Ogni incontro una liberazione / Gesù e le donne

6 Febbraio 2017

Si racconta di un padre del deserto che, mentre camminava con i suoi discepoli, vide avvicinarglisi una madre del deserto insieme alle sue discepole, allora gridò a gran voce: Presto figlioli allontaniamoci perché ci sono delle donne! Al che la madre, gli gridò a sua volta: Se tu avessi compiuto anche un solo passo nella via giusta, non ti saresti neppure accorto che siamo donne! Lo sguardo di quel sant'uomo era lo sguardo chiaramente distorto e umiliante di chi proprio non riesce a vedere nella donna un aiuto che gli corrisponde (cfr. Gen 2) e lo fronteggia, occhi negli occhi, da pari a pari. 

Lo stesso sguardo persiste ancora oggi, nella nostra società e nella nostra Chiesa, continuando a ferire e mortificare. Infatti, di tutte le iniquità, di tutte le forme di razzismo, quella dell'uomo nei confronti della donna è la più antica e, sembrerebbe, la più tenace. Eppure questo "schema d'ingiustizia planetaria [contro le donne] che non conosce stagioni" né confini, è stato scardinato da Gesù di Nazaret, come afferma Enzo Bianchi priore della Comunità di Bose, teologo e consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, nel suo saggio Gesù e le donne, recentemente pubblicato da Einaudi. Egli ebbe con loro un rapporto eversivo e dirompente, affettuoso, libero e liberatorio che purtroppo, come molti altri aspetti del messaggio gesuano, non è stato neppure oggi del tutto recepito dai cristiani. E anche se a qualcuno può dispiacere, per capire chi fosse realmente Gesù, quale idea avesse di Dio, del mondo e di se stesso è necessario considerare il suo modo di trattare con le donne che incontrò nella sua vita.

 

La tradizione evangelica ha posto sotto silenzio la sequela femminile, avverte Bianchi, eppure la comunità che Gesù volle raccogliere attorno a sé, composta da una ventina di persone, comprendeva uomini e donne, "discepoli e discepole che avevano lasciato famiglia, casa, campi, moglie, marito e figli" per seguirlo. Perché si possa cogliere la portata rivoluzionaria di questa realtà, l'autore inquadra innanzitutto la situazione femminile nella cultura vetero testamentaria e nel contesto giudaico del tempo. Nonostante grandi figure femminili fossero ricordate nella Bibbia ed elogiate non solo per le loro virtù domestiche, ma anche per il coraggio, la saggezza, la capacità d'iniziativa, ai tempi di Gesù la donna, al di fuori delle mura domestiche, valeva ben poco. La loro testimonianza non era ammessa nei tribunali e i rabbini predicavano che "è meglio bruciare la Torah che insegnarla alle donne". Eppure sarà a una donna, la discepola più amata, Maria di Magdala (la Maddalena), che egli sceglierà di apparire per prima dopo la risurrezione. E a lei affiderà il compito di annunciare e di testimoniare ai discepoli che è vivo. Per questo lei sarà detta uguale agli apostoli (isapòstolos) nella tradizione greca, e apostola degli apostoli in quella latina. Ciò nonostante, ben presto la Chiesa primitiva stabilirà il primato di Pietro, oscurando il ruolo della Maddalena.

 

