Meridiani / Fruttero&Lucentini, Opere di bottega

5 Febbraio 2020

Da molti anni i «Meridiani» hanno smesso di essere solo una collezione di opere più o meno complete e sono diventati libri in varia misura sperimentali, principalmente per due ragioni. In primo luogo, per la scelta degli autori contemporanei da inserire nella collana, che ricevono così una forma di canonizzazione non sempre scontata; in secondo luogo, per l’alto tasso di impegno critico-filologico dei curatori, chiamati ad allestire edizioni e apparati che corrispondano alle condizioni peculiari dei testi, esprimendo spesso però anche personali orientamenti, vocazioni, idiosincrasie. Per questo, ogni nuovo «Meridiano» è quasi sempre anche un avvenimento critico, risultato di un incontro fra autori e interpreti, che mettono in gioco un’indole oltre che un metodo, un’idea di studio e trasmissione della letteratura più che un protocollo. Non fanno eccezione, anzi confermano pienamente queste condizioni, i due tomi delle Opere di bottega di Fruttero&Lucentini (d’ora in poi F&L), curati da uno dei maggiori esperti del Novecento italiano, Domenico Scarpa. A lui si devono il progetto editoriale (la cui prima concezione risale al 2001), l’introduzione (In principio era il verbo), la cronologia e un ricchissimo apparato di notizie sui testi, allestito anche sulla base dei materiali conservati negli archivi privati di Lucentini (a Torino) e di Fruttero (a Roccamare). Nel primo tomo sono incluse le Notizie degli scavi del solo Lucentini, seguite da tre opere di coppia: L’idraulico non verrà, La donna della domenica, A che punto è la notte; nel secondo tomo si leggono le altre opere firmate dai due autori (Ti trovo un po’ pallida, La cosa in sé, Il Palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora, Il colore del destino, Enigma in luogo di mare, La morte di Cicerone), seguite da quelle del solo Fruttero, cioè il breve testo Con Lucentini aspettando Godot, Donne informate sui fatti e i versi conclusivi della Linea di minor resistenza. «Tra i manufatti narrativi di F&L – chiarisce Scarpa nella Nota all’edizione – tre soltanto sono stati qui considerati rinunciabili: il romanzo di fantapolitica L’Italia sotto il tallone di F&L (1974), il feuilleton di spionaggio filosofico Il significato dell’esistenza (1975) e, scritta a sei mani con Charles Dickens, l’inchiesta sull’incompiuto Mistero di Edwin Drood, pubblicata nel 1989 con il titolo La verità sul caso D.». Ogni opera inclusa è preceduta e/o seguita da scritti, interviste e autocommenti, rubricati come backstage; proprio a quel termine aveva fatto ricorso Fruttero per raccontare la storia di Ti trovo un po’ pallida, pubblicata inizialmente con i nomi di entrambi gli scrittori, ma in realtà da attribuire al solo Fruttero.

 


Copertina Meridiani. 

 

Le Opere di bottega, dicevo, non fanno eccezione rispetto alle caratteristiche dei «Meridiani» perché Scarpa vi mette a frutto la propria grandissima competenza nella storia della cultura editoriale e letteraria italiana, applicandola agli scritti di due autori che di quella cultura furono partecipi e promotori. L’incontro quindi è particolarmente congeniale perché avviene tra un critico e due scrittori veramente suoi. Questo non solo perché Scarpa aveva già dedicato negli anni studi importanti a F&L, ma anche e forse soprattutto perché la loro stessa scrittura invita alla complicità, quasi la richiede per essere compresa e apprezzata. In tal senso, il titolo Opere di bottega (scelto dal curatore e approvato a suo tempo dai due autori) è particolarmente felice, perché se da un lato allude all’impronta artigianale del lavoro a quattro mani di F&L, dall’altro rivela la natura di testi-laboratorio dei loro libri. Leggere le storie di F&L, cioè, è come entrare nell’atelier o se si preferisce nello studio di due maestri che provano a farci capire come si usano i ferri del mestiere e dove va cercata la materia prima. Ecco perché la ‘forma-Meridiano’, così come si è fissata almeno negli ultimi vent’anni o poco più, è particolarmente adatta all’opera di F&L: perché quella ‘forma’, che congiunge i testi ad apparati spesso non meno ampi, ricostruisce le premesse dell’invenzione, dà corpo alla dimensione biografico-editoriale. È insomma a sua volta una specie di atelier.

