Oggi la lettura al Circolo dei Lettori di Torino / La pesca del giorno

3 Dicembre 2021

Isola di Lesbo, un misterioso viaggiatore incontra un pescatore scoprendo che sul suo bancone sono in vendita corpi umani. Il mercato è fiorente, ne nasce un dialogo scabroso e surreale. Il testo di Éric Fottorino, inedito in Italia, è parte di una pièce che verrà letta a Circolo dei lettori di Torino, venerdì 3 dicembre alle ore 21. Seguirà l’incontro dell’autore con Mario Calabresi e con Cesare Martinetti, autore della traduzione.

 

***

 

È l’ultimo arrivo?

 

La pesca del mattino

 

Lontano?

 

Davanti a Lesbo. Proprio di fronte alle coste della Turchia. Bastava sporgersi per acchiapparli.

 

Cosa c’è?

 

Di tutto.

 

Di più?

 

Il migliore, di ogni provenienza. Venga con me, sotto la tenda. Vedrà ancora di meglio.

 

Cos’ha?

 

Maliani. Ben conservati. La pelle nera protegge la carne. 

 

E là?

 

Guineani.

 

Non tanto in buon stato, no?

 

Troppo tempo a languire nei campi della Libia. Calci, frustate, bastonate, coltellate. Senza contare le false partenze e le false speranze. La tortura, talvolta. Le finte esecuzioni. E poi il viaggio, troppo lungo.

 

Come diventano?

 

Lo vede anche lei. Pelli bucate, tumefatte, scoppiate, strappate. Ematomi. Denti rotti. Carni battute come frutta troppo matura.

 

E questo qui? Si direbbe di piccola taglia.

 

Origine indeterminata. Direi Sahel. Niger o Burkina, da quelle parti. Un bambino. Undici, dodici anni. Annegato all’inizio della traversata. Ha inghiottito molta acqua. Lo lascio spurgare due o tre giorni.

 

Che c’è d’altro?

 

Ha già provato lo yemenita?

 

Mi faccia vedere.

 

Mi dirà della novità.

 

Si direbbe che è appena stato pescato.

 

È appena uscito dall’acqua.

 

In questo stato.

 

Molto resistente, lo yemenita. Più fine della palamita, secondo i buongustai. Vuole provare?

 

Non so, vediamo. Quello là, sulla barella kaki?

 

Troppo magro.

 

Posso guardarlo?

 

Pelle e ossa, gliel’ho detto. E poi, guardi quell’altro. Con quel labbro strappato, si sarà preso un cavo d’acciaio in faccia. Si vedono solo i denti. Non è facile da far fuori. In questi casi taglio sul peso.

 

Che vuole dire?

 

Quando la merce è troppo rovinata, abbatto i prezzi. Lo facciamo per gli avanzi della pesca. I poveri spiano le nostre barche. Ci liberiamo dei pezzi meno buoni o dei corpi smembrati, un braccio di qua, una testa qualche volta, quando gli squali sono arrivati prima di noi. Trovo chi me li prende. Come per i morti di freddo.

 

In Mediterraneo?

 

D’inverno può anche essere ghiacciato. Scende di temperatura, come il nostro grado di umanità. Non lontano da zero. Soprattutto di notte. L’organismo si paralizza, i muscoli si contraggono. Pelle, carne, tutto diventa duro. Difficile da preparare. E allora io svendo. Almeno me ne libero.

 

E cosa c’è laggiù, sotto quel baldacchino rosso?

 

Altro, tutto già prenotato.

 

Pezzi scelti, si direbbe.

 

Per il ministro.

 

Può capitare di incontrarlo qui?

 

Mi stupirebbe.

 

Passa prima di me?

 

No, non viene mai di persona. Manda gli ordini prima che io vada in mare. E io gli metto da parte la merce già in barca. Gliela consegno direttamente io.

 

Al ministero?

 

Dipende, se è per lui o per ufficio.

 

E quella di oggi, per esempio?

