Jheronimus cinquecento anni dopo / Bosch. Visioni di un genio

30 Marzo 2016

’s-Hertoghenbosch, 9 agosto 1516. Nella chiesa di St. John si svolge la cerimonia funebre per il pittore Jheronimus Bosch. La funzione ha luogo nella nuova cappella della Confraternita di Nostra Signora (Lieve Vrouwe Broederschap), di cui Bosch è membro. La messa Requiem è disposta dalla confraternita che ne sostiene i costi, come è l’uso. Il librone dei conti, perfettamente conservato, è materiale prezioso: dalle spese sostenute si deduce che questo è il tributo finale a un uomo importante, altamente rispettato. Doveva avere circa 65 anni, la sua data di nascita non è nota (1450-55).

 

Per festeggiare il cinquecentenario della morte dell’artista, Charles de Mooij, direttore di un piccolo museo del Brabante del nord mette in moto, dieci anni fa, un progetto molto ambizioso: riportare a casa, a ’s Hertoghenbosh, città natale di Jheronimus Bosch, oggi detta anche Den Bosch, tutta l’opera del pittore più immaginifico della storia, per la più grande retrospettiva a lui dedicata. L’opera di Bosch è sparsa in mezzo mondo: 25 musei, giganti quali Louvre, Metropolitan e Prado, in dieci paesi diversi. E Charles de Mooij, dal Noordbrabants Museum, non ha un solo dipinto da offrire in cambio. Ma nell’ottobre 2007, con lo studioso olandese Jos Koldeweij, presenta il suo progetto, Bosch Visions. L’idea è quella di lanciare un programma di ricerca che coinvolga tutti senza eccezioni per riprendere in mano l’opera completa, studiarla, restaurarla, conservarla con l’ausilio delle tecniche più avanzate. Ecco la strada percorsa, quella della conoscenza, per dare il via a questa avventura impossibile: nasce così il Bosch Research and Conservation Project, un squadra internazionale di ricercatori guidata da Jos Koldeweij e Matthijs Ilsink (insieme alla fondazione Stichting Hieronymus Bosch 500 e alla Radboud Universiteit di Nimega). Il risultato è a dir poco straordinario. Nel 2013 il BRCP ha già lavorato in 20 musei, da Parigi a New York, da Madrid a Venezia. Le nostre opere per esempio, che costituiscono, dopo quelle conservate al Museo del Prado, il corpus più grande al mondo (e forse non ce ne rendiamo conto), sono state sotto la lente della ricerca e del restauro: Bosch in Venice. E così il Trittico degli Eremiti, il Trittico di Santa Liberata, Le Visioni dell’Aldilà oggi risplendono nei festeggiamenti del museo della città più graziosa del nord Brabante, accanto alle altre opere, riunite quasi al completo.

 

 

 

“Visions of genius”

 

In mostra 20 dei 25 dipinti esistenti e 19 dei 20 disegni conosciuti. Dodici le opere restaurate esposte qui per la prima volta. Il percorso si articola in sei temi: Il pellegrinaggio della vita, Bosch a ’s-Hertogenbosch, La vita di Cristo, I Santi, La fine dei tempi. Una sala è dedicata a Bosch disegnatore; sarà molto difficile rivedere questi preziosi fogli tutti insieme. Paesaggio Infernale, un disegno appena attribuito, non era mai stato esposto al pubblico. Un ritorno a casa che ha messo in moto tutti, a dispetto del fatto che l’Olanda nei suoi musei conserva un solo dipinto del suo artista più fantasioso. Prestiti eccezionali, come Il carro di fieno, un trittico che non aveva mai lasciato Madrid in 450 anni; Il Giardino delle Delizie, invece, rimane un’opera blindata, mai si sposterà dal Prado. Ma i curatori hanno rimediato ricorrendo a una collezione privata: si tratta di un’incredibile copia del pannello centrale della celebre opera del maestro, dipinta tra il 1530 e il 1560 da un seguace di Bosch. Ed è anche questa, la questione delle copie (che ha tolto il sonno a molti studiosi), una delle zone scandagliate dalla ricerca del BRCP. Molte le opere di bottega, dei seguaci, o degli imitatori, intervallate in mostra, tra quelle oggi attribuite in modo più scientifico: il tutto però non confonde, anzi, le visioni del maestro si distinguono fra le altre. Libri e stampe dell’epoca ci immergono nel contesto storico dell’arte fiamminga.

