Oggi Peter Sloterdijk al Festival Filosofia / Il dio visibile

17 Settembre 2016

Manfred Osten: Attualmente sembra incombere una catastrofe riconducibile innanzitutto all’incontro tra la cupidigia e il denaro. Pare in ciò che lo spirito sia andato smarrito e ritengo sia necessario chiedersi se siano inevitabilmente da accettare le tendenze che oggigiorno si possono osservare nell’economia dei mercati finanziari o se sia meglio rivolgersi a Karl Valentin, secondo il quale, in realtà, tutti gli uomini sono buoni mentre solo la gente è cattiva. La domanda, quindi, è se vale ancora quello che dicono i vangeli, ossia che lo spirito soffia dove vuole e non dove vuole il denaro. 

Signor Sloterdijk, sul settimanale Die Zeit lei ha accennato al fatto che sarebbe possibile uscire dall’attuale crisi provocata dal denaro e dalla cupidigia se riuscissimo a togliere di mezzo il folle sistema politico-finanziario che da circa vent’anni ci è stato imposto dall’ignoranza e dalle buone intenzioni dei politici. In che modo, allora, potremmo uscire da questo «folle sistema»?

 

Peter Sloterdijk: Se volessimo ricostruire le motivazioni per cui i politici europei dell’epoca hanno sviluppato l’euro, le ragioni per cui hanno infilato di nascosto i greci – reputando la Grecia la «madrepatria della democrazia», anche se da più di duemila anni non sa più cosa sia la democrazia – in questo edificio fatto di buone intenzioni e culture superficiali, allora trasformeremmo questa serata in un comizio elettorale. Potremmo dividere la sala in due partiti: coloro secondo i quali la situazione attuale è ancora il male minore e coloro che ormai la ritengono irrecuperabile. Di recente, nel corso di una manifestazione pubblica ho fatto la brutta figura di uno che, ora come ora, non riesce a ritenere che la situazione attuale sia il male minore, il che non dovrebbe accadere a un intellettuale. Per questo, a parer mio, non si dovrebbe iniziare un colloquio riferendosi all’attualità. Credo, invece, che le idee si debbano andare a prendere sempre da lontano, poiché è questa l’essenza dello spirito: è ciò che si è andato a prendere da lontano [das Weithergeholte]. Ma tale andare a prendere da lontano è caduto in disuso in quest’epoca in cui, per citare una bella espressione del giovane Nietzsche, tutti quanti noi ci siamo trasformati in «legionari del momento». Allora, Nietzsche aveva appena riletto i colloqui tra Goethe ed Eckermann e, colpito dalla giovialità olimpica che vi si poteva cogliere, aveva detto che da parte sua avrebbe rinunciato volentieri a migliaia di tonnellate di cose del suo tempo pur di poter trascorrere una sola ora ancora in quell’altra riflessione.

 

M.O.: Proviamo allora ad affrontare la questione in un altro modo. In molti campi assistiamo al fenomeno di un’illimitazione [Entgrenzung, caduta di ogni limite], di un’illimitazione nella creazione di denaro – il quale non è più collegato alla creazione di un valore – e nell’accumulo di debiti senza alcun collegamento con il debito. Ma come è stato possibile giungere a tali processi di illimitazione, nei quali questi elementi non sono più associati tra loro? E come è potuto accadere che, concretamente, si siano accumulati debiti per i quali non è stata prevista alcuna possibilità di estinzione?

P.S.: Per rispondere a questa domanda, ci si deve chiedere che cosa è successo in generale nell’epoca moderna e quando ciò ha avuto inizio. Dobbiamo allora tornare indietro di circa settecento anni, evitando di utilizzare con troppa facilità l’espressione «epoca moderna». Quando pensiamo in modo più tecnico e ci domandiamo da quando gli uomini hanno dato il via a miglioramenti intensivi, allora dobbiamo risalire al Trecento. In quell’epoca, all’eredità medievale si è accompagnata un’incredibile fioritura di tecniche di esercizio [Übung] dell’anima. Moltissimi europei allora si sono dedicati all’imitatio Christi, come si intitolava uno dei libri più diffusi della letteratura mondiale del passato, scritto dal mistico Tommaso da Kempis. Con l’imitatio Christi i mistici cristiani scoprirono in ambito psichico il cosiddetto «feedback positivo». Dell’indicazione della dimenticanza di sé riuscirono a fare un esercizio capace di consentire una specie di accumulo naturale di energia psichica. Proprio allora e con l’impiego di queste tecniche di esercizio dell’anima nacque l’uomo moderno.

