Adelphi ristampa il libro più noto di Carlo Ginzburg / Il formaggio e i vermi

28 Novembre 2019

“In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto ‘le gesta dei Re’. Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. ‘Chi costruì Tebe dalle sette porte?’ chiedeva già il ‘lettore operaio’ di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso.”

Il formaggio e i vermi, oggi riproposto in una nuova edizione da Adelphi, uscì nel 1976, e nel primo paragrafo della prefazione, che ho copiato interamente, Carlo Ginzburg sintetizza l’essenza del libro. Che raccoglie gli umori di un clima culturale e politico, quello degli anni ’70, di cui forse si conserva memoria parziale se non macchiettistica. Ne parla anche Ginzburg nella nuova postfazione. Superati quasi completamente gli schemi ideologici attivi fino a pochi anni prima, messi a nudo come quelli degli avversari, questi movimenti poliformi entravano in contatto con studiosi (allora chiamati ancora intellettuali) non più e non solo attraverso appelli e firme, ma attraverso le loro opere, facendo propria anche una particolare filosofia della storia. Che a sua volta aveva numerosi punti di contatto con altre discipline, prima tra tutte l’antropologia culturale, allora molto letta: il collante metodologico era decisamente lo strutturalismo, di certo più frequentato e adoperato, anche se inconsapevolmente, di qualunque altro strumento critico. Si consideri che all’epoca le categorie merceologiche più desiderate (e rubate) erano dischi e libri. Il primo libro di Carlo Ginzburg si intitolava I benandanti (una sorta di setta religiosa attiva in Friuli nel sedicesimo secolo) e Gianni Celati lo consigliava a tutti. Questo per esemplificare l’accenno alle connessioni: letteratura, poesia, psicanalisi. Gli studenti che leggevano Il formaggio e i vermi, avevano in casa i libri di Foucault, di Levi-Strauss e spesso di Lacan, di Althusser e Barthes. 

 

La citazione di Céline posta come esergo dialoga sia con il clima culturale del momento che con il libro stesso: “Tout ce qui est intéressant se passe dans l’ombre… On ne sait rien de la véritable histoire des hommes”. Céline, soprattutto con il suo Voyage, era presente in tutte le biblioteche giovanili. Con questi continui collocamenti temporali dell’opera di Carlo Ginzburg non voglio affatto coinvolgerlo in un disegno politico o culturale che sovrasti la sua specificità: stiamo rileggendo un importante libro di storia, rigoroso come dev’essere un libro lungamente pensato. Che ha lasciato una traccia profonda nei suoi lettori e tra gli storici. La scrittura di Ginzburg non concede quasi niente alle mode formali dell’epoca, e non è affatto datata o databile. Pochi narratori di professione possono vantare la stessa tenuta. In realtà il Céline posto in esergo è molto poco ex ergon, anzi al contrario dichiara un tema fondamentale del libro: l’impossibilità stessa di scriverlo. Come raccontare la storia degli schiavi? Degli sconfitti. Dei cancellati. Degli oppressi. Dei perseguitati. Come raccontare storie se delle loro storie non resta che una traccia statistica o semplicemente numerica? Semplificando forse troppo si potrebbe dire che Ginzburg dà una risposta più da filologo che da filosofo della storia, fatto che non deve certo sorprendere in uno studioso del ‘500, uno dei secoli più affascinanti e contraddittori della storia umana. La diffusione di libri e opuscoli stampati, lo sviluppo del ragionamento scientifico e il persistere di strutture culturali ancora medioevali (non sempre e soltanto negative), Montaigne, Keplero, Leonardo, Michelangelo, Machiavelli e Galileo, il gusto profondo per l’antichità finalmente accessibile attraverso traduzioni di opere fino a quel momento sconosciute. 

