During the night a Vienna / La paura del bianco: Edmund de Waal

5 Novembre 2016

Si è aperta l'11 ottobre al Kunsthistorisches Museum di Vienna la mostra di Edmund de Waal During the night; l'artista inglese vi espone una raccolta di oggetti provenienti dalle varie collezioni del museo, dai suoi depositi e da altri musei austriaci, secondo il modulo, inaugurato in una mostra del 2012 di Ed Ruscha, The Ancients Stole All Our Great Ideas. Convinto che gli antichi abbiano già detto e fatto tutto, il pittore pop e fotografo statunitense ha inventato un nuovo criterio espositivo: raccoglie opere d'arte, disseminate nella città o nascoste nei sotterranei del museo in cui espone, legandole con un tema, e il modello sembra aver avuto fortuna (si pensi alla mostra che Francesco Vezzoli ha organizzato al Museion di Bolzano).

 

Albrecht Dürer, Traumgesicht (1525). 

 

La scelta di de Waal parte da un acquerello di Albrecht Dürer, che raffigura un sogno, l'incubo dell'ultima notte, un dipinto scovato in un libro della collezione della Kunstkammer del museo viennese, e procede con una serie di opere – quadri e manufatti – secondo il filo conduttore dell'ansia, della paura, dell'angoscia di fronte all'ignoto della notte, del buio, del nero. Nel Ritratto di una dama di Lucas Cranach il giovane (1564) compare un'ombra scura e inquietante dietro la figura femminile, i coralli del Cinquecento si ramificano su fondo nero, un diavolo nero è intrappolato nel vetro, minacciosi dragoni sono dipinti su vasi orientali, strane maschere di ferro ci guardano senza vedere. Sogno, incubo, dissonanza e inquietudine: ma Edmund de Waal non era il ceramista del vasellame bianco o, comunque, il produttore di file e file di vasetti di porcellana tra il grigio e l'acquamarina? L'autore della storia della porcellana bianca e dei netsuke, i piccoli capolavori giapponesi di madreperla, avorio e ambra?

 

Hare with Amber Eyes, netsuke. 

 

La minuscola lepre d'avorio con gli occhi d'ambra c'è, esposta in una teca all'inizio della mostra, e l'autore la considera una sorta di portafortuna, siede là fuori e lo fa sentire sicuro: si tratta di uno dei 264 netsuke protagonisti del libro che lo ha reso famoso, Un'eredità di avorio e ambra, tradotto in italiano da Carlo Prosperi per Bollati Boringhieri nel 2010. È la storia avvincente di una collezione di queste sculture tradizionali giapponesi, in avorio e legno, che rappresentano animali, bambini, uomini o donne, scenette erotiche e che servivano come fermagli per legare alla cintura dei kimono alcuni piccoli contenitori per le medicine, il tabacco o la pipa. La storia della collezione diventa nel libro la storia degli antenati dello scrittore, la storia della famiglia degli Ephrussi, originaria di Odessa e diventata emblema della ricchezza ebraica, ammirata, invidiata e odiata, come nel racconto di Joseph Roth, La tela di ragno, nel quale Efrussi è il cognome della famiglia ebraica amata e detestata, ossessione del protagonista del profetico romanzo.

 

La vicenda – riassunta più volte nelle molte recensioni che la stampa le ha dedicato – inizia a Parigi nel 1871, in rue de Monceau 81: Charles Ephrussi acquista dall'antiquario Sichel la collezione dei netsuke, li sistema in una vetrina dalla quale dialogano con i colori dei quadri di Pizzarro, Sisley, Monet, Morisot e Manet, armonie e dissonanze che coinvolgono una poltrona gialla, molto gialla, come l'autore racconta con simpatia e ammirazione. L'interesse di de Waal è molteplice: Charles – modello del personaggio Swann di Proust – è uno studioso di arte, ha scritto un libro sui disegni di Dürer, condivide con la sua amante Louise l'intuito, l'immediata reazione di fronte all'oggetto artistico – così scrive l'autore –, la capacità di cogliere in questi piccoli oggetti con l'«innocenza sensoriale» del tatto (p. 65) la loro particolarità: l'essere fatti di un materiale durissimo che dà però una sensazione di morbidezza. Non solo: oltre a essere incantevoli e tattili, hanno la caratteristica della leggerezza, «creano occasioni sempre nuove per una risata, perché sono arguti e licenziosi, nascondono una sottile vena comica» (p. 82).

 

De Waal è però attirato anche dalla vetrina, dalla bacheca: lo ripete più volte e ne ha fatto un tema di fondo per il suo lavoro artistico. A un certo punto annota: interessanti non sono le collezioni statiche, come quelle di Cernuschi, l'amico di Charles, che ha esposto la sua preziosa collezione di arte giapponese su uno sfondo di pareti volutamente bianche; la stanza di Charles è invece piena di colori, «è una soglia» (p. 81). Forse qui de Waal sfida se stesso e le sue bacheche monocromatiche, nelle quali impila ciotole di porcellana bianca e dai colori delicati.