 

È colui che può tutto, poiché si è esercitato a ignorare se stesso in ogni cosa. Sempre nel XIV secolo, contemporaneamente in Italia e nelle Fiandre, ha inizio qualcosa di nuovo, qualcosa di moderno. Nelle corporazioni degli artisti dell’Italia settentrionale e in alcune scuole fiamminghe, un gruppo di uomini, in seguito chiamati artisti, praticano una spirale di sviluppo di senso opposto alla prima. Infatti, essi spendevano gran parte della loro energia psichica per migliorare sempre di più quello che già facevano. Gli artisti, allora, sono uomini che fondamentalmente e in modo sistematico vogliono continuamente migliorare. Questo processo ha inizio al principio del Trecento con Cimabue, Giotto e alcuni altri. È un tipo di spirale artistica che, grazie al feedback positivo, nel giro dei successivi due o trecento anni darà luogo a sviluppi artistici inimmaginabili, che toccheranno il vertice con le opere di Leonardo, Michelangelo, Rembrandt e Caravaggio. Chi si intende un po’ di questi argomenti e si applica alla realizzazione artigianale di questo tipo di opere, ancora oggi non riesce a spiegarsi come mai ciò sia potuto avvenire. Nel Trecento, quindi, in Europa si è scoperto qualcosa che ancora oggi determina la nostra esistenza. L’Europa si è trasformata essenzialmente in un gigantesco campo di allenamenti. Insieme alla Cina, l’antica grande potenza dell’esercizio, a partire dal XIV secolo l’Europa è divenuta un unico, gigantesco campo di allenamenti, al cui centro inoltre non ci sono i politici, ma i maestri o, come li chiamiamo oggi, i professori. Nel Trecento e nel Quattrocento, questa attività di esercizio si collega ad altre spirali di sviluppo. Da allora, ad esempio, viviamo in una giuridicizzazione permanente delle situazioni della vita. Avviene così che l’arte produca altra arte, il diritto altro diritto, le operazioni finanziarie altre operazioni finanziarie. Questa terza spirale è stata scoperta negli istituti bancari italiani, e per questo senza volerlo [in tede- sco] continuiamo a usare l’italiano quando parliamo di operazioni finanziarie. L’istituto bancario più antico d’Europa, il Monte dei Paschi di Siena, esiste ancora oggi e risale a quell’epoca. Infine, si deve ricordare una quarta spirale, che nasce anch’essa in questo periodo. Il suo maggiore testimone è Leonardo da Vinci, poiché – analogamente al collegamento tra denaro e ingegneria meccanica – egli ha studiato per primo in modo sistematico il collegamento tra arte e ingegneria meccanica. I suoi codici costituiscono ancora oggi la più ricca fonte in grado di mostrare quanto finora è avvenuto in Europa nel campo della meccanica. Nell’ingegneria meccanica diventa evidente la capacità di produrre con l’«ingegno», quindi grazie all’abilità ingegneristica, altro «ingegno»: le macchine portano ad altre macchine. E, per finire, bisogna aggiungere lo Stato moderno: una volta che lo Stato si è formato, esso tende a diventare sempre più Stato. 

 

 

Abbiamo quindi in tutto, collegati tra loro, cinque processi ciclici, caratterizzati da un feedback positivo: il sistema artistico – che all’inizio va probabilmente collocato sullo sfondo del sistema di esercizi religiosi –, il sistema finanziario, il sistema giuridico, il sistema statale e il sistema dell’ingegneria meccanica. Ciascuno di questi settori è strutturato in modo tale che chiunque vi partecipi è assoggettato alla legge del feedback positivo. Quando inizia a operare con queste cose, ognuno deve imparare come imparare sempre di più nel proprio settore di competenza. Questa spirale è quella che riguarda anche il nostro presente. Sostanzialmente, all’interno del sistema finanziario appare, nel XX secolo – anche qui grazie a un feedback positivo –, un ulteriore metasistema, che però non conosciamo ancora molto bene: si tratta di un fenomeno che riusciamo a descrivere solo in maniera approssimativa.

 

M.O.: Signor Macho, questa spirale di illimitazioni non è aumentata ancor di più con la rivoluzione industriale? E, in particolare, con un’ulteriore illimitazione del denaro mediante l’illimitazione dell’accelerazione resa possibile dalla tecnica, intendo nel senso del time is money, secondo la definizione di Benjamin Franklin? Il risultato è un’esaltazione del denaro che riguarda tutti i settori della vita. In questo contesto, nel suo libro Caratteri filosofici, Sloterdijk ha detto riguardo all’attualità di Karl Marx: «il non-morto, che si aggira tra gli uomini come valore monetario e che, come ridente comunicatore, sottrae tempo e anima ai vivi, già oggi, quasi senza pretesti, regnando sovrano sulle società avanzate. Lavoro, comunicazione, arte e amore fanno qui parte per intero dei finali di partita del denaro. Essi costituiscono la sostanza dell’odierna era dei media e del vissuto. Poiché il denaro richiede tempo per acquistare valore». Ma la questione decisiva è questa: non è forse vero che con la rivoluzione industriale vi è stata la possibilità di accumulare denaro come non mai fino ad allora? E ciò, in particolare, grazie all’accelerazione di tre elementi: la produzione, la comunicazione e i mezzi di trasporto. Ora, questo ha raggiunto il suo culmine con un’ulteriore accelerazione esponenziale del profitto ricavato dall’accelerazione – e specialmente grazie alla rivoluzione digitale. Non è forse questo a portarci al nucleo dei nostri assolutamente moderni e straordinari fenomeni di illimitazione?