 

Aspetta ospiti importanti dalla Spagna e dall’Ungheria. E anche una personalità dalla Turchia, da quel che ho letto sul giornale. Abbiamo già consegnato l’ordine alle cucine del ministero.

 

I suoi gusti preferiti?

 

Le donne e i bambini che si sono dibattuti a lungo.

 

Perché?

 

Per il loro coraggio.

 

Non capisco.

 

Vuole mangiare il loro coraggio. L’importante per lui è che abbiano lottato.

 

Lei guadagna bene?

 

Ci sono stati anni migliori. Adesso si vivacchia. La concorrenza…

 

Quale concorrenza?

 

La pesca industriale.

 

Di cosa parla?

 

Le navi dell’Europa, gli equipaggi della buona coscienza, Aquarius e compagnia.

 

Cos’è che vi disturba?

 

Li ripescano vivi. Prolungano il loro calvario. Se almeno li rigettassero in acqua. Fortunatamente la maggior parte sono abbastanza pazzi da ritornare presto di loro volontà al punto di partenza. E noi dobbiamo trovarci là nel momento giusto. Io ho pazienza. È l’istinto del cacciatore. Alla fine li raccogliamo col cucchiaino. Alcuni non sono proprio belli da vedere. Sfigurati dal sale e dalle alghe.

 

[…]

 

È la sua barca quella laggiù?

 

Un ferrovecchio che apparteneva a mio padre. Io prima facevo l’insegnante di lettere. Ma tredici anni fa hanno chiuso il liceo, non c’erano abbastanza studenti. Avrei potuto trasferirmi ad Atene. Ma non c’era futuro. Non c’è più posto per gli insegnanti umanisti. Adesso vogliono studiare tutti matematica e economia. Sono rimasto qui, per un po’ ho fatto l’istruttore di nuoto. Poi ho ripreso il timone. All’inizio pescavo orate, gallinelle, branzini. A strascico. Decine di ami attaccati a placchette di sughero. Li calavo sui fondali di roccia. E lasciavo andare il battello. Veniva su tutto quel che volevo. Tanti pesci da morire. Adesso, solo più cadaveri. Per morire si muore, qui. È disgustoso. Riesco a caricare quaranta pezzi. Al massimo. Non faccio mica il macellaio io.

 

Va lontano in mare?

 

Non molto. Faccio cabotaggio. Piccola pesca di costa. Evito le imbarcazioni dove i fuggiaschi sono schiacciati come sardine a respirare fumi di benzina fino alla nausea. Vendo prodotti fini. 

 

Che strano modo di dire.

 

L’ideale è una piccola barca da una ventina di passeggeri che si rovescia alla fine del viaggio. Quando diventa fa giorno e riescono a vedere le luci dell’isola, si distendono. Le loro pelle luccica di speranza. Riprendono coraggio. Respirano a pieni polmoni, qualcuno grida di gioia. La loro carne rivive. Poi all’improvviso gli arriva addosso la guardia costiera, con le sirene spiegate e le luci accecanti dei proiettori. Allora si impauriscono. Annegano prima dell’arrivo dei militari. Tra i “no border” e gli ufficiali di confine, finisce sempre in mare. Io aspetto. Quando le pattuglie se ne vanno, tocca a me. Senza brutalità. Vado con dolcezza. Li raccolgo uno a uno. Ha mai visto degli annegati?

 

[…]

 

Il mondo è ingiusto. Ma io cosa ci posso fare? Devo pensare ai vivi, alla mia famiglia che devo nutrire, non ai morti. Ho pensato che non ci avrei più fatto caso talmente ce ne sono. In realtà non contano niente. Soprattutto i neri. Non esistevano da vivi, esistono ancora meno da annegati. Scaricati dai loro paesi, scaricati dai battelli e per finire scaricati dalle statistiche. Un esercito di fantasmi. Eppure certe volte…

 

Certe volte?

