Una riflessione sul Royal Wedding qualche mese dopo / Il principe azzurro tra reality e fiction

4 Agosto 2018

Il principe azzurro esiste. In inglese, in verità, non esisterebbe, perché Blue Prince designerebbe al massimo un principe vestito di blu o tutt’al più, con un certo ardimento, il principe di un film pornografico – visto che blue, in inglese, è da due secoli almeno il colore dell’indecenza e dell’oscenità. In inglese, infatti, la figura corrispondente è un Prince Charming (principe fascino) oppure un Knight in shining armour (cavaliere dall’armatura scintillante) o anche solo un White Knight (cavaliere bianco). Eppure il Royal Wedding del 19 maggio 2018 ha dimostrato il contrario: il principe azzurro esiste proprio in Gran Bretagna. Forse bisognerà cominciare a chiamarlo effettivamente Blue Prince, senza sottintesi maligni o sciocche ironie, ma proprio perché si tratta di una figura nuova nella cultura di matrice anglosassone.

 

Non si parla di fiabe, infatti, ma di realtà: la bella principessa è stata sposata, e salvata, dal suo principe azzurro. Non è la prima volta, a dire la verità: era già successo sette anni fa, quando Catherine Middleton aveva sposato William, secondo erede al trono d’Inghilterra. I principi azzurri sono almeno due, quindi. Entrambi sono serviti alla monarchia per togliersi di dosso un po’ di polvere, dopo che la regina in carica, Elisabetta II, pur amatissima dal suo popolo, non aveva certo fornito un’immagine particolarmente engaging nel corso del suo ormai ultrasessantennale regno

I due matrimoni reali sono stati invece una formidabile azione di re-branding. La monarchia si sposa ed è giovane. Giovane e bella, come si addice a quegli eroi, cantava Guccini, cui va la nostra ammirazione perché restano lì, sull’alto di un piedistallo, fermi e imbalsamati, una volta per sempre. Gli eroi, però, si sa, funzionano solo se non sono del tutto irraggiungibili: devono sembrare alla nostra portata, ma superiori. Quasi raggiungibili: infondere simpatia e incutere timore. Lo stesso vale per i reali, che non possono essere più, nell’età della mediatizzazione della politica, distaccati e indifferenti. Devono essere come noi, ma un po’ più di noi.

 

Quale occasione migliore per conseguire questo risultato che il matrimonio dei due rampolli, uno dopo l’altro, i figli dell’amatissima Diana, amatissima forse anche perché royal fino in fondo non è mai riuscita a esserlo? Il matrimonio di Harry è stato ancora più utile di quello di William: senza responsabilità dinastiche, il cadetto poteva essere ancora più vicino all’uomo comune rispetto a suo fratello, sulla cui testa con sempre meno capelli pende come inesorabile spada di Damocle quella corona che un giorno lo renderà re. Poco importa che sua nonna abbia dichiarato in un’intervista televisiva di non averla mai indossata perché è troppo pesante.

 

Il Royal Wedding ha dimostrato che la monarchia britannica è in grado di gestire il futuro oltre al passato. Non solo è democratica, perché si apre ai neri (seminera era la sposa, ma nerissimo il reverendo che ha celebrato il rito, il vescovo anglicano Michael Curry): soprattutto è televisiva. La grandiosità dell’evento era tutta finalizzata alla sua diretta in mondovisione: al punto da far passare in secondo piano la finale di FA Cup tra Chelsea e Manchester United. Povero Antonio Conte, che quest’anno non era riuscito a far disputare al suo Chelsea un gran campionato, eppure stava per prendersi la soddisfazione di vincere quello che un tempo era il titolo calcistico più prestigioso d’Inghilterra. Proprio quel giorno la stragrande maggioranza dei pub trasmetteva il Royal Wedding, con la partita al massimo relegata in coda, se non proprio ignorata. All’inizio, infatti, tutto era calcolato perché i tifosi non perdessero la partita, che sarebbe cominciata dopo la fine del Royal Wedding. Pure William avrebbe dovuto essere a Wembley, lo stadio, dopo il matrimonio, correndo lì da Windsor, dove si svolgeva la celebrazione, come ancora auspicava a solo un mese dall’evento il seguitissimo Daily Express, sperando in un elicottero reale. Alla fine, però, ha rinunciato a presenziare alla premiazione della partita, come gli compete di diritto in quanto Duca di Cambridge, che è anche Presidente della Football Association, la lega calcistica inglese: “the Duke of Cambridge chose the wedding festivities over the football” [“il Duca di Cambridge ha anteposto i festeggiamenti nuziali al calcio”], annunciava già a marzo, con malcelato disappunto, il sito internet del canale televisivo ITV. Come lui hanno rinunciato alla partita migliaia, forse milioni, d’inglesi, perché, si sa, gl’inglesi non sopportano due eventi in uno stesso giorno, ne basta uno per ubriacarsi e far baldoria, a che serve la partita, con due allenatori stranieri per di più, se prima c’è stato il Royal Wedding, la quintessenza dell’Englishness, l’inglesità?