 

Bosch a ’s-Hertogenbosch, splendido isolamento?

 

Nato intorno al 1450, una delle prime menzioni del suo nome risale al 1474, citato come “Jeroen detto Joen", oppure Jheronimus, che è la forma locale del nome latino di San Girolamo (Hieronymus). Negli archivi, la famiglia viene sempre indicata col cognome “Van Aken", e cioè da Aquisgrana. In realtà il nonno, il pittore Jan van Aken, portò la famiglia a ’s-Hertogenbosh (“Bosco ducale”) verso il 1426 da Nimega, doveva aveva vissuto per generazioni. Una famiglia di pittori e artigiani: il nonno, il padre Antonius, e tre zii erano artisti di professione e si ritiene che, come i suoi due fratelli, anche Jheronimus fece i primi passi nella bottega di famiglia. Non vi sono informazioni di nessun tipo su eventuali viaggi o studi diversi, ma si presume che abbia frequentato la scuola latina, a differenza della maggior parte dei suoi coetanei. Sappiamo che verso il 1480 sposò Aleid, figlia della ricca e colta famiglia Van de Meervenne. Bosch e sua moglie vivevano nella settima casa dal basso a destra (vicino alla casa azzurra), sul lato Nord della piazza del mercato della città. Sul lato Est, meno elegante, si trovava la casa dove era cresciuto, e la bottega di famiglia. Siamo di fronte a un dipinto di un artista anonimo, Il mercato delle stoffe (ca. 1530), l’unico che documenta il commercio che fioriva verso la fine del Quattrocento, quando la città conobbe una rinascita economica, dopo guerre, carestie una grande epidemia di peste (1436-1442). Fabbri, scultori e stampatori operavano alacremente. L’atmosfera della Piazza del Mercato, cuore pulsante della città, non è molto cambiata, ancora oggi vivacissima, nella bella forma triangolare.

 

 

Qualche anno dopo le nozze, il prodigio di famiglia entrò come ‘membro giurato’ nella Confraternita di Nostra Signora (1487-88), un’associazione religiosa di grande rilievo; un notevole salto nella scala sociale, compiuto grazie alle sue doti di pittore più che al suo status, comunque una conferma del suo prestigio. Forse in segno di riconoscenza, per la nuova pala dell’altare della cappella della confraternita, egli concepì Giovanni a Patmos (e Giovanni Evangelista, i due patroni della chiesa), l’opera dove troviamo la prima firma conosciuta, dipinta in lettere gotiche. All’epoca pochissimi artisti si firmavano nei Paesi Bassi, e solo Jan van Eyck, attivo sessant’anni prima di lui, si firmò con la stessa frequenza.
La sua mente creativa è piena di raffinate sorprese: abbiamo quello che si ritiene un autoritratto, una creatura fantastica, discreta e in grigio, occhialetti sul naso, sta a guardare un orizzonte a noi sconosciuto, non può tacere la sua tristezza; è in basso a destra, proprio sopra la firma, Jheronimus bosch. Il toponimo, Bosch, lo distingue così da tutti gli altri familiari, Van Aken.



 

A quel tempo ’s-Hertogenbosh era la quarta capitale del Brabante, già nel 1185 il duca Enrico I le aveva dato il titolo di città con i privilegi mercantili connessi. Però, in termini artistici, era piuttosto arretrata. Splendido isolamento? Forse sì, perché il lavoro di Bosch e della sua bottega sembra indenne dalle tendenze di centri culturali vivi come Anversa, Bruges, Venezia, Roma o Parigi. Ma l’educazione umanistica e l’incredibile fantasia del pittore che “si firma Bosch”, come si legge in alcuni documenti, sono state in grado di sviluppare in lui un linguaggio visivo nuovissimo, attirando ben presto l’attenzione di principi e intellettuali del suo tempo, con importanti commissioni (la più nota quella di Filippo il Bello nel 1504 per un Giudizio Universale). Un immaginario fantastico che ha generato una schiera di imitatori e intere correnti.

Oggi si contano non più di venticinque pannelli e trittici, e circa venti disegni a lui attribuiti con certezza, tutti prodotti tra il 1480 circa e la sua morte nell’estate del 1516. Ma come membro di una famiglia di artisti egli iniziò quasi sicuramente a dipingere giovanissimo, e questo ci fa supporre che gran parte della sua opera sia andata perduta. Quello che è giunto a noi scorre davanti ai nostri occhi nei temi cari al pittore. Così vediamo come Bosch ha saputo scandagliare in modo emozionante e lirico La vita di Cristo, con, per esempio, uno straordinario Cristo Bambino con un girello – e, sull’altro lato dello stesso pannello, L’andata al Calvario (Vienna). Si tratta dell’anta sinistra (appena restaurata) dello sportello di un trittico andato perduto.