 

Credo si possa dire perciò che quella di F&L è una scrittura di secondo grado, che non per questo si può definire o liquidare con l’etichetta di metaletteratura. Questo sia perché l’opera di F&L è così varia in quanto a generi e forme da sottrarsi a ogni stereotipo; sia anche e soprattutto perché l’obiettivo dei due scrittori non è mostrare che dalla letteratura nasce altra letteratura, ma condividere con il lettore il piacere arguto di trasformare in racconto la realtà, magari calcando volutamente la mano – fin dai meravigliosi titoli – su tipi, luoghi, espressioni, situazioni socialmente marcati. Lo si vede bene in questo brano – uno dei tanti esempi possibili, ma reso particolarmente saporito da una punta gaddiana – tratto dal primo capitolo del romanzo più famoso della coppia, La donna della domenica

 

«Intorno a lui, sulla terrazza solitamente tranquilla, il caos era indescrivibile; e quanto alle tre donne del gruppo, era una grazia della Consolata che non fossero in costume da bagno. Sebbene alte fumate già si levassero dai mucchi degli agnolotti, le bottiglie di Campari e di Punt e Mes erano ancora trattenute a viva forza sulla tavolata, frammiste a quelle già dimezzate del dolcetto e del barbera. Né il saccheggio degli antipasti, a quaranta minuti dall’inizio, accennava a diminuire di furore: incagliati tra le sedie come vascelli catturati e tirati in secco, i quattro carrelli a due piani non cessavano di riversare il loro carico di peperoni al forno, tinche in carpione, tomini, acciughe in salsa rossa e verde, zucchini e pomodori ripieni, frittatone campagnole, cotechini ormai freddi.»

 

E lo si vede, ancora, in questo passaggio dello stesso libro (cap. III), che dà anche un'esemplare definizione e rappresentazione dell’idea di ‘ambiente’ nella narrativa di F&L (e soprattutto nella società ritratta nei loro romanzi):

 

«Effettivamente non si poteva mai dire, qui. Avevi il grande chirurgo, membro di tutti i comitati d’onore, con la villa di trenta stanze, la piscina, la Bentley, le fotografie sui settimanali; avevi l’altissimo magistrato o il senatore del partito di maggioranza, dei quali una telefonata a Roma poteva far tremare il ministero; e poi ti accorgevi che qui, nella loro città, dove pure nessuno metteva in dubbio il loro valore, la loro influenza o i loro soldi, contavano meno di un tranquillo impiegato delle Acque Potabili che girava in millecento blu e faceva le vacanze a Torre Pellice, in una vecchia casa con davanti due palme, ma che, le rarissime volte che li incontrava per strada, magari uscendo dall’Upim, poteva salutare col “ciao” e quell’inimitabile sorriso di estremo, improbabile piacere, i nomi più grossi e antichi di Torino. Ecco cos’era, l’“ambiente”».

 

Fruttero e Lucentini a Torino.


‘Tipicità’ è la parola-chiave e insieme la cifra che caratterizza la poetica di F&L; un concetto simile ma non identico a quello di ‘banalità’, se non altro perché il tipico è più funzionale e implicabile nel sistema umoristico dei due autori. Invece la parola ‘banalità’ fu usata sia da Pietro Citati sia da Italo Calvino nelle recensioni a Il Palio delle contrade morte (1983) scritte rispettivamente per il «Corriere della Sera» e per «la Repubblica» (se ne possono leggere degli estratti nell’apparato del secondo tomo). In verità quel romanzo è uno dei meno banali e anzi più curiosi, imprevedibili, un po’ strampalati ma arguti di F&L, che sembrano divertirsi come matti, e ci tengono a mostrarlo:

 

«Ascanio (e con lui Ginevra, Elisabetta, Guidobaldo e ogni altro contradaiolo senese) vede senza sforzo una lunghissima fila di antenati dritti come birilli, vede trenta, cinquanta individui – signori, popolani, villani, soldati, magari qualche prete o frate, che si passano per così dire la palla, come nelle generazioni bibliche: Baccio, che generò Bindo, che generò Corso, che generò Duccio...»

 

Il Palio delle contrade morte.


