L'ultimo turno di guardia / Alberto Rollo, il paziente milanese

22 Febbraio 2021

Leggendo L’ultimo turno di guardia di Alberto Rollo (Manni 2020) ho pensato al Paziente inglese di Michael Ondaatje (1992) e all’omonimo film di Anthony Minghella (1996). Rollo è già autore del romanzo-memoir Un’educazione milanese (Manni 2016), arrivato dopo una lunga carriera (tutt’altro che conclusa, peraltro) di direttore editoriale e consulente per grandi case editrici. Ha detto molti sì, molti no e molti forse a un’infinità di autori, ma deve averli detti anche a se stesso, altrimenti né il libro precedente né questo sarebbero usciti dopo gestazioni così lunghe. Venticinque anni ci sono voluti per scriverlo, senza la terribile fretta dei poeti che vogliono essere pubblicati subito. Siccome il suo eroe (ogni poema deve avere un eroe) è un “malato di tempo”, un paziente chiuso nella sua stanza di degente in cima a una torre, dalla quale fa cadere le sue parole sul mondo, bisognava che il suo autore lasciasse che fosse il tempo stesso a comporre i versi. Bisognava insomma essere un paziente milanese e un milanese paziente. 

 

Un’educazione milanese era la ricognizione di un territorio “dopo la battaglia” (degli anni, delle ideologie, dei lutti). L’ho letto seguendone la geografia. Rollo è cresciuto a ovest del Ponte della Ghisolfa, dalle parti di via Mac Mahon. Io da bambino abitavo ad est dello stesso ponte, in una traversa di viale Jenner. I due mondi non comunicavano, un bambino non attraversava il Ponte della Ghisolfa, e non aveva bisogno di aver letto i racconti di Testori o di aver visto Rocco e i suoi fratelli per sapere che non era il caso. L’ultimo turno di guardia, però, è più di uno “sguardo dal ponte” (titolo del prologo a Un’educazione milanese). È uno sguardo da una torre, gemella di un’altra, ma non quella di New York (ancora al suo posto quando Rollo ha iniziato il poema). Forse è una delle due torri dell’Università degli Studi in Piazza Leonardo Da Vinci, che una volta erano abitate (Rollo lo racconta in Un’educazione milanese). Ma presto la geografia cede il passo alla metafisica; il malato parla da una torre che ha costruito intorno a sé.

 

È importante che L’ultimo turno di guardia venga inteso come un poema unitario. Nella postfazione, Rollo indica la frequentazione con Raffaello Baldini, Giancarlo Consonni e Umberto Fiori, risalente agli anni novanta, come germe della composizione. Tra i poeti citati, Fiori è arrivato al romanzo in versi con Il Conoscente (Marcos y Marcos 2019). L’ultimo turno di guardia però non è un romanzo, non delinea un viaggio. Parla di molti luoghi, ma non abbandona i suoi dintorni. Li deve esasperare; li deve esaurire.

La prima sequenza circoscrive l’antagonista e lo spazio. L’infermiere, innanzitutto, che non è lì per prendersi cura del malato ma della malattia, del suo decorso indicato dalle frecce dei diagrammi: infermiere “geometra”, puro misuratore (p. 10). E poi la torre opposta, la gemella, che “fa segno” (p. 16) e dove potrebbe esserci un altro degente di cui non sapremo nulla. A volte sembra che a prendere la parola sia l’infermiere, piuttosto annoiato: non c’è nessun dramma, quest’uomo è solo vecchio, così vecchio che non ha più né nostalgie né pentimenti (p. 20). Ma questa seconda voce è solo un’illusione della prima, la sua eco.

 

 

La seconda sequenza, forse la parte più riuscita, mette in scena il dialogo con la morte. Subito, di petto, ma altrettanto in fretta la metaforizza in un catalogo di orrori: carnefici liberi e orgogliosi, dentature feroci, formiche e millepiedi che risalgono il corpo come se fosse un tronco, il freddo dell’inverno che fa visita al malato come se fosse un figlio (p. 36). In risposta all’aggressione delle cose la voce si frantuma, si disperde in digressioni e ricordi irrelati, perché “Fanno i popoli il suono che i parenti / fanno intorno al morto” (p. 48). La sensazione di soffocamento è resa dall’inalberarsi della lingua, che abbandona le troppo sonore cadenze iniziali e si fa più tesa: “Entrate tutti / nel mio lager pigro e prigioniero, / entrate in me, bambini, funebre / scolaresca, lugubri gioppini / fate la nanna. Io, non voi, io devo / tenere gli occhi aperti” (pp. 51-52).

 

Il passaggio dalla morte al padre (morto, scomparso, perduto, immortale; il vero avversario di ogni narratore di sesso maschile) avviene nella terza sequenza, pervasa dal terrore che la catena delle generazioni sia finita: “Son finiti / i figli – tutti – come a un chiosco / si esaurivano i giornali” (p. 47). È una confessione: la generazione cresciuta nel dopoguerra – non importa quanto abbia realizzato, sognato o delirato – non si sentirà mai all’altezza dei suoi padri, né si convincerà di essersi perpetuata nella generazione successiva. Se una volta erano i vecchi a sentirsi traditi dai giovani, oggi i vecchi temono di essere stati loro a tradire i propri figli, e i figli sono come l’infermiere che non risponde e non dà soddisfazione, anzi nemmeno s’arrabbia.

 

Un’educazione milanese terminava con un’elegia urbanistica – dedicata a un amico architetto morto giovane – che muoveva dall’autobiografia personale all’autobiografia della città. L’ultimo turno di guardia sembra virare nella stessa direzione. All’inizio della quarta sequenza troviamo un’esortazione: “Ma tu guarda / le città. Imparale a memoria” (p. 67). La torre di degenza si è fatta torre di vedetta (quella di Isaia 21, la stessa che Dylan cita in Along the Watchtower messa in epigrafe). Ma la città si fa montagna, la montagna si fa deserto, e l’esortazione, rivolta al badante silenzioso, forse sbadato, cade nel vuoto, non c’è via d’uscita dalla stanza in cima alla torre, nemmeno per procura.  E il turno di guardia non è nemmeno quello dell’infermiere, bensì quello eterno della vedetta dell’Agamennone di Eschilo (p. 5) o di Enea che seppellisce Anchise (p. 86). L’infermiere si rifiuta di assentire o negare, di portare una qualunque testimonianza. E al vecchio non rimane che la chance di non morire, di continuare a straparlare dando l’ultimo inutile ordine: “Di’ che ci sono e che non finirò” (p. 90).

Comando beckettiano, si capisce (“Non posso continuare. Continuo”). Il sopravvissuto sa ciò che i giovani infermieri sprezzanti non hanno ancora imparato: che se una volta la sopravvivenza era la gioia degli emarginati, oggi è l’arma affilata di tutti coloro ai quali, anche se sono insopportabili, bisogna ancora badare.

 

Come può esservi poema dove la lingua si affina e convince quanto più si frammenta, perdendo quella “volontà di poesia” che appesantiva un poco l’inizio? Può darsi che le ultime due sezioni siano più un laboratorio di poema che un poema vero e proprio, ma è significativo che Rollo abbia potuto mostrare una progettualità all’opera, un’ambizione di completezza che è tale perché deve dichiarare ad ogni momento la propria impossibilità di concludere. È un lascito del modernismo che non ha ancora finito di dare i suoi frutti, e anche se è malato, “malato di tempo”, viene a dirci che c’è, e che non finirà.

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