 

Thomas Macho: Forse va ricordato ad esempio che Bernard Vincent, nel suo libro Perché l’Europa ha scoperto l’America, ha affermato che proprio questi processi di illimitazione erano una caratteristica già del 1492. C’erano dimensioni dell’illimitazione che avevano qualcosa a che fare con le tecniche di navigazione – con la scoperta dell’America, ad esempio –, ma anche con l’economia e la creazione di valute, e con la cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna. Nello stesso anno, però, fu redatta la prima grammatica di una lingua viva: il castigliano.

Prima di tornare al presente, voglio fare ancora un passo indietro al Trecento, collegandomi in particolare a un’idea proposta da Sloterdijk non molto tempo fa nel corso di una conferenza tenutasi al Philosophicum di Lech. In quella sede si discuteva se il centro del XIV secolo, il centro dei processi di illimitazione allora nascenti, non fosse costituito proprio da illimitazioni non volontarie. Gli anni attorno alla metà del Trecento, tra il 1348 e il 1350, furono infatti caratterizzati dalla comparsa della peste nera, una catastrofe impensabile che coinvolse tutta l’Europa. Non esistono statistiche precise, ma secondo stime attendibili nella seconda metà del Trecento la peste nera avrebbe colpito un quinto, e in certe regioni anche un terzo, della popolazione europea. Questa illimitazione obbligata ha dimostrato in che modo funzionano i processi di contagio, infezione e ovviamente anche di imitazione [Nachahmung]. Ritengo che probabilmente neanche il più eccellente mistico e autore di trattati sull’imitatio Christi abbia ritenuto possibile tutta l’imitazione sperimentata ai tempi della peste.

 

A Lech, Peter Sloterdijk ha sostenuto la tesi secondo cui un gruppo di persone, in quella situazione, ha inventato qualcosa che si è giustamente meritato il titolo di «nuovo»: la novella. Mentre la peste imperversava a Firenze, questo gruppo si era ritirato in una tenuta di campagna dove i presenti si raccontavano delle storie in attesa che terminasse la paura. Alle strategie di decimazione della peste nera si replicava con le strategie di moltiplicazione del racconto. Questa raccolta di novelle è diventata celebre con il nome di Decamerone, di Boccaccio. In quest’opera, l’arte reagiva a un’illimitazione provocata da un’epidemia. Chi legge oggi l’introduzione, si trova davanti alla lamentazione che tutti i legami, tutte le appartenenze, tutto viene distrutto: i genitori piantano in asso i figli e i figli fanno lo stesso con i genitori, tutti gli amici e i vicini scappano, poiché nessuno sa più di chi può fidarsi. Al mattino, scrive Boccaccio, ci si siede insieme per la colazione e già a sera si sta a cena con i propri antenati. Almeno su questo punto era rimasto ancora un barlume di appartenenza genealogica: nella morte ci si riunisce ai propri antenati. E se, ahimè, anche la fede in questa appartenenza vacillava, tutto sembrava perduto. Un paio di secoli dopo, Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, ha ripetuto la stessa lamentazione di Boccaccio nel suo stupendo saggio sulla peste di Londra. Insomma, questa irruzione di un evento naturale con un ordine di grandezza oggi difficilmente immaginabile ha costituito la vera caratteristica del Trecento. Ciò dovrebbe portare a chiedersi se molti dei successivi processi di contagio e di illimitazione – penso ad esempio all’invenzione della stampa a metà del Quattrocento o alla conquista del Nuovo mondo –, abbiano un qualche collegamento con l’esperienza fatta all’epoca della peste nera.

 

M.O.: Rinunciamo per un attimo a tornare al presente e, visto che ci troviamo già nel Medioevo, possiamo trovare un’illimitazione sotto forma della storia di Fortunato, in cui abbiamo un’illimitazione contrapposta alla creazione artistica, che porta a una società del gratis [Gratisgesellschaft] dove proprio la fortuna da lotteria [Lottoglück] prende il posto del merito. Come va inquadrato in quel contesto, allora, questo fenomeno che possiamo osservare anche oggi?

