Fragilità

2 Gennaio 2014

Abbiamo nei bambini uno dei punti di nostra massima fragilità. Ciò che accade loro riflette e amplifica la percezione della nostra posizione nel mondo. Da qui la tendenza a isolare il bambino, a proteggerlo come una merce preziosa, ma anche a esibirlo come uno status symbol, specchio degli adulti e insieme prolungamento della naturale esposizione dei loro corpi. Sarà forse per questo che, leggendo il libro di Yann Diener Un bambino viene agitato (sottotitolo: Lo Stato, gli psicoterapeuti e gli psicofarmaci, Edizioni ETS), abbiamo la sensazione che, più che prendere in cura l’infanzia, una società come la nostra miri in primo luogo a proteggere se stessa dai propri fantasmi e a realizzare le proprie aspirazioni recondite.

 

Nell’ostacolo su cui il bambino s’incaglia è la nostra stessa fragilità a venire bruscamente risvegliata. Capita di accorgersene all’improvviso, per quanto lo si presentisse già da prima. Come uno strattone il cui effetto si estenda a tutto il corpo, le difficoltà del bambino si amplificano in noi esponenzialmente.

 

Capita che da una complicazione qualsiasi, da un iniziale disagio si passi molto velocemente a una condizione in cui un bambino è dichiarato affetto da qualche strano disturbo. Lo sanno tutti quei genitori che, chiamati a scuola per discutere di una “difficoltà” del bambino con direttore e maestre, si siano ritrovati con un bambino “malato” alla fine della riunione. Per quanto questa “malattia” abbia un nome, e questo fatto possa addirittura essere rassicurante, in realtà è proprio quel nome a certificare l’ingresso del bambino, e quindi dei suoi genitori, all’interno del mondo delle procedure medico-sanitarie e all’interno del linguaggio che queste procedure parlano. Il bambino, la patologia di cui soffre, i suoi genitori, il contesto scolastico: cosa non è effetto di questo codice scritto e parlato, di questa neolingua dove tutto è patologia e, ovviamente, trattamento?

 

D’altra parte, le procedure che prendono in carico un bambino tendono a proporsi come un’intrusione estremamente rassicurante, che non vuole cambiare nulla, ma solo estirpare il fastidioso sintomo che attanaglia vostro figlio e la vostra vita. Ci dev’essere una qual certa piacevolezza in tutto questo, se è vero che ci convinciamo ad adeguarci alla soluzione offerta dalla diagnosi, sia essa di “iperattività”, di “deficit di attenzione” o d’altro.

 

Davanti a questa abbondanza di soluzioni diventa perfino difficile vedere il problema, tanto più che il problema è stato dichiarato sin dall’inizio: sempre e solo il bambino agitato. Risolvendo l’agitazione del bambino, anche i genitori staranno bene. Può arrivare a pensarlo il bambino stesso: che i genitori sono nervosi unicamente a causa sua. La soluzione medico-diagnostica, cioè in definitiva farmacologica, ha il vantaggio di non richiedere altri sforzi: la costellazione familiare non verrà messa in discussione e presto le cose si risolveranno, dato che, prendendo il Ritalin o qualcos’altro, il bambino agitato sarà finalmente un po’ meno agitato. Questo convincimento non ha mai luogo senza che si accetti contemporaneamente un codice linguistico che non viene mai rimesso in discussione, anche quando non lo si capisce.

 

Sappiamo quanto sia difficile scrollarsi di dosso le parole, le espressioni di senso compiuto, le frasi fatte. Una volta che s’insediano dentro la nostra lingua con la loro dose rassicurante di senso comune, subentra un’inerzia che si fatica a mandare via. Questa inerzia è tanto più forte in coloro che sono stati accolti, turbati e nuovamente tranquillizzati dalle procedure mediche: qui la soluzione è nota, la soluzione è semplice, la soluzione è vicina. Questo mantra promette di valutare e di identificare un problema nello spazio di sempre minor tempo, con una sicurezza che si vuole quasi meccanica. Ma le parole che essa offre non sono davvero fatte per parlare di ciò che succede. Una lingua così finisce per fare da ostacolo alla parola, alla parola avvertita come mancante.