 

La storia scoperta da Ginzburg negli archivi del Sant’Uffizio è insolita, come ammette lo stesso autore, perché è la storia di un mugnaio friulano processato e condannato a morte per eresia che dimostrava una cultura superiore a quella della sua classe. Cultura che non coincideva affatto con i severi dettami della Chiesa, che all’epoca provvedeva semplicemente all’eliminazione dell’eretico. Il malcapitato si chiamava Domenico Scandella, detto e noto come Menocchio, denunciato al Sant’Uffizio nel 1583 per aver pronunciato parole “ereticali e empissime” su Cristo. La tortura processuale durerà quindici anni. Verranno interrogati tutti i conoscenti, e soprattutto lui verrà interrogato e controinterrogato all’infinito. Menocchio si presenterà sin dalla prima udienza interamente vestito di bianco, insomma nella sua divisa di mugnaio, anche se la sua capacità di ragionare, unita al saper leggere e scrivere, gli aveva fatto guadagnare anche incarichi di qualche prestigio nel suo circondario: era stato amministratore della pieve di Montereale, e anche podestà del paese. Purtroppo per lui aveva un grande difetto: la parlantina facile. Era il tipo che si proponeva ogni volta di tacere e esser prudente ma quando la lingua gli si scioglieva le sparava anche grosse, a impronta, e il popolino ne conservava memoria.

 

Il Friuli dell’epoca non conosceva i grandi fermenti che si agitavano altrove: a una antica e decadente nobiltà medioevale si contrapponeva la discreta ma occhiuta presenza della Serenissima, in odore essa stessa di eresia luterana e irresistibile richiamo per le manovalanze friulane che a Venezia migravano in massa. I guai per Menocchio nascono certamente dal conflitto, direi manzoniano, con un signorotto locale, il pievano di Montereale, don Oderico Vorai. Più che a un contrasto teologico certe testimonianze processuali fanno pensare a un conflitto di classe. Un testimone, ricordando le discussioni con lui, lo aveva messo in guardia: “Io son calligaro, et ti molenaro, et tu non sei dotto: a che far disputtar di questo?” Ma cosa aveva detto Menocchio di così grave? Prima di tutto le testimonianze lo dicono grande bestemmiatore, e lui ridacchiando si giustificava così: “Ognuno fal il suo mestier, chi arrar, chi grapar, et io fazzo il mi mestier di biastemar”. Al di là di vanterie e battute provocatorie il suo modo di pensare, riferito da molti chissà con quante deformazioni, si può esemplificare in pochi chiarissimi esempi. “Che vi maginate che sia Dio? Iddio non è altro che può de fiato, et quello tanto che l’homo se immagina… Tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei.” E ancora: “’l cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Dio.” Non poteva mancare un classico dello scetticismo di ogni tempo: “che credevù, che Giesù Christo sia nasciuto della vergine Maria? Non è possibile che l’habbia parturito et sia restata vergine: puol ben esser questo, che sia stato qualche homo da bene, o figliol di qualche homo da bene.”

 

 

Quasi mezzo secolo più tardi, e con ben altro spessore intellettuale, Galilei risponderà in modo assai diverso allo stesso tribunale. Pur pensandolo certamente non credo abbia sussurrato “E pur si muove”. Menocchio ha un buon avvocato, che non gli risparmia buoni consigli, tutti riassumibili nel principale: ammetti il peccato e chiedi perdono, e soprattutto non lasciarti prendere dalla parlantina. Tutta qui la rovina di Menocchio: l’impertinenza gli sfugge in modo naturale, come se il tribunale fosse davvero tribuna aperta sul mondo intero. Sì, ammette le tentazioni demoniache che si impadronivano della sua lingua, ma se gli viene chiesto il dettaglio lui si allarga a macchia d’olio. “Volete che vi insegni la vera strada?” si era vantato in pubblico. “Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era anche Dio creato anchora lui da quella massa”. Spiattellata la sua personalissima cosmogonia, in cui l’universo si formava come un formaggio producente angeli e vermi, Menocchio sembra non avere più freni. Quando gli contestano una nuova affermazione blasfema lui la riconosce come sua, ammette il peccato e lo spirito demoniaco, ma la narrazione del peccato sembra un’ulteriore conferma delle sue opinioni.

