Letto in un’altra lingua / Angela Rohr, Lager

10 Maggio 2018

Nata nel 1890 a Znojmo (oggi Repubblica Ceca), Angela Rohr a diciassette anni lascia la famiglia per vivere il fermento delle avanguardie. Già allora i suoi racconti di matrice espressionista vengono pubblicati su riviste e le guadagnano la stima di numerosi e importanti intellettuali dell’epoca, tra cui tristemente nota è l’attenzione di Rilke. Dopo una giovinezza costellata di difficoltà, ma segnata anche da eventi formativi eccezionali, tra cui gli studi di psicanalisi e medicina, Angela Rohr si trasferisce a Mosca con il terzo marito, Wilhelm Rohr, critico cinematografico e attivo socialista. Da lì, negli anni Venti, comincia a lavorare come corrispondente estera per la <Frankfurter Zeitung>, e fa della Russia la sua seconda terra, ottenendone in seguito la nazionalità. 

 

 

All’ingresso della Wehrmacht in Russia, però, i coniugi Rohr vengono imprigionati, processati per un’accusa di antisovietismo e condannati alla prigione e alla deportazione in un gulag, come molte vittime delle delazioni più o meno verificate relative al comma 58, “crimini politici”. Una volta nei campi, i dissidenti politici si trovavano poi a condividere gli angusti spazi vitali con ogni tipo di criminali. Al suo arrivo, nel 1943, dopo un lungo viaggio, Angela Rohr si trova quindi in un variegato gruppo di prigioneri: russi, coreani, tedeschi, siriani, armeni, lettoni… Inizialmente destinata ai compiti più umili, poi alla cura delle prigioniere, poi alla medicheria, oscilla tra grazia e condanna in base alle necessità e alla sua posizione nei confronti delle autorità dei campi, ufficiali o ufficiose. Il resoconto Lager, inedito in Italia, segue i suoi spostamenti tra un campo di lavoro e l’altro, descrive i compiti di volta in volta assegnati, disattesi, rifiutati, ma anche i lavori in nero, i piccoli sotterfugi comuni a lei e a tutti i prigionieri. Nel 1949, scontata la pena, le viene comunicato che, in quanto tedesca di nascita, era condannata al “confino eterno”. La riabilitazione avvenne infine nel 1957: le fu permesso di vivere a Mosca, e di lavorare come medico dietro un compenso modesto. Non incontrò mai più suo marito, probabilmente morto nel gulag già nel 1942, e nel 1985 morì a Mosca dimenticata, ma mai arresa. 

 

Il romanzo Lager è un testo autobiografico in cui la scrittrice rende in maniera asciutta e apparentemente antiretorica la quotidianità del gulag. Pur essendo considerato, fin dalla sua riscoperta ad opera della studiosa Gesine Bey, un reportage autobiografico, il romanzo è “obliquo” rispetto alla sua stessa definizione: i sentimenti e le sensazioni dell’autrice vengono perlopiù taciuti, rivelati a volte dall’introiezione dei rapporti causali tra alcuni eventi narrati. I limiti si pongono anche rispetto al contenuto del racconto. Tutto ciò che era prima del campo, e tutto ciò che non appartiene al campo, resta fuori dal romanzo, esso stesso dunque un “campo” ben recintato di prigionia per una narrazione di per sé impossibile. La realtà traspare senza alcuna emotività, e indescritta resta la dolorosa consapevolezza di avere come unico dovere e unica possibilità la sopravvivenza. Nel raccontare di cure e di difficoltà nel trovare espedienti che garantiscano la vita sua e dei pazienti trapelano, ma solo rarefatti, rassegnazione e orgoglio insieme. Talvolta si percepisce tra le trame della narrazione un trattenuto stupore per i risultati delle proprie azioni, soprattutto nei casi in cui leggiamo di cure che “funzionano”, di pazienti salvati con mezzi sostanzialmente inesistenti, e con l’ausilio della caratteristica principale di ogni medico e delle proprie conoscenze psicanalitiche acquisite: la valorizzazione della relazione tra psiche e soma. Nonostante le indicibili difficoltà, il lavoro di medico di Angela Rohr fu per molti versi pioneristico nelle sue sperimentazioni, e condusse al salvataggio di centinaia di prigionieri, cosa che non sempre piacque alle autorità.

 

 

Gli orrori dei campi russi sono noti, diffusi dai volumi di Alexander Solzhenitsyn, Evgenia Ginsburg, Varlam Šalamov e anche di Herta Müller. Angela Rohr agisce letterariamente su altri canali rispetto agli scrittori più letti, si focalizza sul dettaglio, e le scene di forte potenza immaginifica, tipiche dell’espressionismo a cui doveva i suoi esordi letterari, spiccano nel testo per imprimersi nella memoria del lettore. Il racconto tiene rigorosamente la prospettiva di un anonimo io narrante femminile, sovrapposto all’autrice, e nella sua sobrietà rende perfettamente la doppia condizione della narratrice, che soffre le pene del gulag, ma ha, in quanto medico, il potere di “definire” la sofferenza degli altri. Nel 1949, Rohr pubblica un articolo in una rivista specializzata: “Esperienze nella cura della narcosi da cicuta”. Spiega che è riuscita a trattarla reprimendo i crampi con una ripetuta sedazione con l’etere, salvando così molto pazienti, prigionieri che per fame mangiavano l’erba velenosa. La possibilità di prendere le distanze da ciò che accade, inserendo la propria esistenza in una specie di laboratorio, le lascia la sensazione di un ruolo doppio, faticosissimo, ma permette anche un’uscita dal sé, e si riflette nell’oscillazione narrativa tra descrizione e simbolismo. 