Nell'incontro tra Gesù risorto e Maria di Magdala c'è un dettaglio su cui vale la pena soffermarsi perché dice molto della mentalità misogina antica e del forte segno che ha impresso sui secoli successivi. La situazione è questa: Maria, nel giardino della sepoltura, piange perché non trova più il corpo di Gesù. Un uomo si avvicina e le domanda perché piange, lei crede sia il giardiniere e gli chiede se sa dove sia finito il corpo del suo maestro. A questo punto, l'uomo la chiama per nome e lei allora riconosce che è il Signore, gli si butta addosso e lo stringe, lo abbraccia, quasi lo soffoca. E lui risponde: non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre. Il verbo trattenere è stato tradotto a lungo: non mi toccare (il famoso noli me tangere che ha dato il titolo a molti dipinti raffiguranti questa scena). Questa traduzione rende la risposta sibillina e oscura, per molti secoli infatti è stata interpretata dagli esegeti e dai predicatori come se Gesù avesse voluto sottolineare l'indegnità di Maria a toccare il suo corpo ormai glorificato. Ma esiste un'altra possibilità, più coerente con la situazione e il rapporto tra Gesù e Maria. Immaginiamo la scena. Lei, sconvolta dalla gioia, si butta addosso al maestro, lo abbraccia, lo stringe e lui le dice: smetti di abbracciarmi, non sono ancora andato via! È una sfumatura, ma cambia completamente il senso della scena e l'atteggiamento delle due persone coinvolte. Diventa il racconto di un istante perfetto di felicità assoluta (cfr. Pietro Lombardini, Figure femminili nella Bibbia, Edizioni San Lorenzo, 2009), non la dichiarazione dell'indegnità umana, e soprattutto femminile, a stringersi a Dio. Per Bianchi Maria di Magdala "nel quarto vangelo è una delle figure femminili più intriganti", la discepola che rappresenta emblematicamente tutte le altre, e nella Chiesa le spetterebbe almeno il ruolo di "icona dell'amore per Gesù". 

 

Ma ci sono molti altri incontri con donne diverse e in ognuno di essi Gesù contrasta un pregiudizio, viola un tabù, afferma una liberazione. Il suo sguardo non è come "l'occhio spione degli uomini religiosi", sempre in cerca di una trasgressione sessuale – sguardo colpevole e distorto dalla malizia che vede nell'altro la propria intenzione perversa; Gesù vede il loro dolore, la loro fatica, la loro infelicità e a loro vuole restituire la dignità di figlie di Abramo, di figlie di Dio che loro appartiene. Non le condanna mai, neppure se hanno avuto molti mariti, neppure se convivono senza essere sposate. Perché i loro peccati, sottolinea Bianchi, sono spesso "tutt'al più frutto di infelicità, di solitudine, di debolezza, e Gesù è sempre pieno di misericordia verso tali fallimenti, mentre non è altrettanto indulgente verso i peccati dell'ipocrisia, dell'orgoglio religioso; e verso la cupidigia e la corruzione del denaro pone addirittura un aut-aut: Non potete servire Dio e la ricchezza". 

 

 

Ogni donna incontrata è un muro che si abbatte. L'ostracismo contro il sangue delle donne, ad esempio, nell'incontro con l'emorroissa. Una donna ammalata da dodici anni di perdite mestruali che la rendevano impura per la società del tempo e la escludevano anche dalle normali relazioni familiari, poiché i parenti toccandola sarebbe diventati impuri a loro volta. In questo episodio Gesù, circondato dalla folla, avverte una forza uscire da sé e chiede chi l'abbia toccato; la donna, tremante, confessa la sua malattia e di esserne stata immediatamente guarita. Lui non la rimprovera per quello che ha fatto, non la caccia via e neppure corre al tempio a purificarsi. Lascia che tutti sappiano che è stato toccato da una donna impura e le si rivolge affettuosamente – figlia mia – rimandandola in pace e infrangendo il crudele tabù del sangue. E Bianchi sottolinea il disprezzo per il corpo femminile che si cela in questo considerare impuro il sangue della donna, mentre quello degli animali purificava dai peccati! Anche la guarigione di un'altra donna, curva da diciott'anni, e duramente redarguita dal capo della sinagoga perché era andata a chiedere -o piuttosto a sperare – di essere curata in giorno di sabato, diventa occasione per rimproverare l'ipocrisia di quei religiosi che mettevano l'osservanza del precetto davanti alla concretizzazione del suo significato. Il sabato, infatti, era stato dato a Israele come giorno dello shalom, della pace, dell'integrità, della libertà da ogni schiavitù. Liberare la donna curva in giorno di sabato dalla sua malattia, questo è osservanza del precetto, per il rabbi di Nazaret. 