 

 

La televisione è stata la grande svolta dei due matrimoni sul piano politico. La monarchia è spettacolo, come una partita o un concerto. I monarchi sono celebrities, come Madonna e Justin Bieber. La monarchia si rinnova, è al passo coi tempi, incontra i gusti del pubblico e si dà in pasto alla curiosità. Tutto bellissimo, soprattutto se un reverendo nero cita Martin Luther King e ricorda che il matrimonio è il trionfo dell’amore. La monarchia è people-friendly, black-friendly e ... women-friendly. Come dimenticare che l’istituzione patriarcale per eccellenza, nonostante una regina che di maschile non ha nulla (ma neppure di femminile, ahinoi, asessuata per definizione), questa volta ha concesso uno spazio enorme alla sposa, che ha dominato la scena col colore della sua pelle, la sua saga familiare e la sua scelta liturgica? Il nuovo leader del partito nazionalista UKIP, Henry Bolton, 54 anni, ha addirittura dovuto lasciare la sua venticinquenne compagna per aver deriso la pelle nera della promessa sposa. E suo padre, che aveva tentato di vendere foto fasulle dei preparativi nuziali? Per nulla scalfita, Meghan Markle è diventata l’assoluta protagonista dell’evento. È stata lei a scegliere chi l’avrebbe portata all’altare e chi avrebbe celebrato il rito. Lei, una donna, la diva di questo matrimonio: una nera nel regno dei bianchi, una figlia di un padre imbroglione nel regno dell’etichetta e del perbenismo, una seguace degli spiritual americani nel regno del puritanesimo e del formalismo. E ancora: una divorziata dove vige la legge del rispetto coniugale fino al sacrificio; e di più: un’attrice che si è fatta da sé nel mondo in cui tutto è dovuto fin dalla nascita. 

 

Tutto ciò, però, è stata una concessione della monarchia. La monarchia l’ha salvata. Lei poteva essere nera ed è diventata bianca. Poteva essere come il padre e sarà una duchessa. Poteva essere americana e sarà inglese. L’ha salvata il principe azzurro. Aveva tutto da guadagnare, lei, infatti, mentre Harry non ha guadagnato niente. Lui era lì, immobile e scontato, come quei personaggi che possono fare solo da comprimari mentre l’altro, l’eroe vero, quello tragico ed epico, vive il suo romanzo di formazione. Non era stata accolta senza perplessità dai tabloids, infatti, la futura duchessa del Sussex, al punto che Melanie McDonagh su The Spectator aveva denunciato con dispetto “the union of royalty and showbiz”, fino a ricordare “settant’anni fa, Meghan Markle sarebbe stata il tipo di donna che il principe avrebbe scelto come amante, non come moglie”. Solo di lei si è parlato, comunque. Lui, vuoto pneumatico: ovvero, principe azzurro. 

