Speciale

La comunicazione visiva, per il cambiamento

25 Settembre 2015

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All’ultima Biennale Dak’Art, nel 2014, abbiamo incontrato questa giovane donna dallo sguardo fermo e determinato, il modo di fare sicuro e un’energia contagiosa, che ti fa venire voglia di abbandonare quello che stai facendo per metterti a marciare in nome della sua causa. Si chiama Aida Muluneh. Ha un sorriso irresistibile. Fotografa di talento, attivista culturale, donna d’affari, madre, è soprattutto uno straordinario essere umano. Ogni giorno, ad Addis Abeba, la sua città natale, fa qualcosa di molto importante: riunisce intorno a sé una comunità, stimola i giovani talenti creativi, li ispira con il suo lavoro e, mattone su mattone, cerca di costruire una nuova immagine dell’Etiopia attraverso la cultura, l’arte e l’educazione.

L’opera presentata da Aida Muluneh per la mostra The Divine Comedy, curata da Simon Njami, è diventata l’immagine simbolo dell’intera mostra, e il suo lavoro viene esposto regolarmente in numerosi appuntamenti internazionali. La sua iniziativa più recente è stata portare dieci artisti etiopi al Photoville Festival che si è appena concluso a New York City.

 

Aida è per noi una fonte di ispirazione da condividere. Di seguito la storia del suo cammino quotidiano verso il cambiamento.

 

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Aida Muluneh. Fotografia di Samuel Taye

 

 

La comunicazione visiva, per il cambiamento

Aida Muluneh

 

Il ritorno nel luogo in cui si è nati spesso è pervaso dalla ricerca di qualcosa di familiare, dalla ricerca di un nuovo punto di contatto con un ricordo sbiadito e, soprattutto, dalla ricerca di un’appartenenza. Chi, come me, ha lasciato il proprio paese in tenera età, non importa per quali circostanze, spesso ha la sensazione che non apparterrà mai a nessun luogo. La nostra identità rimane legata a un posto lontano, che immaginiamo attraverso le storie dei nostri genitori, storie di un’epoca e di un paese in continua trasformazione. Per quel che mi riguarda, ho trascorso la maggior parte della mia vita come di passaggio, senza appartenere mai a nessun luogo e senza riuscire a integrarmi con quello che avevo intorno. L’elemento costante dei miei viaggi è stata la fierezza di mia madre nell’essere etiope. Il fatto che io sappia parlare l’amarico, la mia lingua di origine, pur essendo partita quando avevo cinque anni, è stato il suo dono più grande. “Non sappiamo quando l’Etiopia ti chiamerà indietro ma, quando succederà, conoscere l’amarico sarà il tuo punto di forza”, mi ha sempre ripetuto. Non immaginavo quanto avesse ragione. La mia storia non è solo la storia di un viaggio, è la storia di un viaggio visivo da cui ho tratto insegnamenti fondamentali.

 

Nel 2007, dopo la Biennale di Bamako, avevo deciso di trascorrere tre mesi in Etiopia, e a otto anni di distanza sono ancora qui, come un’anomalia. Un artista, qui ad Addis Abeba, proprio di recente mi ha fatto notare che solo raramente le persone che tornano rimangono per sempre, soprattutto perché si trovano a dover affrontare sfide molto scoraggianti. Devi procedere, ogni giorno, cercando di trovare intorno a te possibilità nuove e di accrescere le tue forze a ogni vittoria. In un certo senso si diventa degli intrusi, con lo sguardo rivolto ora all’interno, ora all’esterno, sempre alla ricerca di un’opportunità per trasformare quello che ti circonda. Di me è stato detto spesso che sono ambiziosa, o idealista: è che non posso pensare al domani senza ottimismo o senza avere fiducia nell’idea che smettendo di sognare ci si arena in una condizione stagnante, nell’appagamento che deriva dalla mancanza di uno scopo. Quando ero agli inizi mi è stato insegnato che dovevo lavorare duramente per superare sempre le aspettative, qualsiasi cosa decidessi di fare della mia vita. Perciò, arrivando ad Addis Abeba, mi sono data l’obiettivo di trasformare il modo in cui il resto del mondo percepisce la società etiope e, cosa ancora più importante, di condividere con gli altri fotografi etiopi gli strumenti per superare le attese del mercato globale riguardo alla ricchezza del nostro patrimonio visivo.