 

Butto dei fiori in mare, là dove c’è un gorgo che non vuole richiudersi. Delle corone appassite che rubo al cimitero del villaggio, dalle vecchie tombe dimenticate da tutti. Mi dico che nell’acqua di mare si ravvivano. E che i ragazzi, le donne e anche i bambini, insomma che tutti avranno ricevuto un gesto. Sono belli i fiori che galleggiano per qualche istante. 

 

Li vede, di notte?

 

I crisantemi bianchi sì, sembrano candele accese con i petali cullate dal mare soprattutto quando la luna brilla. Anche i fiori in plastica. 

 

Non potrebbe cercare di salvarne qualcuno?

 

E per quale ragione?

 

Per umanità, appunto. Ha dimenticato ciò che insegnava ai suoi studenti?

 

Quando non si possono salvare tutti, non si salva nessuno. E poi… perché parliamo di questo?

 

Continui.

 

Ci sono parole che puzzano a forza di non servirsene più. Parole come cadaveri. Parole in decomposizione. Ne vuole sentire qualcuna? Accoglienza. Mutualità. Solidarietà. Cura. Calore, Riconforto. Compassione. Hanno un cattivo odore. Non le sembra? 

  

No.

 

Opera di Wiebke Kackenmester.


Il Mediterraneo è la via marittima più mortale del mondo, soprattutto tra la Libia e Malta fino all’Italia, nelle acque internazionali, come si chiamano. E qui al largo della Turchia o più lontano lungo le coste del Montenegro. Si muore in massa e nessuno si commuove. Non certo i governanti intenti a occuparsi della loro rielezione e dei conti della loro nazione. I paesi detti dell’accoglienza, invece, nascondono a malapena il loro sollievo. Il mare fa una parte del loro sporco lavoro. Prende di mira le sue vittime con le sue correnti, le tempeste e la sua distesa interminabile. È immenso il Mediterraneo su un canotto di legno che imbarca acqua. Trecento chilometri tra la Libia e le coste italiane, mille occasioni di morire. E se tutto questo non basta, se ci sono dei sopravvissuti è stato inventato il delitto di solidarietà contro chi li soccorre. La verità è che non servirà a niente voler salvare questa gente che è alla fine della sua disperazione. Annegare abbrevia il loro calvario.

 

Ma lei che ne sa?

 

Lo dicono quelli che finiscono nei campi di Lesbo o di Lampedusa, al molo di Favaloro.

 

E cosa dicono esattamente?

 

Che vivono peggio degli animali. Che marciscono giorno dopo giorno nelle privazioni e nella sporcizia sotto un sole di piombo, prima ancora di sperare di essere registrati. Finiscono per venire alle mani tra afghani e siriani, lotte tra bestie estenuate, sangue ovunque e attorno a loro, i compagni che urlano e che si battono a morte. Tutta questa traversata per arrivare là, una foresta di lame arrossate nel sole a piombo. Le autorità portuali lasciano fare, sono già stracariche di impicci con la burocrazia e i tamponi. E intanto i poliziotti li aspettano, armati e con i manganelli. 

 

[…]

 

Capisce perché questi miserabili vorrebbero farla finita? Non si comincia una traversata così senza stringere un patto con la morte. E poi molti di loro non sanno nemmeno nuotare. Qualcuno non ha idea di che cos’è il mare.

 

Vuol dire che si suicidano?  

 

Un suicidio assistito, se finiscono tra noi. Almeno li trattiamo bene. Vengono puliti, accuditi, svuotati. La pelle viene idratata regolarmente. Non puzzano. Né i rifiuti né la decomposizione, si mostrano al meglio. Ritrovano una dignità.

 

Postuma. Da cadaveri.

