine Comedy, attualmente in corso al museo MMK di Francoforte e visitabile fino al 27 luglio.

 

Per citare questo testo:

Casati, R. “Stones, Shadows, Vision”. In S. Njame, ed. The Divine Comedy – Heaven, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists. Frankfurt a. Main, Museum für Moderne Kunst – Kerber Verlag, 50-65.

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