 

Il primo anno qui è stato forse il più impegnativo. Le difficoltà maggiori avevano a che fare con la necessità del mio corpo di abituarsi all’aria, all’altitudine, al cibo, e con gli ostacoli rappresentati dal trovarmi in un luogo che doveva essere la mia casa, ma in cui ero priva del mio sistema di sostegno, che avevo lasciato dietro di me in occidente. A complicare ulteriormente quell’anno di assestamento si aggiungeva il fatto che avevo dovuto lasciare in occidente anche il mio primo figlio. Ma ognuno di noi, all’inizio di un viaggio, deve decidere quali rischi valga la pena di correre per seguire un destino che in alcuni momenti mette alla prova persino la nostra salute mentale. Nel mio caso, volevo condurre un’esistenza che avesse uno scopo. E questo scopo era di trasformare, attraverso la fotografia, il modo in cui gli etiopi si vedono l’un l’altro e il modo in cui veniamo visti dal mondo.

 

Nel 2008 ho iniziato a insegnare fotografia a un gruppo di artisti attraverso piccoli workshop all’Università di Addis Abeba. L’obiettivo principale era mostrare che la fotografia e l’arte sono intimamente legate e che, pur servendosi di strumenti diversi, si fondano sugli stessi principi. A partire dal 2009, con la mia società, Desta for Africa (DFA), abbiamo ospitato e continuiamo a ospitare numerosi workshop, e stiamo lavorando per mettere in piedi un istituto. I workshop sono serviti per trasmettere agli allievi conoscenze che riguardano non solo la fotografia ma anche gli strumenti per costruire il programma di una piattaforma sostenibile. Il punto fondamentale di ogni workshop è che se vogliamo cambiare il modo in cui il mondo ci vede dobbiamo per prima cosa istituire un linguaggio visivo che ci appartenga: con profondità, maestria e, soprattutto, raccontando la nostra storia in prima persona.

 

Girma Berta, Una delle più antiche pasticcerie di Addis Abeba. Girma Berta è uno dei fotografi che hanno partecipato al Photoville Festival di New York City, 2015

 

Ma per coinvolgere e ispirare il pubblico etiope non era sufficiente insegnare fotografia. Così, nel 2010, ho lanciato Addis Foto Fest, il primo festival internazionale dell’Africa orientale a presentare collezioni da ogni parte del mondo, con letture di portfolio, proiezioni e conferenze. Si è trattato di un evento che ha davvero messo alla prova le mie forze, ma ad ogni edizione ci siamo sforzati di migliorare e affrontare le sfide. Vivere e lavorare in Etiopia mi ha insegnato bene il valore della perseveranza e, in quanto paese africano con la crescita economica più rapida, dobbiamo fare la nostra parte. In questo senso, esprimo spesso l’idea che la cultura dovrebbe essere parte integrante dello sviluppo come lo sono le infrastrutture, l’educazione e la salute. Il mio obiettivo era organizzare un evento culturale che avesse un impatto sulla popolazione, testimone degli attuali cambiamenti del paese. Per questa ragione il programma dell’ultima edizione contava 90 artisti da 36 paesi, uniti dalla filosofia che attraverso la fotografia possiamo tutti imparare qualcosa gli uni dagli altri. Creare collaborazioni internazionali, come l’esposizione di dieci fotografi originari dell’Etiopia al Photoville di New York, ci ha anche permesso di accrescere la nostra visibilità sul mercato occidentale.

  

Attraverso ogni incontro, avvenuto per lavorare a produzioni creative, DFA è stata, in un certo senso, come un Ph.D. di vita, pieno di passione ed eccitazione ma anche di esami da superare. Non sarebbe stato possibile senza la mia ottima squadra. Nel corso degli ultimi cinque anni abbiamo lavorato nella formazione, nella documentazione, a progetti di libri, mostre e all’organizzazione di eventi culturali per numerose ambasciate e istituti internazionali, sempre con la consapevolezza che l’Etiopia sta cambiando, che l’Africa sta cambiando, e che il mondo le sta guardando. Questo significa che la nuova generazione è la luce che ci guiderà verso un futuro capace di riflettere le nostre ambizioni. Non solo per chi si trova in Etiopia, ma per l’intero continente africano. Aspiriamo a raggiungere questo obiettivo creando un nuovo linguaggio visivo e lavorando attraverso la comunicazione visiva per produrre un cambiamento.

 

 

Traduzione a cura di Caterina Grimaldi

 

 

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