 

P.S.: Prima vorrei dire qualcosa sulla peste nera che ha inciso così in profondità nella storia psicologica europea. Egon Friedell ha affermato, a mio avviso giustamente, che la storia moderna va raccontata partendo da quell’evento. È interessante notare che, a parte Boccaccio, non se ne trova quasi alcun cenno nella letteratura dell’epoca. Il trauma era stato così forte che non si riusciva a parlarne. Questo è l’altro aspetto della storia. Oggi sappiamo che il bacillo della peste faceva parte di una strategia di guerra biologica. A quell’epoca un esercito di mongoli o di tartari aveva assediato la città commerciale di Caffa, sul mar Nero, in cui avevano le loro filiali delle imprese commerciali genovesi e di altre parti d’Italia. Servendosi di catapulte, gli assedianti avevano lanciato dei cadaveri morti di peste dentro le mura. Non sappiamo se si trattasse di cadaveri di uomini o di animali; fatto sta che all’interno delle mura di questa città sotto assedio scoppiò un’epidemia di peste durata circa un anno. Questo episodio bellico avvenne nel 1347. Quando, dopo un po’ di tempo, tutti coloro che erano destinati a morire morirono e gli immuni sopravvissero, furono riaperte le vie commerciali. Da questa filiale commerciale sul mar Nero, il bacillo della peste arrivò con le navi al porto di Genova, diffondendosi poi in un tempo incredibilmente breve per tutta la Penisola. Ciò significa che la globalizzazione ha da sempre implicato un aiuto alla capacità di diffusione dei microbi.

 

Del resto, tra il Trecento e il Settecento le autorità europee hanno dato una risposta adeguata a questo problema inventando la quarantena. Essa consiste in un lasso di tempo di quaranta giorni durante il quale i marinai provenienti da regioni sconosciute devono rimanere lontano dai porti europei, fino a quando ci sia il ragionevole sospetto di una malattia contagiosa. Devono aspettare quaranta giorni a bordo, non possono scendere a terra e possono sbarcare in città solo se completamente sani. Il concetto di quarantena è una delle più grandiose trovate della medicina sociale dell’Europa antica o per così dire dell’immunologia sociale, soprattutto se si pensa che all’epoca non si sospettava minimamente dell’esistenza dei microbi. Solo alla metà dell’Ottocento questa nozione è stata scoperta da Pasteur e dalle successive generazioni di medici. I primi osservatori sapevano già dell’esistenza delle malattie da contatto, e la risposta era stata un metodo abbastanza grossolano, ma allo stesso tempo astuto, come la quarantena. Ma veniamo ora alla storia di Fortunato. La cultura medievale si caratterizza essenzialmente per il fatto che gli uomini, sotto l’influsso di un cristianesimo arrivato al potere, dovevano rinunciare al loro intimo rapporto con Fortuna, quindi alla dea della fortuna. Nel Medioevo la posizione di Fortuna era pessima. Volendo dare una definizione, si può affermare che fino a quando Fortuna ebbe una cattiva immagine si era nel Medioevo. Nel concetto di Fortuna rientrava tutto quello che di casuale poteva esserci nella vita. Con il De remediis utriusque fortunae, il Petrarca ha scritto un’opera monumentale nel segno del pensiero medievale. Il titolo viene tradotto, un po’ goffamente, Rimedi all’una e all’altra fortuna, il che non rende a sufficienza il concetto medievale di utriusque fortunae, vale a dire «i due tipi di fortuna» – analogamente a quanto avveniva nelle università medievali, dove si poteva diventare dottore in utriusque iuris, vale a dire in diritto canonico e in diritto civile.

 

Le due dimensioni della sorte, la sfortuna e la fortuna, sono allora riunite nell’unica concezione di Fortuna, e il cristiano deve combattere interiormente contro entrambe poiché, in fondo, si ritiene che un buon cristiano sia anche un buono stoico. Questo è il grande insegnamento del Petrarca. Ma quando Fortuna viene percepita come partner, apportatrice di possibilità, interessante compagna nel nuovo gioco della vita, ci stiamo già muovendo nel campo dell’epoca moderna in senso lato. Credo che questo costituisca il criterio maggiormente valido per poter distinguere la modernità. Allora è stato caricato quell’orologio che continua a battere fino a oggi. Già nel Decamerone di Boccaccio ha inizio questo nuovo istinto per l’unicità delle situazioni e la novella ne costituisce il veicolo appropriato. Da essa scaturiscono addirittura il romanzo inglese, le moderne notizie, come anche la «novella» tedesca, intesa come un avvenimento inaudito: tutto quello che stimola e si rivolge all’intelligenza umana riguardo al fatto che si deve afferrare al volo il destino e che non è più possibile comportarsi in tali circostanze solo con l’antico atteggiamento difensivo stoico-cristiano. Ormai, da quando è iniziata l’epoca moderna, siamo noi stessi a dover entrare in gioco. Anche i giochi con la palla ridiventano popolari all’inizio dell’epoca moderna, poiché la palla – non solo il globo sul quale viviamo, ma la palla con cui giochiamo – è il grande strumento con cui gli uomini moderni si allenano a entrare nella nuova situazione: dobbiamo giocare con quello che gioca con noi. Tra noi possiamo distinguere molto facilmente i progressisti dai conservatori seguendo il criterio dell’atteggiamento interiore nei confronti del gioco con la palla.

