March for Our Lives / I ragazzi che salveranno l’America

22 Aprile 2018

Li avevano descritti ansiosi, indifferenti, succubi dei social media. Una generazione a perdere, lontana dal mare grande della Storia. Hanno colto tutti di sorpresa quando, dopo il massacro al liceo di Parkland, hanno urlato la loro rabbia. Rivelandosi, loro malgrado, i ragazzi che rischiano di salvare l’America da se stessa. 

Sono bastati pochi tweet per capire che gli studenti sopravvissuti alla sparatoria in Florida non intendevano accomodarsi nel ruolo dolente di testimoni né cedere la scena ai politici di professione. Con un coraggio che ha dell’incredibile stavano invece intonando un’altra nota. Furiosa, disperata, carica di speranza: così lucida da far paura.

Senza troppi complimenti gli attivisti teenager – in prima linea David Hogg, Emma Gonzalez, Cameron Kasky e Jaclyn Corin – hanno smascherato il balletto di circostanza che accompagna le stragi (le “lacrime e riflessioni”, di cui ha parlato il presidente Trump) puntando il dito sui veri colpevoli: la National Rifle Association, potentissima lobby delle armi, e i suoi fiancheggiatori. 

Mescolando ironia (“Gli adulti ci amano quando prendiamo buoni voti, ma ci odiano quando abbiamo opinioni forti”, scrive Emma Gonzalez) e rassicurazioni (“Non vogliamo portare via le armi a nessuno. Vogliamo solo che la gente sia più responsabile”) hanno preteso un controllo più severo sulle armi da fuoco. 

 

 

Quanto è accaduto a Parkland – hanno ripetuto – non deve succedere mai più. Enough is Enough: Never Again. I loro coetanei – la generazione delle stragi cresciuta dopo il massacro di Columbine (1999), imparando a scuola non solo cosa si fa se c’è un incendio ma come ci si barrica in caso di sparatoria – hanno aderito in massa.

Ancora troppo giovani per farsi una birra, questi ragazzi hanno scelto di cambiare il mondo e potrebbero riuscirci. Nel giro di poche settimane hanno tessuto una rete di alleanze capace di proiettare il loro movimento neonato dritto nel cuore di Washington in una trionfale Marcia per le nostre vite che ha reclamato l’attenzione del mondo. 

Ripetuta in contemporanea in altre 763 località, l’iniziativa ha portato in piazza il 24 marzo centinaia di migliaia di persone. Li ho visti sfilare a New Orleans, in una magnifica mattina di sole. Una carovana mista di età e appartenenze – bianchi e neri, studenti delle superiori e bambini, preti, suore, Lgbt – armata di slogan fra le lacrime e il vetriolo. “Protect children, not guns”; Fear has no place in our schools”; “We can end gun violence”; “Arm teachers with pencils, not guns”; “Am I next?”.

La March for Our Lives è la terza manifestazione più partecipata dell’era Trump, dopo le due edizioni della Women’s March. Un successo strepitoso per un paese dove, a differenza dell’Italia, scioperi e occupazioni non fanno parte del lessico degli studenti e molte scuole hanno punito chi aveva lasciato la classe nel National School Walkout di metà marzo. 

 

 

La marcia più importante, quella che conduce alle elezioni di midterm a novembre, è però appena cominciata. L’obiettivo è portare al voto i giovani, di solito restii a presentarsi alle urne. E perché votino serve che prima vadano a registrarsi. Non sarà facile ma la posta in gioco è alta, ripetono gli attivisti. “Quello che abbiamo fatto il 24 marzo non avrà alcun significato se nessuno va a votare a novembre, perché è lì che alla fine le nostre voci saranno sentite”, dice Alex Wind, studente al liceo di Parkland.

Sarà una lunga spossante maratona, rallentata dalle vacanze estive. Ed è allora che si vedrà se Never Again è destinato a spegnersi in una fiammata bruciante di gioventù o è qui per restare. Le premesse lasciano ben sperare. Gli attivisti teenager hanno mostrato fin dal principio una capacità politica notevole. Sono passati dal lutto all’azione con la prontezza di chi la sa lunga sul ciclo mediatico. Sono preparati, appassionati, intelligenti. Carismatici. Rifiutano di farsi sequestrare dalla politica e usano i social con una perizia invidiabile. Non hanno paura del contraddittorio né degli attacchi, che pure sono stati volgari e velenosi. 

 

I media li adorano. Time li ha messi in copertina, Teen Vogue, Harper’s Bazar e Huffington Post ospitano i loro editoriali. Il New Yorker ha dedicato loro pagine su pagine, National Public Radio li ha intervistati a ripetizione. Sono i figli migliori dell’America democratica, inclusiva, antirazzista. Viene facile specchiarsi in loro, più che in Black Lives Matter o nei giovani Dreamers. Le stragi non guardano all’età, ai documenti né al colore della pelle: ognuno di noi può essere la prossima vittima. 