 

 

All’esterno un bambino ignaro con la sua girandola fa i primi passi sulla via della vita che lo vedrà, all’interno, portare la croce. Questo era il suo destino. L’immagine è speculare, girandola e croce occupano lo stesso spazio visivo. Poi incontriamo in mostra l’esempio dei Santi, il cui culto era molto importante, con un San Girolamo in preghiera (suo santo protettore) immerso in un paesaggio credibile e incredibile allo stesso tempo, e Le tentazioni di Sant’Antonio appena attribuito.
La tensione cresce con l’inizio e la fine del mondo in polittici fiammeggianti presentati nella sezione La fine dei tempi, con un Giudizio Finale (Bruges) dove non si finisce di ammirare un caos ordinato di personaggi e invenzioni mentre un cielo di fuoco invade la sala; le Visioni dell’aldilà (Venezia) lirica sintesi di una vita di pittore visionario tra paradiso e inferno. Ma la sua mente innovativa ha creato anche delle opere complesse basate sulla vita di tutti i giorni, alle quali è dedicata la splendida sezione che apre la mostra, Il pellegrinaggio della vita, la storia di tutti gli uomini.

 

Il trittico del carro di fieno


Un carro colmo di fieno viene tirato da un gruppo di strani esseri. Si dirigono verso l’inferno. Dietro il carro c’è una processione di figure di ogni ceto sociale, dall’imperatore al papa ai semplici contadini. Cristo guarda dall’alto di una nuvola le persone sulla terra. Le sue dimensioni sono molto ridotte, la sua presenza discreta. Alza le braccia, mostra le sue ferite sanguinanti. Un angelo prega implorando intercessione. Un diavolo azzurro suona il proprio naso a forma di flauto. Tutti vogliono accaparrarsi un po’ di fieno come se fosse oro, un uomo con cappello e senza volto arriva ad uccidere per impadronirsi di una manciata di fieno. Gli ecclesiastici, in basso a destra (sopra la firma), con un grasso monaco che beve seduto a un tavolo, cercano di riempire il più possibile i loro sacchi. Zakken-vuller, è il termine nederlandese (intraducibile), che definisce la persona che riempie il sacco, ma rimanda tutt’oggi a chi si riempie le tasche, in breve, al profittatore.

 

 

Nel XV e XVI secolo il motivo del fieno era molto diffuso nel folklore nederlandese, e aveva vari significati. Nella letteratura popolare, sotto l’influsso della tradizione religiosa, il significato di base era quello di ‘futilità e transitorietà’, simbolo dei beni terreni, il fieno secca e non porta a nulla; ma rimandava anche ad esempi come ingordigia, lussuria, avarizia e inganno. Un carro di fieno sfilava spesso nelle feste cittadine, come si vede in alcune incisioni del 1550-60, e il motivo è già presente nelle canzoni del XV secolo, o nei detti popolari: “il mondo è un carro di fieno, ciascuno ne arraffa quel che può”.
Ma Bosch è il primo artista a spingersi con grande audacia in questo tema, con un pannello grandioso sulla verità della vita il cui centro pittorico è un semplice uncino. Il carro domina ancora colmo, tutt’intorno il caos delirante, la vita è in scena, raccontata con grande realismo. Episodi quotidiani si susseguono ogni dove, nessuno sembra accorgersi della banda di esseri demoniaci e viscidi che guidano il viaggio. Una civetta osserva. Il messaggio è chiaro: le persone che bramano vanità e beni terreni cadranno nell’avarizia e nella ferocia e andranno direttamente all’inferno.