 

I conservatori odiano i giochi con la palla. È chiaro, perché se in qualche modo non si vede con precisione arrivare il pallone, non si sa come prenderlo. Soprattutto quello di prenderlo è un gesto indegno: «Non si addice a me e a quello che sono, prendere un pallone. È una cosa forse per bambini o segretarie, ma una persona perbene e nobile come me non si abbassa a prendere un pallone!». Proprio questo è ciò che già allora divideva gli animi, e per tale motivo Machiavelli è stato un pensatore così epocale, in quanto ha detto agli uomini: «Dovete cogliere la palla che vi lancia Fortuna. A tutti voi è data un’unica opportunità. Può darsi che la seconda volta non riusciate a cogliere il lancio di Fortuna». E questo ci porta a un altro tipo di persona, che a differenza dell’uomo medievale non si prepara in continuazione all’eternità, ma si ricolloca nella società cogliendo l’opportunità. Si tratta di tutto un altro genere di persone che da oltre mezzo millennio emergono dall’ombra e occupano la scena. In Germania gli ultimi a non cogliere la palla si sono estinti realmente solo agli inizi del Novecento. Heidegger, ad esempio, era uno che si aggirava ancora tra le valli di montagna e non voleva saperne di cogliere la palla. Tutt’al più si limitava a scivolare giù dai pendii, traducendo per sé in termini filosofici lo sciare. Per lo meno ciò rappresentava già un compromesso con la nuova logica dell’opportunità, ma nel complesso egli aveva ancora un carattere fondamentalmente conservatore.

 

M.Os.: Torniamo ancora a Fortunato e alla questione dell’illimitazione della fortuna da lotteria fino a oggi. Ci ritroviamo fondamentalmente nello Stato del welfare [Wohlfahrtsstaat], ma questa è una conseguenza di molto successiva proveniente dal Medioevo, da questa leggenda di Fortunato, e che arriva fino a oggi. Infatti, sappiamo che attualmente lo Stato del welfare si finanzia al di là del limite delle entrate fiscali. Le richieste e le rivendicazioni che, d’altra parte, mancano del tutto dagli elenchi degli adempimenti e dei doveri, ci portano oggi a perseguire fondamentalmente questo principio di Fortunato, quindi una società del gratis. Potrebbe spiegarci un po’ meglio la cosa?

 

P.S.: Sì. Spostiamoci ora un tantino più avanti nel tempo. Ci troviamo nel Quattrocento e Cinquecento. Fortunato è il titolo di un racconto popolare tedesco, nato dalla penna di un autore anonimo e apparso ad Augusta intorno al 1507/1509. Narra la storia di un uomo dotato di fortuna. Ha tanta fortuna da diventare infelice e alla fine se ne va in convento: è il meraviglioso colpo di scena finale di questo racconto. Come nella storia del Faust, come in altre storie di quest’epoca, prima si fanno infuriare gli eroi e poi nelle ultime pagine li si spedisce in convento o, in alternativa, all’inferno, come nel Faust. In ogni caso, è questo lo spirito del Cinquecento: è stata già data troppa libertà e alla fine bisogna tornare a riflettere su come reprimersi. Stando a questo racconto, Fortunato è il primo europeo a incontrare personalmente madonna Fortuna. Egli è originario di Cipro. L’Unione Europea delle novelle di allora è senz’altro ampia, poiché la strada da Cipro fino alla foresta della Turingia, dove avviene l’incontro con madonna Fortuna, non è certo un problema. Ma il nucleo della questione è che, grazie all’incontro nella foresta, la storia di una favola – che, per così dire, è l’elemento costante della fantasia sociale europea – viene associata direttamente alla storia dell’economia. Madonna Fortuna offre a Fortunato la possibilità di diventare saggio, di poter godere di una lunga vita, della salute e così via. Qui si trova un’allusione alle virtù classiche. Ma Fortuna gli offre anche la ricchezza, che ora per la prima volta viene messa in offerta, e Fortunato non sarebbe figlio dell’epoca moderna se non scegliesse la ricchezza.