 

La donna si è salvata grazie al principe azzurro. Lei, destinata alla perdizione, maledetta e sbandata, ha trovato lui, quel simbolo di amore e bellezza che non parla e non dice, ma salva. Si è salvata perché la monarchia potesse a sua volta confermarsi: accogliente, disponibile e salvifica, appunto, tanto da costruire storie che possono piacere a tutti. Bastava leggere i titoli dei giornali inglesi del giorno dopo, che celebravano la perfetta love story, perché l’amore è il più democratico dei sentimenti, e fa dimenticare le differenze di classe, i privilegi sociali e le ingiustizie economiche: “Due persone si sono innamorate e ci siamo presentati in massa”, titolava The Observer, in un invito a riconoscere l’abbraccio fraterno tra “loro” e “noi”, la monarchia e il suo popolo, all’insegna di una specularità invero piuttosto asimmetrica (loro si amano e noi guardiamo). Tanto umani e tanto spiritosi, i reali e i giornali, da suggerire di non guardare il mento di Harry sul costume delle sue fan e da ricordare che in effetti Meghan e Harry si chiamano Rachel e Henry. 

 

Ciò che più preoccupa, allora, è il potere magico del Royal Wedding, che non solo ha reso reale il principe azzurro delle fiabe, ma ha anche trasformato la realtà in una fiaba: si è trattato di una fiction, perché era come vedere il Grande Fratello o l’Isola dei famosi, East Enders o Coronation Street. Come si addice alle fiction, se ne è parlato tanto nel momento in cui è andata in onda e non se ne parla più dopo, in attesa della prossima puntata o della prossima serie: la fiction si consuma nel presente, non ha e non deve avere durata, funziona proprio perché si consuma e non dura.

La novità del Royal Wedding non è stata l’apertura culturale e razziale, ma l’americanizzazione della monarchia: culto delle celebs, mondovisione e fairy-tale sono il mix più hollywoodiano possibile per una società che rispetto all’Europa cerca disperatamente di mantenersi autonoma, ma di fronte al cugino d’oltreoceano non può far altro che seguire pedissequamente. Nel libro probabilmente più importante degli ultimi cinquant’anni, La société du spectacle (1967), ingiustamente sottovalutato (ma si capisce perché), Guy Debord aveva già spiegato tutto: 

 

In quanto specialisti dell’apparire, le star servono da oggetti superficiali con cui la gente si può identificare con l’obiettivo di compensare le loro vite segnate dalla frammentazione provocata dalla specializzazione produttiva.

 

Oltre a Debord, va letto il suo ancor più trascurato compagno d’avventura intellettuale, Raoul Vaneigem, l’autore del Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations, anch’esso del 1967, edito più volte in italiano (da Vallecchi, Malatempora, Barbarossa, Massari e Castelvecchi) e famoso in inglese come The Revolution of Everyday Life, che denunciava esplicitamente la segmentazione della vita quotidiana in una serie di attività stereotipate, uguali per tutti e vuote per tutti:

 

L’inautenticità è un diritto umano. [...] Prendete un uomo di 35 anni. Ogni mattina prende la macchina, guida fino al posto di lavoro, accatasta scartoffie, pranza in centro, gioca a biliardo, accatasta altre scartoffie, se ne va dal lavoro, fa un aperitivo, torna a casa, saluta la moglie e i bambini, mangia una bistecca davanti alla tivù, va a letto, fa l’amore e si addormenta. Chi ha ridotto la vita di un uomo a una tale patetica sequenza di stereotipi? Un giornalista? Un poliziotto? Un ricercatore di mercato? Un autore realista? Nessuno di loro. Lo fa da sé, dividendo la sua giornata in una serie di atteggiamenti scelti più o meno inconsapevolmente sulla base degli stereotipi dominanti.

 

A Meghan e Harry c’è solo da augurare di non avere una vita così. Tanto facile perché tutti possano identificarsi e tanto vuota perché di loro non resti traccia. Il principe azzurro è sempre stato un uomo senza volto e senza nome: pura funzione, destituita di anima e vita. Il Royal Wedding ci ha regalato una puntata in più delle tante fiction che popolano la nostra vita quotidiana per riempire vite non vissute con vite finte e senza scopo – che è esattamente il motivo per cui la monarchia britannica funziona così bene.

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