George Saunders, Lincoln nel Bardo

3 Novembre 2017

Il Bardo è lo stato intermedio della mente dopo la morte, con la coscienza che viene separata dal corpo. È una transizione, questo è il significato della parola di origine tibetana. In questa fase di attraversamento la coscienza guarda (o dovrebbe guardare) a ciò che è stato, guarda al corpo come una cosa altra, il corpo è ancora con la coscienza ma è già distante; la coscienza ancora è, la mente ricorda, la mente vede, la mente confonde, la mente resiste e cede contemporaneamente, perché dopo il Bardo c’è la fine, il vero finale. George Saunders fa del Bardo un luogo mentale, un vero e proprio posto in cui i morti transitano e rivivono e ricordano e si muovono, e si attraversano l’uno con l’altro. Alcuni lasciano il Bardo subito, altri non vogliono attraversare rendendo la transizione eterna, altri vorrebbero attraversare ma non riescono.

 

Il Bardo di Saunders è un luogo che lega anche il lettore, si finisce di leggere il romanzo e si resta in un limbo, quasi si ha timore di parlarne per non essere abbandonati dalla storia; si tiene il libro tra le mani, lo si sposta dal comodino al divano come se fosse ancora in lettura, ce lo si porta dietro. Il lettore si trova in un altro Bardo, casalingo, un luogo che trattiene le emozioni e i pensieri, mettendo il lettore in una fase di transito che va dalla fine della lettura al reale abbandono della storia che abbiamo attraversato. Il mio Bardo è durato quasi due mesi, ne scrivo oggi, quasi a fine ottobre, stamattina ho deciso che posso attraversare, dopo aver riposto Lincoln nel Bardo accanto a Dieci Dicembre; il testimone è stato passato.

“Il ragazzino aveva qualcosa che l’aveva toccata. L’ombrello diventò il granturco; il granturco la strega; la strega la fanciulla”.

 

Willie Lincoln muore di tifo nel febbraio del 1862. Ciò che lo porta alla morte, la morte stessa e il transito successivo nel Bardo avvengono su un palcoscenico letterario straordinario, il non-luogo più bello di tutti i tempi creato da Saunders. Prima della storia conta il modo in cui viene scritta, e il modo che ha trovato Saunders, per il suo primo romanzo, si sviluppa con un passo che non trova somiglianze nella storia del romanzo. Il narratore è un noi, il narratore è un coro, forse perché nel Bardo il singolo non ha più soltanto un’identità, non ha corpo, può entrare negli altri, può percepirne i ricordi, completarne i pensieri, doppiarne le voci. I narratori sono un Reverendo, un omosessuale che rivive continuamente il proprio suicidio come in un sogno e come con gli occhi aperti su altri sogni guarda a tutte le cose che con il suicidio si è perso, e un cinquantenne morto prima di poter consumare il matrimonio con la giovane moglie. Questo terzetto è fatto di personaggi straordinari, già dai nomi. Everly Thomas è il reverendo, Roger Bevins III è l’omosessuale, Hans Volmann è il terzo. Sono loro a prendersi a cuore le sorti di Willie nel Bardo.

 

“Eravamo stati nonne, schiette e pazienti, destinatarie di oscuri segreti, che, grazie alla capacità di ascoltare senza giudicare, concedevano un tacito perdono, lasciando così entrare il sole. Con questo voglio dire che eravamo stati notevoli. Eravamo stati amati. Non soli, perduti, stravaganti, ma saggi, ognuno a modo proprio. […] Che cosa volevamo? Volevamo che il ragazzino ci vedesse, credo. Volevamo la sua benedizione. Volevamo sapere cosa ne pensava, quell’essere apparentemente magico, dei motivi per cui ognuno di noi era voluto rimanere”.

 

 