 

 

Questa ricchezza gli viene consegnata da madonna Fortuna sotto forma di una borsa, nella quale, ogni volta che la apre, Fortunato trova 40 pezzi d’oro della valuta in vigore nel Paese in cui si trova. Si tratta quindi di un duplice tema magico: in primo luogo ci sono sempre 40 monete – e ciò potrebbe riferirsi al tradimento di Gesù camuffato da favola – e in secondo luogo si tratta sempre di denaro di quel Paese. Se vogliamo, ci troviamo già davanti a una prefigurazione fantastica dell’euro. E il messaggio è molto chiaro. Madonna Fortuna, infatti, dice a Fortunato: «Non ti dovrai mai più preoccupare della provenienza del denaro, poiché viene dalla borsa», in questo caso dal borsellino. A Fortunato non deve interessare il percorso che porta dalla formazione del valore del denaro alla sua borsa. Se iniziasse a farlo, farebbe parte dei perdenti, poiché allora dovrebbe lavorare. Si trova però là dove il denaro c’è già da sempre, e quindi dalla parte di chi lo mette in circolazione. Curiosamente, quasi nello stesso periodo, quindi intorno al 1530, un umanista spagnolo di nome Juan Luis Vives compone a Bruges il primo trattato sulla politica sociale in Europa dal titolo De subventione pauperum. In questo trattato espone l’idea che la società intera, non solo la Caritas ecclesiale, si deve occupare dei poveri. Se si vuole, ciò rappresenta l’atto di nascita dello Stato sociale sotto l’altro suo aspetto e sarebbe interessante elaborare teoreticamente la loro sincronia approssimativa. Da un lato, i compiti e gli scopi dello Stato sono ridefiniti con le motivazioni e le argomentazioni dell’amore cristiano verso il prossimo; dall’altro, invece, ricorrendo alla favola, si rappresenta la moltiplicazione miracolosa del denaro da spendere. Ciò che ci manca ancora è l’anello di congiunzione tra questi due fenomeni, vale a dire una teoria generale sulle tasse. Una teoria del genere gli uomini del Medioevo la possedevano solo allo stato embrionale, poiché le tasse, così come le conosciamo, sono in realtà una creazione dell’assolutismo. 

 

M.O.: Siamo così giunti a toccare un tema prediletto da Sloterdijk: la rivoluzione della mano che dà. Signor Macho, quante sono le probabilità che la generosità prevalga sul sistema fiscale confiscatorio, che in fondo affonda le sue radici nel piccolo principato? Ciò rappresenta forse una delle possibilità di uscire dal sistema in cui ci troviamo oggi? Quante probabilità ci sono, secondo lei?

 

T.M.: Dapprima vorrei dire qualcosa sulla mano che dà e sulla generosità, e così pure sugli uomini che, come Fortunato, hanno avuto la fortuna di riuscire a prendere i palloni giusti. Credo sia importante notare che il dare è stato anche – e non da ultimo – l’invenzione di uomini che volevano procacciarsi influenza e potere. A tal proposito, mi è rimasta impressa una scena de Il padrino. All’inizio del primo film, Vito Corleone, il padrino, interpretato da Marlon Brando, festeggia il matrimonio di sua figlia. E nel corso della festa compare un tale Bonasera a chiedere che, all’occasione opportuna, venga difeso l’onore di sua figlia. Ma il padrino non si sente rispettato, perché si deve confrontare con la richiesta proprio durante una festa di famiglia; controvoglia, detta al servile Bonasera la ricompensa per il suo desiderio di rivalsa: «Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, ti chiederò di ricambiarmi il servizio. Ma fino a quel momento consideralo un dono in occasione delle nozze di mia figlia». La mano che dà, allora, è una mano cosciente della sua forza: «Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare». Tali atteggiamenti fanno riferimento a un potere che nasce dalla capacità di dare, dalla storia dell’evergetismo, la pratica degli antichi romani potenti di dispensare panem et circenses, pane e spettacoli. All’epoca, infatti, chi voleva esercitare il potere politico doveva essere come Fortunato e avere denaro, poiché l’opinione pubblica si aspettava da lui che organizzasse spettacoli e distribuisse pane. Poteva allora accadere che un politico, alla fine del suo mandato, si fosse impoverito a causa delle spese sostenute per quell’ufficio. Non riesco a immaginare che degli Stati oggi possano realmente finanziarsi basandosi sull’evergetismo. Pensate alle sfide attuali della politica, ad esempio confrontandole con le osservazioni fatte dall’etnologo francese Pierre Clastres durante le sue visite a diverse tribù amazzoniche.

 

Clastres assicurava che il capo è riconoscibile sempre per il fatto che è quello vestito più miseramente. Il più potente, infatti, deve intervenire generalmente in favore di quelli meno potenti. Il suo potere può essere misurato e percepito solo da quanto dona ed è disposto a dare. Nel dare, si mostra il volto apparentemente amico del potere. È noto che il sacerdote troiano Laocoonte – il quale aveva messo in guardia dal cavallo di legno con il famoso detto: «Temo i danai anche quando portano doni» – viene ucciso dai serpenti. Anche oggi si dovrebbe richiamare alla memoria il detto del veggente sui danai: i regali, come ad esempio gli aiuti di Stato o i crediti, possono essere cose da temere.