 

La storia prosegue con le peregrinazioni dei netsuke che vengono regalati alla coppia Victor Ephrussi ed Emmy, accolti quindi nel lussuoso e quasi regale palazzo all'angolo tra il Ring e la Schottengasse. Nascosti ai nazisti dalla cameriera Anna, ritornano alla famiglia e al Giappone nelle mani di Iggie, il fratello di Elisabeth, nonna del nostro «vasaio», ultimo erede. Una «biografia di cose», dunque, come ha scritto Remo Ceserani nella recensione apparsa su "il manifesto" nel settembre del 2011, cose proprio nel senso di Rilke, destinatario di lettere e poesie che Elisabeth gli manda senza mai incontrare il poeta.

 

Ma la vetrina dei netsuke in casa di Edmund de Waal fa parte anche di un'altra storia: la passione per la vetrina, per la Wunderkammer, è all'origine del nuovo libro, La strada bianca. Storia di una passione, anche questo tradotto da Carlo Prosperi per Bollati Boringheri questo settembre 2016. Di nuovo una storia di cose, di oggetti, e di un colore, il bianco. Le tappe ricostruiscono la storia della porcellana in cinque montagne bianche: Gaoling (collina alta), la montagna cinese da cui proviene il caolino che, mischiato alla pietra del pe-tun-tse e cotto a temperatura altissima nei forni di Jingdezhen, produce la porcellana fin dai tempi antichi; Meissen e la scoperta di Tschirnhaus e Böttger al servizio di Augusto il Forte; Tregonning Hill in Cornovaglia e le ricerche di Cookworthy e Wedgwood, sempre nel Settecento; Ayoree e l'argilla degli indiani sfruttata da Wedgwood e, infine, Allach, la fabbrica di porcellana lavorata dai prigionieri di Dachau e la distruzione di Jingdezhen da parte dei maoisti (cfr. la recensione di Marco Carminati, Strade e storie di porcellana, "Il Sole 24 Ore", domenica 25 settembre 2016). 

 

De Waal cita Marco Polo, la festa bianca del Gran Can, i racconti minuziosi del gesuita François Xavier d'Entrecolles, i testi di Swedenborg tradotti da Cookworthy.  È affascinato, ossessionato dal bianco, dalle sue infinite sfumature: «il bianco – scrive – è anche la mia storia» (p. 20). Il bianco orientale viene descritto – forse troppo sbrigativamente – come il bianco di un cumulo di neve, come il bianco del latte (p. 90). Esso diventa il bianco della meditazione e della trascendenza, è il bianco traslucido della porcellana che lascia passare la luce. È anche però il colore dell'assenza: «in Cina il bianco è il colore del lutto. Vestirsi di bianco comunica la propria perdita agli altri, tiene a distanza il mondo» (p. 94). È il bianco della pagoda bianca, fatta costruire a Nanchino dall'imperatore Youngle nel XIV secolo e distrutta nella rivolta dei Taiping, la più complessa costruzione in porcellana mai edificata, che segna, secondo l'autore, il chiudersi in un lutto senza confini.

 

Sul finire del XVI secolo viene usata la parola timbai, bianco dolce, bianco zucchero. Per le porcellane giapponesi, nelle quali l'argilla è più calda, de Waal preferisce usare l'espressione bianco latte, più che bianco osso, come scrive (p. 163). Per il bianco della roccia di Cornovaglia il bianco deriva dalla pietra saponaria, dalla steatite: bianco lardo, dunque, alla base della ceramica inglese, bianco panna, tendente all'avorio (p. 276). Bianco marmo è invece il bianco del nazismo (p. 364), il bianco della porcellana bianca che la ditta Eschenbach continua a produrre anche dopo la fine della guerra, dal 1947, cancellando le rune delle SS che, a loro volta, avevano sostituito le due spade di Meissen. Ma il bianco – scrive ancora – è anche il colore del fumo, del narciso, della pagina bianca (p. 396). «Come è possibile fare cose bianche?» chiede qualcuno a de Waal in occasione dell'inaugurazione della mostra On White, nella quale il vasaio usa tutte le sfumature del bianco. «Il bianco –

 risponde – è un modo di ricominciare daccapo» (p. 397).

 

La nuova mostra però ritorna al tema della vetrina, della Wunderkammer, del collezionismo, una passione che de Waal non vorrebbe condividere con Utz, il protagonista del racconto di Chatwin, collezionista maniacale di porcellane. Certo la passione per la collezione ricompare sempre di nuovo negli scritti e viene tematizzata nell'opera dell'artista con riferimenti espliciti a Walter Benjamin. Un oggetto, collocato in una collezione – scriveva il filosofo –, ha perso il suo valore funzionale, è entrato in una sfera magica, ma può essere rigenerato, come capita nel collezionare dei bambini. De Waal vorrebbe fare questo, con le sue porcellane scure allineate nella vetrina nera, con gli oggetti del museo ricollocati per richiamare l'ansia e la paura. E la paura non è solo paura della notte e del nero, ma continua a essere anche paura del bianco: il bianco di un teschio avorio, roso da vermi bianchi, di un Memento mori del Seicento, esposto nella mostra viennese. Non c'è poi da stupirsi dell'interesse verso il pittore fiammingo Joachim Patinir: le sue montagne, come nel noto San Girolamo in un paesaggio roccioso (1524), sono appunto montagne bianche, gelide montagne di ghiaccio, una nuova tappa della storia del bianco. 

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