 

Tra l’altro gli chiedono se corrispondono al vero altre vanterie: testimoni riferiscono che avrebbe detto di non temere il giudizio di nessun tribunale. E lui: “è vero che io ho detto che se non havesse havuto paura della giustizia parlarebbe tanto che farebbe stupire; et ho ditto che se havessi gratia di andar avanti o il papa o un re o un principe che mi ascoltasse, haverei ditto molte cose; et se poi m’avessero fatto morir non mi sarei curato.” In fondo Menocchio non si era vantato a sproposito: si comporta esattamente come aveva annunciato. Parla, parla troppo, e troppo chiaramente, annullando le inutili appiccicaticce richieste di pietà e misericordia. La sua voce, così come viene trascritta nei verbali, appare veritiera. I frati che lo giudicano hanno in fondo tutto l’interesse a lasciarlo parlare a ruota libera, e non c’è dubbio che quella trascritta sia davvero la sua voce. E questa voce spazia per ampi territori, ingrossando poco alla volta la pira che lo brucerà. Parla di soldi, di potere, parla della Chiesa. “Et mi par che in questa nostra lege il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de chiesa et preti, e strussiano li poveri, quali se hanno doi campi a fitto sono della chiesa, del tal vescovo, del tal cardinale.” La Chiesa e gran parte della sua dottrina non è altro che “mercantia”, una messa in scena per creduloni. Mentre Dio non può che essere lo stesso per tutte le religioni. “La maestà di Dio ha dato il Spirito Santo a tutti: a christiani, a eretici, a Turchi, a Giudei…” E per essere ancora più chiaro si rivolge direttamente ai presenti: “Et vui altri preti e frati, anchora vui volete saper più de Dio, et sette come il demonio, et volete farvi dei in terra, et saper come Iddio a guisa del demonio: et chi più pensa di saper, manco sa.”

È difficile non restare affascinati da questa voce, coraggiosa o incosciente che sia, impossibile non lasciarla parlare, anche perché si spiega benissimo da sé.

 

Di questa sensazione, peraltro documentatissima, si serve Carlo Ginzburg in altra parte del libro, per spiegare la differenza tra la vicenda di Menocchio e quella di Pierre Rivière raccontata da Foucault. Due processi che si svolgono in epoche completamente diverse, originati da colpe assai diverse: Pierre è un giovane pluriomicida che ha sterminato mezza famiglia, in bilico tra criminalità e psichiatria forense. Ma Pierre è descritto dall’esterno, resta un mistero anche a se stesso; mentre Menocchio esce dal buio della storia e prende la parola direttamente, a volte deragliando in fantasie teologiche popolari, a volte stupendoci per la sua lucida capacità d’analisi. Ci dà molti elementi, certo non tutti quelli che vorremmo, per cercare di ricostruire il suo vero pensiero, e ci spinge a trovare un contesto che quel pensiero deve aver suscitato, non essendo di sicuro spuntato dal nulla. Ci sono echi di tutto, dalla Riforma luterana all’anabattismo, ma non ci sono riscontri diretti negli interrogatori e nelle testimonianze. Soltanto una Bibbia tradotta in volgare, e pochi altri libri, peraltro tutti analizzati da Ginzburg alla ricerca di assonanze, che a volte ci sono a volte non ci sono.