Consci del privilegio in cui sono nati e cresciuti – Parkland è una comunità in maggioranza bianca, dove il reddito medio sfora i centomila dollari – gli studenti hanno lavorato con puntiglio ad aggregare altre forze e hanno condiviso con loro i riflettori di Washington.

Quel giorno si sono sentiti Edna Chavez, studentessa latina di Los Angeles e Zion Kelly, afroamericano, raccontare la morte dei fratelli, entrambi vittima di una sparatoria. La nipote di Martin Luther King, Yolanda, 9 anni, ha intonato il suo personale I Have a Dream e l’undicenne Naomi Wadler ha denunciato la violenza che falcidia le giovani afroamericane, quelle che “non arrivano sulla prima pagina di tutti i giornali nazionali”. 

 

 

Le loro voci hanno disegnato una prospettiva che travalica i confini della Florida e abbraccia chiunque patisca la violenza delle armi per mano di pazzi, delinquenti o agenti di polizia. Sono i primi passi, anche se vaghi, di quella che potrebbe diventare un’agenda più complessa capace di mobilitare ampie fasce. 

Come ha dimostrato il movimento per i diritti civili, ha notato David S. Mayer sul Washington Post, l’intreccio di temi è necessario alla vitalità di un movimento sociale. Gli studenti di Parkland per ora sembrano muovere in quella direzione ma nessuno, neanche loro, sa quali saranno i prossimi sviluppi. Il dato incoraggiante è che, allo stato delle cose, l’area di consenso è assai più ampia del previsto.

Chi si aspettava uno scontro fra generazioni è infatti rimasto deluso. Stimolati dall’entusiasmo degli Obama (“Nel corso della nostra storia, i giovani come voi hanno aperto la strada nel rendere l’America migliore”), George e Amal Clooney, Oprah Winfrey, Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e Gucci hanno donato mezzo milione a testa e altri hanno seguito il loro esempio. 

Nel suo piccolo, un esercito di anonimi ha convogliato su Never Again tre milioni di dollari tramite il crowdfunding. Le popstar – da Miley Cyrus a Ariana Grande a Rita Ora – hanno mostrato la loro solidarietà esibendosi sul palco e celebrità di ogni genere si sono fatte fotografare a Washington con spilline e insegne. 

 

 

Più discreti, sui cartelli e gli striscioni di tutt’America quel giorno sono sfilati i nomi delle organizzazioni al fianco di Never Again: Everytown for Gun Safety, fondata dal miliardario ex sindaco di New York Michael Bloomberg; Moms Demand Action, nata dopo la strage nell’elementare Sandy Hook; Giffords Courage to Fight Gun Violence; Women’s March; Planned Parenthood. 

È la faccia meno spettacolare del movimento e quella che adesso può rivelarsi la più utile. Questa galassia di sigle, finora dispersa, ha trovato nei teens di Parkland un catalizzatore e una voce di rara potenza. Tocca a loro – radicate sul territorio, forti di esperienze e contatti – accompagnare la prossima marcia di Never Again verso le elezioni. 

Gli studenti stanno attraversando il paese per chiedere conto ai politici delle loro posizioni sulle armi e convincere i coetanei a registrarsi per il voto. Il progetto è mettere in piedi 535 riunioni, una per ogni membro del Congresso. Poi ci sono gli incontri nelle scuole, le chiese, le sinagoghe e ovunque qualcuno vorrà sentirli. 

 

 

È una traiettoria meno emozionante di quella disegnata finora. L’esperienza dimostra però che la legislazione locale può fare miracoli anche se a livello federale poco si muove. E l’esempio della Florida, dove gli attivisti hanno già ottenuto buoni risultati, conferma che la via da seguire passa attraverso le periferie del paese. 

Non è il caso di farsi troppe illusioni. Le alleanze potrebbero sfarinarsi. Gli attacchi dell’Nra con il passare dei mesi si faranno sempre più pesanti. La pancia del paese – dove le armi sono identità, tradizione, orgoglio – rifiuterà di prestare ascolto. Li ricopriranno di insulti, li accuseranno di mentire, di essere attori pagati da Obama. E se pure a novembre i giovani si presenteranno in massa alle urne, il risultato non è scontato. Ma, vada come vada, in quest’America dove le stragi sono parte del quotidiano, i ragazzi di Parkland hanno rimesso in moto la Storia.  

 

Tutte le immagini sono di Andrea Saulle.

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