 



 

L’inferno che ci aspetta è un luogo incandescente dove diavoli operai lavorano a una torre gigante. Architetture infernali si allontanano in profondità, nella sagoma dell’ultima torre, il cielo è in fiamme. Di punizioni ce n’è per tutti, in basso a destra un mostro pesce con gambe umane divora un dannato che sembra dibattersi sotto i nostri occhi, da un ponte sfilano le anime spinte dai diavoli.
Dal cielo rosato della tavola di sinistra piovono dalle nuvole gli angeli ribelli, divenuti rospi e insetti volanti. Il loro volo appare incontrollabile, potrebbero uscire dal dipinto da un momento all’altro. Sotto, il Giardino dell’Eden, la narrazione fluisce zigzagando con la creazione dell’uomo e della donna, il peccato originale e la cacciata dal paradiso terrestre. La figura di Eva, esile e composta (in basso a destra), è nel solco della tradizione fiamminga e ricorda Hans Memling (Eva c. 1485), ma è la piccolezza dell’uomo e della donna in rapporto alla Creazione che sembra interessare qui Bosch.
La linea dell’orizzonte è mantenuta con precisione in quest’opera; i paesaggi sullo sfondo, velati e trasparenti come un affresco, prendono il colore del cielo. Al centro si respira uno sconfinato paesaggio olandese che si tramuta in fumo e fiamme sulla destra, tra torri e figurine al lavoro. Un albero scheletrito soffoca tra le costruzioni buie e disegna la calura dell’inferno. Anche per gli sfondi Bosch è grandissimo maestro, pochi tocchi di pennello o figure minuscole e solo accennate restituiscono grande movimento.

La datazione del trittico, grazie alle recenti ricerche dendrocronologiche sull’età del legno, viene collocata dopo il 1510-1512, dunque Bosch dipinse quest’opera quando era già molto affermato, nello stile della sua piena maturità. L’esame agli infrarossi rivela che gli schizzi preparatori sottostanti lo strato pittorico furono eseguiti in varie fasi e con materiali diversi, probabilmente da più mani, vale a dire da Bosch e dai suoi assistenti.
Il trittico chiuso, che in mostra ovviamente non si vede, si può ammirare, se pur nelle due ali separate, dietro al vetro posteriore. Rappresenta un viandante.

 

 

È un uomo dalla barba bianca, i capelli, bianchissimi spuntano dal copricapo. Si guarda indietro con occhi melanconici prima di attraversare il ponte. Ha un bastone tipico, tenuto però in modo singolare rispetto all’iconografia, ausilio contro il cane minaccioso. C’è un cambiamento importante nel dipinto, rispetto al disegno sottostante: dietro al ponticello c’era un grande crocefisso, tralasciato nella fase pittorica.
Il viandante è solo con le sue decisioni.

La cosa singolare è che questo personaggio fu dipinto da Bosch dieci-quindici anni prima. L’uomo è lo stesso, più giovane, l’impianto è analogo, le dimensioni minori. Ma quel primo viandante, il tondo conservato al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, e pure diviso in due (dunque parte di un trittico), ha avuto uno strano destino, partendo proprio dal suo nome. Le interpretazioni sono state varie, e hanno generato nel tempo titoli diversi: Il figliuol prodigo, Il venditore ambulante.
Oggi invece sappiamo con certezza che siamo di fronte al Wayfarer Triptych, Il trittico del viandante (De landloper, in olandese), smembrato nei secoli e finito in quattro musei diversi. Il pannello centrale è andato perduto.

 

Il trittico “ritrovato”

 

Il viandante (Rotterdam) era il dipinto a trittico chiuso. Si trattava di un tondo centrale realizzato su due pannelli di legno rettangolari, che formavano i due sportelli. Quello di sinistra aveva al suo interno La nave dei folli sopra (Louvre) con L’allegoria dei piaceri sotto (New Haven); quello di destra La morte dell’avaro (Washington). I due panelli che componevano gli sportelli del viandante sono stati prima segati nello spessore del legno. Così smembrati, la tavola interna di sinistra è stata di nuovo tagliata in due (sulla lunghezza), seguendo la composizione. Il viandante, invece, è stato unito e ridotto a forma ottagonale, eliminando la parte non dipinta sopra e sotto delle due tavole originali. Per il pannello interno centrale, perduto, il punto interrogativo rimane.

 

 

 

Il viandante, una delle figure più studiate e commentate di Bosch, viene rivisitato: non è un dipinto autonomo, ma è parte di una storia. Non è un venditore ambulante, nulla ci dice cosa ha nello zaino. Non è il figliuol prodigo, come la mangiatoia dei maiali ha fatto pensare. È la storia di tutti, del cammino dell’uomo verso un futuro che non conosce, l’uomo qualunque. Bosch rappresenta la figura con eccezionale realismo. Il tondo è come uno specchio, anche nel trattamento pittorico lungo la sua circonferenza, e questo è un elemento molto importante, nelle intenzioni del suo autore. Ciascuno si può rivedere, la vita è una strada che presenta ogni giorno la scelta tra il bene e il male: il tema preferito di Bosch. Quest’opera dà il nome al trittico ricostruito in mostra (e nel Catalogue Raisonné, che lo presenta come una sola voce), e ne ridefinisce così il significato.