Il divertimento e l’allusività sono tratti che potrebbero accomunare le opere di F&L e la narrativa postmoderna. Forse possiamo anche ammettere che il clima è lo stesso, o è simile. Ma F&L non ci chiedono di leggere tutti i libri, ma di guardare bene i dettagli, di figurarci il comportamento di un personaggio in determinati ruoli e contesti. Su questo piano, F&L appaiono due scrittori più ottocenteschi che non postmoderni. Vale la pena, a questo proposito, citare un brano su cui giustamente Scarpa richiama l’attenzione nel suo saggio introduttivo; si tratta della prefazione scritta nel 1959 da Fruttero per l’edizione Einaudi di Grandi speranze:

 

«La prima cosa che colpisce leggendo i grandi romanzieri dell’Ottocento – e soprattutto Dickens e Balzac – è la naturalezza (l’incoscienza, si starebbe per dire) con cui essi intraprendono la descrizione totale del mondo che li circonda. Armati di un potere d’assorbimento che ha limiti vertiginosi, di una capacità d’osservazione che di capitolo in capitolo si affila anziché smussarsi, li vediamo affrontare le moltitudini con un ardore, una candida avidità che oggi abbiamo dimenticato, e alla quale ci si riaccosta quasi con sollievo. Perché, naturalmente, questo entusiasmo, questa spontaneità, questo amore meticoloso per i volti, i gesti, il carattere dei personaggi hanno la grande virtù di comunicarsi immediatamente anche a noi.»

 

«Questo primo capoverso di un testo di servizio – commenta Scarpa – è il programma, anzi l’innesco, di tutto quanto F&L faranno in coppia». Dickens, Balzac, forse anche un po’ di Flaubert: anche se per negarlo, il modello viene comunque evocato da Fruttero: «C’è stato un tempo, una quarantina d’anni fa, in cui qualche amico di passaggio ci paragonava scherzosamente a Bouvard e Pécuchet.» (Con Lucentini aspettando Godot).

L’attenzione per gli ambienti e i tipi, combinata con il gusto dell’allusività, fa sì che gesti e parole dei personaggi non rappresentino solo sé stessi per effetto di reale, ma siano spesso anche le chiavi per comprendere i moventi, per risalire alle cause. Si spiega anche così l’inclinazione verso il genere poliziesco, che attraversa l’opera di F&L da La donna della domenica in avanti. «Quello che viene chiamato per comodità “autore” – commentano F&L rispondendo a Diego Zandel in un’intervista per «Paese Sera», qui citata nella Cronologia – non è altro che un nevrotico detective che si aggira con la lente e la pipa in quei labirinti, frugando fra interminabili scaffali finché non ha riconosciuto il libro di sua spettanza». Più che il contenuto fattuale del racconto giallo, cui pure lo snobismo popolare dei due grandi ‘bottegai’ non sarà stato insensibile, conta la traccia, l’indizio che serve meno a individuare un colpevole che non a rivelare la natura di un carattere. Una volta trovata quella traccia, F&L ce la fanno vedere, senza trascurare la trama e i suoi esiti, ma senza imporci con ciò morali e didascalie, condividendo con noi piuttosto il piacere del riconoscimento. 

La capacità quasi insuperabile di rendere il colore locale (con grande spasso, come in A che punto è la notte: «Inverno, piemonte, vecchio centro, fumosa osteria, cesare pavese, vin brülé») ha – occorre dirlo – delle controindicazioni, che emergono alla distanza. Il rilievo dei tratti tipici, infatti, si sconta con il loro stingere nel tempo. Sugli oggetti e sui personaggi si deposita una polvere d’epoca, che rischia di far apparire datato il mondo rappresentato da F&L. Ciò non tanto a causa dell’allontanarsi di quel mondo nel tempo, quanto della modalità che i due scrittori hanno scelto per raccontarlo; una modalità – lo si è detto all’inizio – che ha bisogno di lettori complici, cioè in grado di cogliere il codice sociale e stilistico su cui si basa gran parte del realismo ironico di F&L. E l’ironia è spesso radicata nell’esperienza del contingente. Per questo, senza il giusto codice e senza la possibilità di condividere o almeno conoscere la medesima realtà contingente, il rischio è che una patina vernacolare trasformi lo stile in falsetto. La lettura continua dei due tomi (che non sempre è la giusta forma di fruizione di un’opera così estesa) alimenta forse tale effetto. Per fortuna, queste Opere di bottega, insieme agli eventuali problemi, ci consegnano anche la soluzione: cioè, l’intelligenza di F&L, che risalta in purezza dalle note e dai backstage d’autore che corredano ogni testo. Conviene perciò dare ancora la parola agli autori, in particolare a Carlo Fruttero, dal backstage di Donne informate sui fatti: «Tutti credono, diceva [Lucentini], che a piantare un chiodo non ci voglia niente. E mi porgeva un martello, un lungo chiodo. Ecco, prova. E io provavo e fallivo. Vedi? Una bella martellata, forte, secca, dritta, ti riesce solo dopo molta pratica, non si diventa Geppetto o Glenn Gould al primo colpo». Piantare bene un chiodo è una cosa che di certo s’impara in una bottega. Ma per raccontare come si pianta un chiodo ci vogliono scrittori nel vero senso della parola, come Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

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