 

Esemplare l’analisi di uno di questi testi sequestrati, e sicuramente letti da Menocchio: Il cavalier Zuanne de Mandevilla, meglio conosciuto come I viaggi di sir John Mandeville. Testo ben noto al contemporaneo Montaigne, che non ne rimase meno colpito, e anche a Leonardo, che lo citò per stigmatizzare la crudeltà dell’uomo. In questi viaggi reali e immaginari un Sultano così descrive il comportamento dei cristiani: “elli doverebbono dare exemplo de ben far alla commune gente, doverebbono andare a li templi a servire a Dio, et elli vanno tutto el giorno per le taverne zogando, bevendo e manzando come le bestie. (…) Sono tutti inclinati al mal fare, et tanto sono cupidi, avari, che per poco argento e’ li vendono li fioli, le sorelle e lor proprie mogliere per fare meretrice…” Indimenticabile il fantasioso e raccapricciante capitolo su pigmei e antropofagi, ma la grande lezione, davvero rivoluzionaria, è questa: non siamo soltanto noi che guardiamo gli altri, gli sconosciuti, i diversi, ma sono loro che ci guardano. Dalla lettura di questo libro Menocchio deduce che “morto il corpo morisse anco l’anima”. La corruzione del clero (la stessa peraltro che lo stava giudicando) l’aveva ampiamente verificata sulla sua pelle. Le esperienze personali, le ingiustizie subite, gli hanno insegnato a ragionare con la sua testa in modo personalissimo (la cosmogonia del formaggio è troppo originale per non essere sua) ma un ambiente con cui erano in sintonia doveva esserci per forza, come si è visto nel contatto con i Viaggi di Mandeville. Certe sue critiche ai fondamenti della religione si ritroveranno quasi identiche tre, quattro secoli più tardi, in veri e propri filosofi. Ginzburg sottolinea l’importanza di questo atteggiamento mentale fatto di tolleranza e di curiosità positiva verso l’altro: il Dio di Menocchio “non odia creatura che el habia fato”. Un altro testo elaborato a suo modo da Menocchio è il Decameron, di Boccaccio, letto in edizione non purgata dal sant’Uffizio.

 

In lui cultura orale e cultura alta, scritta, si fondono in una miscela esplosiva, che oggi ci appare come puro buon senso. Se nel primo grande processo notiamo un Menocchio provocatorio, insieme spavaldo e timoroso, confuso, nel secondo le parti si invertono: Menocchio è l’uomo moderno che cerca di parlare ragionevolmente con i suoi interlocutori, che appaiono in tutta la loro (violenta) mediocrità intellettuale. Studiando i meccanismi della memoria i neuroscienziati hanno scoperto che non esistono soltanto dei luoghi (dei depositi) specializzati, ma che le informazioni sono disseminate quasi ovunque nella corteccia. Mi è venuto in mente rileggendo questo libro. Forse le idee sono disseminate ovunque, in ogni strato della società, e pur sembrando isolate trovano o inaugurano sempre nuove connessioni. Gli anni che sono passati dalla prima edizione del libro sono un buon filtro per rileggere, nel mio caso con immutato piacere, Il formaggio e i vermi. Ora una valutazione metodologica è forse possibile, ma non spetta certo al recensore un compito del genere. La testimonianza di Menocchio apre una fessura nel silenzio degli ultimi? Cosa ci raccontano la dignità e la pulizia dei suoi ragionamenti nati proprio nella sua testa, come ammette in più occasioni lui stesso? Lo stesso storico sembra abbandonarsi a questa voce, che a tratti quasi lo sovrasta, sorprendendolo. In realtà non si limita a seguirla. La contestualizza anche attraverso le poche letture che gli può attribuire con certezza, ne segue le diramazioni e quando è il caso ne sottolinea l’acume. Menocchio è esistito, era un individuo vero e con la sua individualità ora fa parte della Storia. Non è soltanto un importante libro di storia, Il formaggio e i vermi, ma anche una lezione di stile.

 

Altre letture: Quodlibet ha appena ripubblicato Occhiacci di legno, dieci saggi sulla distanza, di Carlo Ginzburg. Contiene un testo inedito: Schemi, preconcetti, esperimenti a doppio cieco. Riflessioni di uno storico.

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