La narrazione prosegue.

 

 

 

La nave dei folli, la scena sul pannello interno di sinistra, è una barca piena di festaioli e ubriaconi manovrata da un personaggio con un mestolo gigantesco. C’è una notevole scorta di bevande alcoliche, vediamo un bottiglione calato in acqua, al fresco. Le persone a bordo mangiano e bevono a più non posso, una suora e un frate cercano di addentare un dolce appeso a un filo, un altro a destra vomita. Il giullare volta le spalle e mangia da solo. In cima all’albero traballante sono legati dei rami, un gufo osserva. La barca appare senza governo e senza scopo.
La destinazione ultima di questa compagnia è anche descritta nel poema satirico di Sebastian Brant La nave dei folli (Das Narrenschiff, 1494). La versione olandese dell’opera, fonte di ispirazione di Bosch, fu pubblicata nel 1497. “Chi prende posto nella nave dei folli” scrive Brant “naviga ridendo e cantando all’inferno”.
Il frammento inferiore, L’allegoria dei piaceri, viene oggi riunito dopo quasi un secolo di ipotesi differenti, dovute al fatto che negli ultimi duecento anni le due parti hanno subito trattamenti diversissimi, con il risultato che i colori erano virati fortemente. Le ultime ricerche scientifiche hanno stabilito invece che provengono dalla stessa tavola, come si può vedere bene, dopo il restauro, da come combacia l’immagine sulla linea del taglio.

 

 

Ma l’ultima parola del Trittico del viandante è nel pannello di destra, La morte dell’avaro. La profondità dell’insieme colpisce subito. Le tre zone nere, la volta sullo sfondo, il buio dietro la porta e il diavoletto annoiato in primo piano rimbalzano in un gioco triangolare di rimandi. La morte fa il suo ingresso a sinistra, pronta a colpire con una lancia. L’avaro nel momento supremo deve scegliere tra il crocefisso e il perdono, che l’angelo gli indica, e la borsa del denaro, che un diavolo gli offre. È un diavolo che sembra discreto ma dal vivo la sua forza è straordinaria, sbucando da sotto la tenda sembra muoversi nel quadro. Cosa sceglierà il morente?
Bosch lascia la scena aperta e sospesa ai nostri occhi, la responsabilità della decisione spetta solo all’uomo. Ma c’è di più.
L’artista modifica in fase pittorica questo delicato istante. Nel disegno preparatorio la scena ha un esito e un significato completamente diverso. Agli infrarossi il disegno è questo: l’uomo tiene un prezioso calice con la mano sinistra e con la destra ha già afferrato il sacco del danaro offertogli dal demonio.
Non ci sono fonti o documenti per poter fare ipotesi sul pannello centrale perduto. Osservando ciò che è stato ricostruito possiamo per lo meno dire che il centro ottico dei due pannelli laterali è simmetrico: da un lato c’è la torta appesa in barca a un filo, dall’altro il diavolo con il suo sacco.

Come per la nave dei folli anche qui abbiamo un riferimento letterario: si tratta dell’Ars Moriendi, L’arte di morire, molto popolare nel Quattrocento. In estrema sintesi il messaggio è che i timorati di Dio avranno una morte dolce. Molte erano le edizioni illustrate, con il morente sul letto e il diavolo tentatore, che hanno sicuramente ispirato Bosch per quest’opera. Va detto anche che nell’epoca in cui visse e operò Bosch, vi fu soprattutto nei Paesi Bassi una grande fioritura della Devozione Moderna, quel movimento religioso che voleva avvicinare il contenuto della fede cristiana all’interiorità individuale (vi si possono riconoscere alcuni elementi che anticipano la Riforma protestante). La Bibbia fu tradotta in olandese, come si vede in una rara edizione esposta, del 1477, ‘la Bibbia di Delft’, proveniente dal convento Kruisheren. I credenti potevano pregare nella loro lingua ed entrare così nel contenuto della preghiera.