 

M.O.:Signor Sloterdijk, volendo arrivare veramente a una rivoluzione della mano che dà, saremmo poi in grado, al di là del limite imposto dalle entrate fiscali, di soddisfare l’illimitazione di richieste e di rivendicazioni dello Stato sociale nella forma dello Stato del welfare? Non è forse vero che questo Stato sociale ha ancora un altro volto, del tutto diverso? Infatti, è fondamentalmente costretto a progredire. E se non vuole che questo progresso si arresti, deve rispondere all’illimitazione della produzione con l’illimitazione del consumo, mettendo continuamente a disposizione denaro per il con- sumo di massa indotto dal potere di acquisto. Come si può risolvere questo problema?

 

P.S.: Lo Stato moderno ha disposto una specie di generosità obbligatoria dei cittadini ampliando l’obbligo fiscale generale. Ciò è avvenuto soprattutto con l’introduzione del prelievo fiscale progressivo sul reddito come strumento relativamente giovane alla metà dell’Ottocento. All’epoca, sotto la regina Vittoria, gli inglesi hanno introdotto una tassa sul reddito del 3,3 per cento. La regina avvertiva dei forti scrupoli di coscienza in quanto le sembrava di aver esagerato. La cosa appare abbastanza interessante alla luce della situazione odiena. Frattanto è avvenuto che lo Stato non si chiede più se i cittadini vogliono essere generosi o meno. Forse va benissimo così, non si dovrebbe interpretare la questione neanche in modo troppo soggettivo, ma nel caso delle tasse si dovrebbe sempre riflettere sulla loro doppia natura di dovere e di dono volontario. Da un punto di vista morale non è certamente semplice, poiché le tasse sono e restano una faccenda ambigua, che viene sbrigata dai cittadini più con un atteggiamento di rassegnazione che di adempimento volontario. Ma proviamo ora a fare questa speculazione teorica: alla fine dell’anno, dopo aver prelevato loro il denaro sotto forma di tasse, il fisco lascia liberi i cittadini di reclamare indietro il denaro se ritengono di aver dato troppo. A mio avviso, solo allora si verificherebbe il caso serio [Ernstfall] del problema morale delle tasse. Ritengo che la maggioranza delle persone non chiederebbe indietro il denaro, per il timore di compiere un gesto ignobile.

 

Naturalmente c’è gente con l’acqua alla gola, che direbbe di non potersi permettere di essere nobile e di essere quindi costretta a chiederne la restituzione. Ma la maggioranza, se ne avesse la possibilità, temerebbe di più la bassezza di chiedere la restituzione di quanto già versato nella cassa comune. In molti uomini si nasconde una specie di aristocratico bistrattato, represso, sottovalutato e oltraggiato. Di fatto, l’obiettivo della Rivoluzione francese o civile non era affatto quello di arrivare a liberare negli uomini moderni le loro qualità peggiori, ma, al contrario, quello di promuovere l’intera popolazione allo stato dell’aristocrazia. Questo era il suo bel progetto. Anche sotto il profilo psicologico, tale progetto si sarebbe potuto realizzare solo se si fosse riusciti a creare una specie di nuova aristocrazia collettiva mediante un mondo di mezzo della formazione, che effettivamente già esisteva nella borghesia. Questa nuova aristocrazia non doveva rappresentare più, come la vecchia nobiltà, solo l’1,5 per cento della società, ma doveva tendenzialmente abbracciare tutto lo strato superiore della società, che poi con il tempo avrebbe dovuto coinvolgere il resto. In questo processo siamo rimasti sempre un po’ alle fasi iniziali, e anche se in tale campo si è fatto qualcosa, non si è ancora arrivati al suo compimento.

 

Nell’Europa centrale, particolarmente in Germania e Francia, e in Europa settentrionale, la tolleranza della maggioranza delle persone nei confronti delle tasse è senz’altro davvero grande. Anche su scala mondiale si ritiene che la nostra onestà fiscale sia estremamente grande. Sebbene lo sguardo vada sempre agli imbroglioni, agli evasori e a quanti sfuggono, va messo bene in evidenza che il 95 per cento della gente paga le tasse senza alcuna esitazione. Ci si deve rendere conto che, alla fin fine, i bilanci pubblici moderni sono delle gigantesche imprese che organizzano una generosità non dichiarata. Le persone compiono in pratica dei grandi atti di generosità, ma questo non viene loro riconosciuto e in più sono sospettate di condurre una vita cattiva e infame, di essere contro le tasse e quindi contro lo Stato e di non voler dare nulla.

 

M.O.: Nonostante questo, siamo nella situazione in cui, al di là delle entrate fiscali, lo Stato crea un cumulo di debiti che non ha più alcun tipo di relazione con la questione della loro estinzione. Ciò significa che abbiamo quindi un’illimitazione dei debiti che va ben oltre la faccenda tributaria. Da ciò dipende anche il fatto che, in fin dei conti, lo Stato è obbligato a sostenere le cosiddette banche di rilevanza sistemica. È un processo di illimitazione, che frattanto crea banche dell’ira [Zornbänke] di indignazione morale, perché con le entrate fiscali lo Stato non finanzia lo Stato del welfare, ma gli affari speculativi dei mercati finanziari. Che cosa ne pensa, signor Macho?