D’altra parte, gli strumenti letterari restano ridotti al minimo, proprio come gli strumenti che ha a disposizione per curare i pazienti: (“Nel mio angolino, oltre a una branda, c’era un piccolissimo armadietto dei medicinali, con il quale apparentemente avrei dovuto cavarmela. Conteneva una siringa arruginita e un grande barattolo di una pomata bruna senza etichetta. […] una bottiglia di sali d'ammonio serviva per disinfettare la siringa che a quanto sembrava veniva utilizzata perlopiù per iniezioni di canfora, disponibile in quantità. In una scatola c’erano alcune ampolle di stricnina. Una minuscola bottiglietta a cui era fissata una pipetta […] conteneva l’alcol”). Di fatto, questa scelta evidenzia la scrittura e il gesto letterario come limitati e insufficienti per descrivere una forma di sofferenza cronica che intacca l’umanità. Il tono asettico in cui prendono forma scene e rappresentazioni del dolore è la rassegnazione all’assenza del “miracolo” a cui “non crede più nessuno” come quelle dei prigionieri, non si possono trattare se non con la sedazione e attendendo la fine. 

 

Solo apparentemente semplificata, quindi, la lingua di Angela Rohr è affilata e inesorabile nella sua immediatezza narrativa. Alle terrificanti immagini non si sfugge: il lettore segue la descrizione come se non potesse far altrimenti, per poi trovarsi improvvisamente di fronte a un’immagine spesso scioccante nella sua crudezza: “Il congelamento era però una delle occasioni per sottrarsi a lungo dal lavoro. Ragion per cui non solo lo si cercava, lo si desiderava. Per gli uomini assegnati all’abbattimento degli alberi era facilissimo. Urinavano sull’ascia e poi la impugnavano a mani nude, così che la pelle si congelasse, per poi strapparsi con un colpo solo. Una procedura certamente dolorosa, ma che consentiva loro di passare diversi giorni al caldo.” 

 

La creazione di universi narrativi simbolici, invece, è un modo per nascondersi al primo sguardo del lettore, e svelarsi solo al più sensibile. Anche qui, il parallelismo con il pericolo continuo, nel campo, nel lasciar trapelare le proprie debolezze. Per se stessa e per il suo soffocare i sensi di colpa, per l’intima fatica nello scendere a compromessi, Angela Rohr sceglie simbolismi più complessi, dilatati nella narrazione: “L’inverno era rigido, e gelavo. La mia ladra mi offrì in vendita dei pantaloni da uomo, che avevano un aspetto davvero sgradevole. Una metà era pulita e celeste, l’altra però completamente incrostata di sangue, la gamba tuttavia non era bucata, era intera e intonsa. Mi chiesi che ferita avesse potuto subire quell’uomo, escludendo che potesse essere di un colpo al ventre ad averlo ucciso. In quel caso tutto il pantalone sarebbe stato insanguinato. Mi torturai con tutte le possibili diagnosi, cosa che oggi potrebbe sembrare strana, ma non giunsi a una conclusione.

 

Il prezzo dei pantaloni era basso, il sangue ne sminuiva molto il valore, tanto che potevo permettermeli, sebbene mi costò comunque un enorme sforzo comprarli. Poi guardai il mio acquisto e mi immaginai come procedere per la pulizia. Il pantalone andava immerso in acqua fredda per evitare l’emolisi, cosa che sarebbe bastata, seguita dal solito lavaggio. Mi proponevo di non pensare alla gamba insanguinata, dato che non potevo assumermi in nessun senso la colpa di quella morte. Ma non mi fu data la possibilità di lavare il pantalone da me, e si offrì di farlo la ladra, di consegnarlo a una donna che si occupava di queste cose. Quando mi vennero restituiti, il loro aspetto era cambiato, ma non in meglio. La donna li aveva infatti immersi in acqua bollente, e la gamba del pantalone non era più incrostata, ma era diventata tutta rosa. Misi quell’indumento a me così necessario nella sacca e non so dire se ero o meno decisa a non indossarlo, o se volevo solo togliermi l’immagine dagli occhi. Forse pensavo che, come tutto fa il suo tempo, anche quel timore che sentivo si sarebbe placato, e si placò”.

Lungi quindi dall’essere letteratura documentaria, il romanzo è un’opera consapevole e persino metafinzionale, in cui la sapienza di un’autrice cresciuta tra le sperimentazioni avanguardistiche, come disciolta in un tardo naturalismo, gioca con l’equilibrio per evidenziare la pervasività di un intero sistema criminale, che vuole considerare la vita umana senza valore. 

 

Le citazioni sono tratte dall’edizione più recente: Angela Rohr, Lager, Aufbau, Berlino, 2015. La traduzione di queste citazioni è di Paola Del Zoppo.

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