 


 

 

Nel trittico del carro del fieno e nel trittico del viandante Bosch raffigura un tema che attraversa la sua opera: le diverse strade che le persone prendono e le scelte morali che sono chiamate a fare. L’uomo è responsabile di quello che c’è di buono o di negativo nella sua vita. Non c’è moralismo nel suo messaggio, la scena rimane aperta anche se, come in tutta l’opera di Bosch, la seduzione del male è fortissima.
È difficile pensarlo oggi, ma nessuno prima di lui aveva raffigurato, per un trittico, un viandante con i suoi calzoni rotti, una scarpa e una ciabatta. I dipinti fiamminghi dell’epoca rappresentavano per lo più scene religiose, e i trittici non religiosi erano delle rarità. Bosch crea un personaggio nuovo e senza tempo, che ripete nei due trittici, a distanza di un decennio.
Anche lo spettatore di oggi, cinquecento anni dopo, viene messo di fronte al tema centrale della vita. Da questa prospettiva Bosch è considerato il progenitore della rappresentazione della realtà di tutti i giorni. Una recente mostra al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam «La scoperta della vita quotidiana. Da Bosch a Bruegel» (conclusasi lo scorso gennaio), ruotava proprio intorno al fatto che Bosch fu un pioniere della pittura olandese di genere, accanto ad artisti come Lucas van Leyden, Quinten Massys, e molti anonimi con scene satiriche e comiche di altissimo livello.
È sorprendente come questi due trittici chiusi, in contrasto con le scene che si vedono quando sono aperti, non presentino dettagli che non siano realistici. A due passi dal Noordbrabants Museum si può provare l’esperienza “apri-chiudi” dei tempi di Bosch al Jheronimus Bosch Art Centre, una ex chiesa dove sono allestite in grandezza naturale le copie fedeli dell’intera opera del maestro. Certo, lo scopo è didattico, ma i suoi dipinti sono una continua scoperta, senza contare il fatto che alcune opere sono state smembrate, rendendo più difficile il ragionamento intorno alla narrazione.

 

Karel Van Mander, nel suo Libro della Pittura (Het Schilder-Boeck, 1604), in un passaggio dedicato alla vita di Hieronymus Bosch scrive: “sarebbe arduo descrivere le sorprendenti, strane fantasiose immagini […] concepite col cervello ed espresse col pennello”. Come altri maestri “aveva l’abitudine di abbozzare e disegnare su una preparazione bianca, procedendo con velature trasparenti e facendo concorrere all’effetto finale anche il sottostante”. Van Mander non aveva microscopio o campioni di pigmenti, ma aveva notato la mano “molto abile e ferma”; le sue osservazioni sono importanti perché ci dicono che le trasparenze che vediamo oggi erano visibili sin da allora. Gli studi scientifici hanno messo in evidenza che spesso Bosch creava il dipinto in corso d’opera – modificandone, come abbiamo visto, il significato –, e uno degli aspetti più sorprendenti per l’epoca è che egli procedeva spesso con grande maestria a dipingere ‘wet-in-wet’ vale a dire ‘bagnato su bagnato’, ottenendo, con pennellate sicure e rapidissime, un effetto estremamente realistico, che lo differenzia dai pittori coevi. Questo aspetto non sfuggì a Gillo Dorfles, che nella sua monografia (Bosch, Mondadori, 1953) già notava che “la superficie appare come una lastra fotografica che sia stata impressionata dalle ramificazioni luminescenti di un’alga”. Siamo perciò di fronte a un pittore che non solo ha sviluppato un suo linguaggio visivo, ma ha anche adottato tecniche molto inusuali per il suo tempo. Le libertà che si concedeva non erano certamente tipiche di un artista tardo-medievale. Dunque un’unica mente creativa, aperta a nuove sperimentazioni.

 

Bosch e i disegni

 

Sono fogli delicatissimi, riuniti per la prima volta a formare un unico corpus che ci porta più vicino all’artista e alle sue invenzioni, circa venti, oggi considerati autografi. Si posizionano all’inizio di una tradizione in cui la carta veniva usata come supporto per disegni o schizzi e costituiscono, per i Paesi Bassi, una vera rarità, dato che dei contemporanei di Bosch non è rimasto quasi nulla.
Schizzi spontanei, dove si percepisce il desiderio di dar libero sfogo alla fantasia, di fissare delle idee. Il disegno dunque, per la prima volta analizzato come tale e non solo in rapporto ai dipinti, era per Bosch un mezzo per inventare o creare nuove forme.
Questo fatto è ben illustrato da un foglio di recente attribuzione. È un Paesaggio infernale pieno di creature impossibili, proveniente da una collezione privata e presentato al pubblico per la prima volta. La scena è frenetica e caotica. Al centro una rete per le anime perse, date in pasto a un mostro demoniaco con una ruota gigante. Sopra vediamo esseri umani che pendono come batacchi per una campana, a destra un drago vomita anime in un calderone, sotto vi sono persone a cavallo della lama di un coltello. In basso una botte con un volto che conosciamo, piedi bestiali, gambe umane.