L’essere visti, notati, essere compresi, una caratteristica comune anche ai personaggi dei racconti di Saunders. Speranza che in una terra di mezzo tra la vita e la morte non può che essere amplificata. Chi già non è più umano dimostra di esserlo più di chi vive. I tre narratori non si accontentano di fare da guide al piccolo Willie, desiderano essere “visti” per come sono, che è più di quello che sono stati. Lo sbaglio commesso è allo stesso tempo più grande e sfumato come su un piano lontano. Vogliono che Willie veda e che trovi conforto nelle loro debolezze, perché non essere andati oltre il Bardo è un nascondersi ma è pure la voglia di manifestarsi ancora un po’, dimostrare di essere buoni, essere in grado di commuoversi e commuovere. La volontà di rimanere umani, di esserlo di più. E questa umanità esplode nei momenti in cui i tre fanno tutto ciò che possono affinché Lincoln padre, il Presidente, riesca a “sentire” il figlio ancora una volta e viceversa, che avvenga un abbraccio impossibile, che il dolore possa lenirsi per un attimo. Tre morti che provano ad aiutare un altro morto e un vivo a condividere ancora qualche istante. George Saunders si ricorda che il suo tema principale è la condizione dell’uomo. Tornano in una versione quasi onirica le delusioni, il non avercela fatta, il cercare una seconda possibilità, qui, oltre la fine. Torna il bisogno di conforto, tornano quelli che hanno deluso, che sono tutti, che siamo tutti. Torna la voglia di capire l’umano, stavolta valicando il confine in cui l’umano sta diventando un’altra cosa. Torna la compassione ed è questo che più di tutto ci commuove. Torna il bene, che per Saunders è la vera questione morale.

 

A noi non americani forse la storia di Lincoln e di suo figlio, di quegli anni, della guerra, dell’uomo politico indebolito, visto da alcuni suoi contemporanei come uno che manda a morte i giovani, come uno che dà feste mentre il figlio sta morendo, potrebbe non interessare particolarmente all’interno di un romanzo. Ci interessa, però, il rapporto tra padre e figlio, ci riguardano il dolore e l’abbandono, amiamo il confine e il transito. Proviamo pena per Willie e per il Presidente degli Stati Uniti che a cavallo, un po’ curvo, di notte se ne va al cimitero per passare del tempo con il figlio, figlio che è là e che lo vede, che lo guarda, che con l’aiuto dei nostri tre eroi prova a comunicargli qualcosa.

 

George Saunders ha scritto un romanzo incredibile e difficile. Lancia una fida che il lettore non può far altro che raccogliere. I tre narratori si alternano continuamente più volte all’interno della stessa pagina, mischiano i loro ricordi con quello che accade nel Bardo; Everly Thomas comincia una frase, Volmann la continua, Roger Bevins III la chiude per poi riaprila, in un infinito gioco di sponda. Leggendo si è presi come in un vortice, si intuisce che faticheremo un po’ a indovinare il ritmo ma che poi non vorremo lasciarlo. I capitoli del Bardo si alternano a quelli di un altro coro, quello della storia; ciò che è avvenuto in quel periodo, dentro e fuori dalla Casa Bianca, è raccontato in un susseguirsi di citazioni (Saunders non spiega dove le vere si mischino a quelle che si è inventato, e fa bene).  Saunders ha alzato l’asticella, poteva permetterselo e ci è riuscito. Negli Usa hanno gridato da subito al capolavoro, e qualche giorno fa il libro si è aggiudicato il Man Booker Prize; di certo ci troviamo davanti a un romanzo straordinario, qualcosa che non c’era e che adesso c’è, qualcosa con cui fare i conti da qui in avanti. Non saremo mai abbastanza grati a Cristiana Mennella per aver reso, con un lavoro che suppongo di grande difficoltà, la grazia della prosa dello scrittore americano, la grazia che andiamo cercando.

 

“Sebbene avesse smosso tante cose dentro di me (ero immerso in una nuvola vaga e tormentosa di dettagli provenienti dalla mia vita: nomi, volti, stanze misteriose, odori di pasti consumati tanto tempo addietro; i disegni del tappeto di una casa che non riconoscevo; singoli pezzi di posateria, un cavalluccio a dondolo senza un orecchio, il nome di mia moglie, Emily, ricordato all’improvviso), la coabitazione in massa non mi aveva consegnato la verità fondamentale che andavo cercando, il motivo per cui ero stato condannato. Mi fermai sul sentiero, rimasi indietro, cercando disperatamente di mettere a fuoco quella nuvola e ricordare chi ero stato e che male avevo fatto, ma non mi riuscì, e allora fui costretto ad affrettarmi per raggiungere i miei amici. il reverendo everly thomas”.

Nel Bardo ci sono tutti nel momento del passaggio con ancora le proprie storie addosso, con le paure e il senso di perdita aumentati. Sul palco di Saunders ci stanno i ballerini, le puttane, gli assassini, i preti, i bambini, i camerieri, gli ignoranti, i professori, i generali, i morti in guerra, gli scampati e i disperati; riparati e poi scoperti dallo stesso ombrello, e non ci troviamo davanti a una nuova Spoon River, ci troviamo nel mondo di George Saunders, uno dei più bravi.

 

Trad. Cristiana Mennella, Feltrinelli 2017.

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