 

È il meglio che gli possa succedere. Loro si preparano prima di attraversare. Si trovano un compagno di viaggio per darsi coraggio. Poi scoprono l’abisso nero del mare. Sanno che il destino li tallona. L’hanno scelto. Qui non c’è una vita per loro. Non più che dal luogo da dove vengono. La verità è che nessuno li vuole da nessuna parte. Ha già visto la costa di Gibilterra? I carri armati davanti ai muri di Ceuta dove ogni settimana almeno uno di questi ragazzi finisce scorticato? Quelli evitano il Mediterraneo, ma vengono accolti con telecamere termiche e filo spinato.

 

[…]

 

Ma i responsabili politici?

 

Li conosciamo i loro discorsi. Il vuoto e le menzogne. Chiacchiere che vengono subito contraddette dalle loro azioni. In Europa si mangia di tutto. I migranti mancano di tutto. Difficile immaginare un avvenire comune. Se sono riusciti a sopravvivere, le umiliazioni che li aspettano gli fanno rimpiangere d’essere sopravvissuti. 

 

[…]

 

Sento dire di qua e di là che dei vagabondi abbandonati a loro stessi nel vento ghiacciato di Calais annegano nell’alcol. Secondo lei è meglio che annegare nel Mediterraneo?

 

Non ho detto questo.

 

Allora cos’ha da dire? Non la sento. Senza dubbio li preferite vivi perché finiscano nelle vostre città a diventare lo zimbello di poliziotti e di fascisti.

 

Questa crudeltà non mi appartiene. Le loro sofferenze sono le mie. 

Siete in tanti a fare questo lavoro?

 

Ha ragione, cambiamo argomento. Sento il suo disagio. La verità fa male. No, non siamo in tanti. Ma io conosco i nostri isolotti del mar Egeo. Chio, Samo, Lesmo, Lesbo, Naxos, Icaria. Ci sono uno o due spazzini come me per isola, che io sappia. Io sono di base a Mitilene. Con le sue acque turchesi e trasparenti, come si legge sulle guide turistiche. Prima, oltre alla mia pesca, avevo un piccolo club di vacanze. Qualche capanna di paglia sulla spiaggia di Tsamakia, vicino al porto. All’inizio sgombravo i corpi dei migranti senza vita perché i clienti non si spaventassero. È finita che pescavo più cadaveri che pesci. E mi incazzavo con questi che abbandonavano i loro corpi alla deriva. Non immaginiamo certo di crepare davanti a tutti e di decomporci in mare, non crede? Poi ho continuato. È diventata la mia attività principale. Mia moglie non ce l’ha fatta ed è ritornata a Bordeaux.

 

Una francese?

 

Discendente di una famiglia di negrieri. Mi ha mollato con i nostri due figli. Ha detto che ero diventato l’incubo ossessivo della sua vita.

 

Quale incubo?

 

Il legno di ebano che i suoi avi trasferivano verso il Nuovo Mondo, gli schiavi neri in catene nelle gabbie di ferro. Ma non mi va di parlarne.

 

Come passa la notte?

 

Raggiungo i punti segnalati dalle radio. Là dove sono passati gli umanitari. Quando ne restano - e ne restano sempre - due o tre senza gilet arancioni. Allora accendo le mie lampare. I sopravvissuti credono che arrivi qualcuno a salvarli. Spengo il motore del battello. Li lascio avvicinare. L’ultimo sforzo per nuotare fino a noi è fatale, con le onde e le correnti. Bevono quel che basta e di più. Ingoiano il mare e il mare finisce per ingoiarli. Muoiono tra le nostre braccia.

 

Le vostre braccia?

 

Io vado sempre con Evangelos il mio secondo. Lui è di qui. Conosce gli scogli e le secche. 

 

Evangelos?

 

Significa buon messaggero. Vede, non siamo dei diavoli.

 

E la polizia?

 

Chiude gli occhi. Noi facciamo la nostra parte. Il commissario si serve da noi. La moglie del brigadiere anche. E poi…

 

Cosa?

 

Ne conosco di qui che vorrebbero vedere meno vivi nei campi vicini e più merce sui nostri banconi. Certe volte ci fanno la multa così per figura, quando passa una delegazione di Bruxelles. Ma non paghiamo mai. E non reclamano. Si direbbe persino che ci incoraggino in silenzio, i rappresentanti dell’Europa. La mancanza di sanzioni è come una ricompensa.