 

 

In passato fu ritenuto un lavoro di bottega, ma i dettagli minutissimi che lo percorrono offrono un esempio unico di come Bosch lavorava a livelli diversi nel costruire i suoi paesaggi infernali. Grande inventore di personaggi inquieti, animali mostruosi, diavoli operai. Piccoli elementi di grande fascino, appena abbozzati, talvolta segni minuscoli ma efficaci, sono stati confrontati con altri di dimensioni maggiori (dipinti anche nel Giardino delle Delizie), e documentati in mostra con grande chiarezza.
Tra gli altri straordinari studi si può ammirare la Adunata degli uccelli, (Berlino, Staatlichen Museen zu Berlin), nella quale Bosch dimostra di essere un attento osservatore della natura e dei suoi comportamenti, e ci sorprende con un campo di battaglia popolato da schiere di uccelli e di altri animali. C’è poi un foglio di otto piccole ‘streghe’, apparentemente figure uscite dalla vita di tutti i giorni che però hanno strani comportamenti: una viaggia su una pala per il pane, e ha un gufo appollaiato dietro di lei, un’altra cavalca la ruota di un carro, una terza tiene delle pinze enormi e così via.

 

 

Una serie di ‘modelli’, non sono figure che interagiscono tra loro. La cosa singolare di questo foglio è che porta una firma in basso, Bruegel manu propria. Si ritiene che un proprietario di questo disegno, verosimilmente nel sedicesimo secolo, pensò fosse un lavoro di Bruegel e aggiunse l’iscrizione. L’opera di Bosch fu indubbiamente di grande ispirazione per molti pittori che seguirono, e fu ripresa anche da Bruegel tanto da creare simili confusioni.
Ma il disegno forse più particolare e conosciuto di Bosch è un vero gioiello, e porta in alto un motto (scritto in latino), l’unica iscrizione su carta considerata autografa: povero è lo spirito che ricorre di continuo a invenzioni di altri senza concepire mai nulla di suo.
È un piccolo foglio con al centro un albero cavo, spoglio. Al suo interno una civetta sproporzionata, forse, questa volta, simbolo di saggezza, ci osserva. Altri uccelli ignari della sua presenza sono posati sui rami alti. A terra una volpe. Due grandi orecchie ai lati del bosco, sette occhi sparsi nel prato sul davanti.

 

 

Il bosco ha orecchi, il campo ha occhi, è un antico proverbio anche olandese (campus have oculos, silva aures). Un dizionario tedesco del 1500 dedicato ai modi di dire lo spiega così: siamo sempre osservati e non dovremmo indulgere in comportamenti che vorremmo tenere riservati. Un invito alla discrezione? Non è solo questo. Il gioco di Bosch è più sottile e coinvolge l’individuo, l’artista con il suo credo annotato in cima al foglio, rimanda al nome della città, che significa bosco (tanto che aveva nel sigillo una pianta come emblema), al cognome scelto dall’artista, Bosch (bosco) e al titolo dato all’opera, nell’iscrizione in basso, Jero:bosch.
Siamo dunque di fronte a un gioco concettuale, un magnifico autoritratto.

 

Bosch, bottega o seguace?

 

È da più di un secolo che gli storici dell’arte cercano di fare ordine nell’opera di Bosch, e fino a sessant’anni fa gli venivano attribuiti quasi una quarantina di dipinti, e solo qualche disegno. La problematica è complessa: nessun dipinto è datato; Jheronimus proveniva da una famiglia di pittori che operavano in un contesto di bottega; nel XVI secolo le sue opere furono tanto popolari da essere spesso copiate, imitate o falsificate. Molte sono le copie e le imitazioni che portano la firma inscritta in gotico del pittore. Già nel 1560 Felipe de Guevara sollevava l’argomento nel Comentarios de la pintura (1560) “vi sono moltissimi dipinti in questo stile che sono falsamente iscritti con il nome Jheronimus Bosch”. Questo fatto, che dimostra quanto innovativa e apprezzata fosse la sua opera, ha però creato nei secoli molta confusione, anche rispetto alla sua immagine storica.