 

Qui tutti i protagonisti della vicenda (il bambino, i genitori, l’equipe che lo ha in cura) sono privati del loro rapporto con la parola. Una parola certo difficile, complessa, dolorosa. Ma una volta estirpata, all’alleggerimento del primo istante segue un buco profondo, un grumo rappreso di rabbia, una perplessità ancora peggiore. È allora che ci si attacca a quel feticcio oscuro che è la diagnosi: parola-amuleto, standard minimo di sopravvivenza, che protegge dalla fatica di parlare, di dover dire ancora, ma negandoci quella parola che non si fa di necessità, ma di desiderio.

 

L’“utente” dell’istituzione medica avrà anche diritto ai suoi diritti, ma per definizione non parla. Altri lo fanno al posto suo; in realtà anche questi ultimi a loro volta parlano una lingua standardizzata e preventivamente approvata: parlano una lingua in cui i significanti sono stati già fissati senza rischio di smentita. Una lingua in cui, in definitiva, nulla deve accadere. Dentro questo cerchio magico non sarà più questione di sintomi, ma sempre e solo di disturbi e di handicap. Sono pochi quelli che conservano a questo punto la capacità di accorgersi di cosa succede: questa trasformazione linguistica del “disagio” in “handicap”, questa cancellazione del sintomo in quanto sintomo, segnala un passaggio importante.

 

Un sintomo rappresenta una verità, l’apparire di qualcosa altrimenti nascosto: magari una verità che riguarda la famiglia o i genitori e che non ha trovato altro modo di emergere che attraverso il sintomo. Un handicap non ha ovviamente alcuna verità; l’unica verità è quella riconosciuta alle pratiche terapeutiche che intendono estirpare il male. Se il sintomo era ancora una parte del corpo che parlava, l’handicap è un disturbo con cui il paziente finisce per venir identificato in questa lingua diagnostica. Il passaggio espressivo da “l’enuresi è un handicap” a “è un handicappato a causa della sua enuresi” è da questo punto di vista esemplare: quella di handicappato è una condizione inventata da un’istituzione, laddove il sintomo è comunque uno stratagemma del soggetto per dire il suo disagio ad accettare il ruolo che gli è stato attribuito. La constatazione si trasforma in un’identità che cattura il soggetto: dentro la gabbia d’acciaio dell’“utente” il soggetto che vi è rinchiuso fatica a farsi sentire; fatica a trovare la via verso quella parola che è sua e di nessun altro.

 

Se in effetti emerge un conflitto tra la dimensione farmaceutica e quella linguistica, è forse perché, come gli antichi greci sapevano bene, la parola ambisce, sin dalla sua prima ora, a essere riconosciuta come farmaco. Quando la lingua torna a essere la parola che si fa in ciascuno per salti, invenzioni, balbettii – la parola fragile, fragile come la vita che la porta; la parola che deve essere cercata, presa in prestito, trasformata ogni volta da capo – allora riconosciamo in lei il suo potere di pharmakon. Rispetto alle parole sottratte ci viene incontro quanto diceva una poetessa di lingua tedesca, il fatto cioè che abbiamo bisogno di frasi vere. Mai come oggi questa frase sembra assumere a distanza di tempo un valore profetico che gli sviluppi della nostra epoca non hanno fatto che confermare.

 

La ristrettezza della neolingua psico-medico-terapeutica che non parla più con i pazienti, né è più capace di ascoltarli, perché sono per lei solo “utenti”, questa ristrettezza è spazio sottratto alle vite, spazio-di-vita per riguadagnare il quale a questo punto non basta più affidarsi al ritornello rassicurante della protezione della vita, ma occorre inventare un’altra narrazione di sé, che parta forse proprio dalla fragilità come luogo necessario e prezioso della nostra personale sperimentazione nel mondo.

 


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