 

T.M.: Il rapporto tra denaro, spirito e Stato è dominato sempre più dall’interazione tra debiti [Schulden] e colpa [Schuld]. I debiti vanno moralizzati? La lingua tedesca è stata spesso accusata del fatto che, a differenza di altre lingue europee, non distingue chiaramente tra colpa e debiti. In inglese abbiamo debts e in francese dette per esprimere il concetto di debito, mentre per la colpa morale si usa guilt e faute. I due concetti tedeschi sono espressi da parole molto simili e per questo si fa presto a scivolare dai debiti alla colpa, cosa sulla quale, se non altro, si può benissimo basare una campagna elettorale. Ma chiediamoci meglio che cosa sono i debiti. Si tratta di una domanda difficile. Nel concetto di obbligazione, ad esempio, diviene molto chiaro che i debiti implicano e creano dei collegamenti. Colui, quindi, che accetta dei debiti deve fondare un legame sociale. Questo legame si basa sulla fiducia, ed è veramente stupefacente e sbalorditivo vedere quanto l’economia abbia a che fare con la fiducia. Esiste un aneddoto su John Pierpont Morgan, il quale, nel 1907, dovette affrontare una grave crisi bancaria a New York. Egli risolse questa crisi invitando i responsabili a casa sua e promettendo di lasciarli andare solo quando avessero trovato una soluzione al problema.

 

Anche per questo, alcuni anni dopo, quando si doveva trattare della regolamentazione delle banche e dei mercati finanziari, venne invitato a un’audizione al Senato. Gli fu chiesto che cosa, a suo avviso, si sarebbe dovuto fare per creare la fiducia nei servizi bancari. I giudici pensavano ad aspetti come il capi- tale posseduto o altri tipi di garanzia. Morgan rispose che per prima cosa ci vuole del «carattere». I giudici non lo compresero, e lui da parte sua non ne capì il motivo. Carattere: che altro? In ogni caso l’economista ha tentato di portare il problema su di un piano morale, dicendo che senza carattere non c’è fiducia e senza fiducia l’economia non funziona. Si potrebbe dire che ciò era economicamente ingenuo. Ma ci porta a un aspetto che forse non appare immediatamente evidente nelle attuali discussioni su colpa e debiti.

 

P.S.: Vorrei aggiungere qualcosa sul «carattere». Fino al cambio di mentalità capitalistica nel XIX secolo, anche nei Paesi europei tra la maggior parte della gente regnava una profonda sfiducia nei confronti delle banche. Fino a pochi decenni fa, i contadini francesi continuavano a conservare il denaro sotto il materasso, dicendo che non l’avrebbero mai dato a una banca. Quando in Inghilterra si affermò il principio bancario, vigeva un criterio decisivo: l’assoluta affidabilità delle persone che guidavano le banche e alle quali si sarebbe dovuto affidare il proprio denaro. Nel frattempo ci siamo sempre più abituati alla smaterializzazione dei capitali depositati, cosa del tutto ignota agli uomini dell’Ottocento. Si trattava di una prova davvero struggente della loro buona volontà, se consegnavano il proprio tesoro a un banchiere in cambio di un pezzo di carta. Ciò si basa sul fatto che, in determinate circostanze, quel denaro può essere ritirato. Nel frattempo ci siamo così immersi nella smaterializzazione del denaro da non riuscire più a immaginare questi processi in modo sufficientemente concreto. Nel 1873 l’economista Walter Bagehot ha scritto un libro, Lombard Street, ancora oggi fondamentale se si vuole comprendere il mondo delle banche e delle banche centrali. Porta questo titolo poiché nell’Ottocento Lombard Street era ciò che nel Novecento è diventata Wall Street. Leggendo il libro, risalta il lungo capitolo sul ruolo chiave della fiducia e della forza di carattere dei banchieri. Tutta l’economia a quel tempo era in fin dei conti un’economia basata sulla fiducia. Quello che oggi chiamiamo volatilità e instabilità dei mercati dipende dal fatto che, nel frattempo, le fondamenta della fiducia su cui si basa l’economia sono state talmente scosse che, in fondo, possono fare veri affari solo coloro che sono disposti anche a perdere. Il cosiddetto capitale speculativo e gli speculatori sono quelli che non partono dalla fiducia ma dalla possibilità di guadagnare: sono dei veri e propri giocatori. La progressiva trasformazione dell’economia basata sulla fiducia in un’economia da giocatori, che comprende un adattamento psicosociale di tutte le società, costituisce una parte del dramma che stiamo vivendo oggi.

 

Da Peter Sloterdijk, Thomas Macho, Il Dio visibile, EDB, 2016.

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