 

L’obiettivo dei ricercatori del Bosch Research and Conservation Project è stato in primo luogo proprio questo: collaborare con tutti i musei, studiare l’opera in modo sistematico, e trovare delle risposte che, sfrondando tutto ciò che non risulta autografo, aiutino a ricostruire e a capire meglio il lavoro dell’artista nella sua complessità, al di là della fitta giungla di interpretazioni. I risultati delle ricerche scientifiche sono confluiti in un’imponente monografia in due volumi, il primo Catalogue raisonné, che segna un punto d’arrivo, e di partenza, negli studi bosciani: Hieronymus Bosch. Painter and Draughtsman, e Hieronymus Bosch. Technical Studies (a cura del BRCP, Mercatorfonds, 2016).
Sono analizzati tutti i dipinti oggi ritenuti di Bosch (25 di cui 4 della sua bottega) e i 20 disegni. Abbiamo poi l’analisi di nove dipinti che i ricercatori ritengono di ‘seguaci’, tra i quali va citata un’opera iconica (spesso illustrata nei manuali di Storia dell’arte), la salita al Calvario o Cristo protacroce (Gand, Museum voor Schone Kunsten, ca. 1530-40); anche Il prestigiatore (Saint-Germain-en-Laye, Musée municipal, ca. 1525) e il frammento del Giudizio Finale (Monaco, Alte Pinakothek, ca. 1530-40) sono inseriti nello stesso gruppo. L’estrazione della pietra della follia (Madrid, Museo del Prado ca. 1500-20) e I sette peccati capitali (Madrid, Museo del Prado, ca. 1510-20) sono invece indicati come ‘bottega o seguaci’. Una vera rivoluzione, se si pensa che alcuni di questi erano ritenuti dipinti “giovanili”.
I 20 disegni conosciuti costituiscono per la prima volta un corpus importante dell’opera e sono discussi separatamente, se pur nel contesto anche pittorico.

 

 

Gli ausili tecnici oggi sono diversi, come per esempio la riflettografia agli infrarossi che aiuta a render visibili i disegni sottostanti, il cui studio, nel caso di Bosch, è stato fondamentale anche perché il maestro creava sovente in fase pittorica discostandosi dal disegno. Inoltre c’è l’analisi dei pigmenti, dei materiali, e la dendrocronologia, che fornisce la datazione del legno e del manufatto.
Un altro punto di partenza di rilievo è stato il raffronto dei piccoli particolari, prendendo spunto dal ‘metodo Morelli’. Verso la fine dell’Ottocento lo studioso lombardo Giovanni Morelli (1816-1898, si firmava Ivan Lermolieff), mise a punto un nuovo metodo di attribuzione dei dipinti antichi che si basava sull’analisi dei particolari più trascurabili, come orecchie, dita, unghie, in breve quei segni (rivelatori) che un artista produce senza pensarci troppo (le sue teorie attirarono l’attenzione anche di Freud). I ricercatori hanno ripreso e sviluppato questa idea partendo dalle macrofotografie comparate; i risultati sono sorprendenti.
Bosch, bottega o seguace?

 

Gli interrogativi sono ancora molti, ma quello che più conta è che ogni epoca scopra un nuovo Bosch.
Nel vedere il cuore dell’opera, sfrondata, si ha l’impressione di avere a che fare con un artista melanconico, un viandante che con le poche cose nello zaino sa osservare l’uomo e l’umanità intera, la natura, le cose. I suoi dipinti sono di raffinata eleganza, coraggiosa finezza; non c’è orrore nelle sue creature infernali, nelle mille invenzioni di creature ibride, scompaginante nelle reciproche proporzioni. Ha immaginato la calura dell’inferno ma ha dipinto cieli troppo veri tra fuoco e fumo per essere cieli immaginati, forse quell’inferno l’aveva vissuto da bambino (o ragazzo?) quando mezza ’s-Hertogenbosch fu devastata da un grande incendio. Era il giugno 1463. Quanti anni avesse non lo sappiamo.
 

 

Jheronimus Bosch. Visions of Genius
Noordbrabants Museum
’s-Hertoghenbosch (Paesi Bassi), 13 febbraio - 8 maggio 2016

Alcuni risultati delle ricerche si possono consultare sul sito del Bosch Research and Conservation Project, che presenta anche la documentazione degli interventi sulle opere conservate a Venezia, Bosch in Venice.
Molti sono gli eventi culturali della manifestazione: Jheronimus Bosch 500 .

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