 

In altri episodi emerge in modo particolare la grande libertà di Gesù nel trattare con le donne e la sua considerazione per loro. Nel racconto della siro-fenicia si tratta di una straniera che gli chiede con insistenza di guarire sua figlia; lui non le dà retta, al punto che i discepoli gli chiedono di ascoltarla così smetterà d'importunarli. Allora apostrofa duramente la donna, dicendole che non è lecito dare il pane dei figli ai cani. Un'affermazione sprezzante e sorprendente in bocca a Gesù. La siro-fenicia non s'intimorisce, e gli ribatte: è vero, ma anche i cani si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei padroni. Gesù ne resta ammirato e le dice: grande è la tua fede! Ha compreso che questa donna sta profetizzando, parla in nome di Dio per dirgli qualcosa che lui non aveva ancora compreso: la sua missione non è solo per Israele. Questa donna gli ha insegnato una cosa importante, e lui l'ha ascoltata.

Con un'altra straniera, una samaritana, Gesù infrange molte regole in una volta sola; intanto, rivolge la parola a una donna sola, per di più appartenente a un popolo profondamente disprezzato dai giudei; inoltre, è certo una donna con una storia difficile alle spalle, perché si presenta al pozzo per attingere acqua da sola a mezzogiorno e non di mattina presto come sono solite fare le altre tutte insieme; infine, più grave di tutto, parla con lei di questioni teologiche. Quando lei gli dice che ogni cosa sarà chiara quando verrà il Messia atteso, egli risponde: "Io Sono che ti parlo". Nessun orecchio ebraico o samaritano avrebbe potuto fraintendere o non capire: Io Sono è il nome di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente. La samaritana, come la Maddalena, è depositaria di un'enorme rivelazione. Entrambe avrebbero meritato un'attenzione maggiore nella Chiesa petrina.

 

C'è poi un'altra Maria, la sorella dell'infaticabile Marta. Quando Gesù va ospite a casa loro, lei non vuole perdere tempo in faccende domestiche, vuole ascoltarlo come una discepola, seduta accanto a lui. Marta chiede a Gesù di dirle qualcosa, di rimproverarla, invece lui la loda, perché ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta. Quasi sempre si è letta, in questo episodio, un'opposizione tra vita attiva (Marta) e vita contemplativa (Maria); Enzo Bianchi pensa piuttosto che egli approvi il gesto rivoluzionario con cui Maria sceglie una strada diversa da quella usuale e lodi la sua libertà interiore che le fa scegliere di essere quella che vuole. Sicuramente per Gesù anche alle donne si può insegnare la Torah! La questione non è anacronistica, come dovrebbe; il divieto permane in alcune correnti ultra-ortodosse dell'ebraismo contemporaneo, creando situazioni complesse come quella narrata da Chaim Potok nel suo bellissimo L'arpa di Davita (Garzanti) in cui la protagonista è una bambina, figlia unica, che vuole potere recitare per il padre il Kaddish, la preghiera funebre che spetta al parente maschio più prossimo pronunciare in sinagoga in onore dei defunti. Non ci sono parenti maschi, solo lei, che amava suo padre più di ogni cosa. La sua determinazione riuscirà ad avere la meglio sulla rigidità dei dottori della Legge, anche se a prezzo di qualche compromesso.

 

Nella tradizione ebraica si dice che Dio raccoglie tutte le lacrime delle donne; Paolo di Tarso, in uno dei suoi momenti più ispirati, proclama che grazie a Gesù sono scomparse tutte le differenze, compresa quella tra l'uomo e la donna. Allora perché è così difficile per gli uomini non capire, ma sentire che maschio e femmina sono la stessa cosa, una duplice versione dell'unico Adam, dell'unico Terrestre? 

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