 

[…]

 

Tutti siamo stati dei pesci nell’antichità.

 

Davvero?

 

Quand’ero bambino, il mattino prima di andare a scuola mi tuffavo dal molo in slip, con mio fratello. Nuotavamo fino alla diga del faro blu, più lontano, davanti a lei. Tornavamo senza fiato ma felici. Ci asciugavamo, ci rivestivamo, prendevamo le nostre cartelle. Era la nostra vita, non ne conoscevamo un’altra. Fino a 12 o 13 anni ho pensato di essere un pesce.

 

[…]

 

Affondare le loro barche è criminale.

 

È il codice della marina, non lo sapeva? Quando gli umanitari recuperano una barca alla deriva e hanno issato i rifugiati a bordo, cosa crede che facciano? Una volta che l’ultimo disgraziato è salito, affondano la barca che li ha portati fin là. La legge del mare si applica senza discussioni. È proibito abbandonare qualunque cosa che galleggi senza nessuno che la governi. Si affonda ciò che potrebbe essere la salvezza per altri. Non c’è niente da scoprire. È la legge degli uomini.

 

Lei ha uno strano modo di interpretarla. A Kalymnos li attirate verso gli scogli per intrappolarli…

 

Per accorciare il loro calvario.

 

In realtà gli togliete anche la possibilità di essere salvati. 

 

Questione di punti di vista. Ricordo uno strano momento. Un’altra notte. La luna era appesa in cielo come un enorme proiettore che spazzava il mare con la sua luce. Ci avvicinavamo a un battello di traghettatori rovesciato. Evangelos mi ha chiesto: senti? Ho fatto segno di no con la testa. E allora lui mi dice: ascolta bene. Aveva ragione. Mi è arrivato un canto. Si poteva credere al canto delle sirene, un’aria piena di grazia, di un’infinita leggerezza, anche dolorosa. Una melodia venuta dall’al di là.

 

Vi siete tappati le orecchie come Ulisse?

 

Ulisse non si è tappato le orecchie, al contrario, ha voluto ascoltare quel canto, per questo si è fatto legare all’albero della sua nave. Era il più bel canto che avessi mai ascoltato. Arrivava da due donne di cui riuscivo a distinguere il viso a intermittenza sulla linea mobile dell’acqua. Di colpo si sono zittite. Sballottate da un’onda. Scomparse. Cigni neri. La pelle bluastra. Le labbra d’un violetto pallido.

 

Lei riesce a dormire bene?

 

Come un bebé. Vede quella donna che gira intorno agli afghani stesi sulla schiena? È bella, non trova?

 

Da dove viene?

 

Nigeria.

 

Cos’è quella brutta piaga alla caviglia?

 

Ha fatto la traversata su una imbarcazione di legno in cui si era rovesciato un bidone di benzina. Il benzene s’è mescolato all’acqua di mare e agli escrementi. È rimasta gravemente ustionata. Ma ora la piaga sta cicatrizzando.

 

La conosce?

 

Da quando mia moglie se n’è andata sta con me. È mia. Quando torno all’alba è nel letto che mi aspetta. Vuole sapere come ci siamo incontrati?

 

Se ci tiene.

 

Le ho parlato del canto delle sirene. Non erano due. Un’altra donna si dibatteva. Più giovane, più robusta. Lei non cantava, risparmiava le forze. Le ho teso la mano e lei è riuscita a prenderla. L’ho stretta. Una volta a bordo non respirava più. È svenuta. Le ho fatto la respirazione bocca a bocca per farla riprendere. Ha finito per ritornare in se. E a me.

 

Opera di Wiebke Kackenmester.


Non capisco.

 

Non c’è niente da capire.

 

Perché lei e non le altre?

 

Lei mi piaceva. Non ho resistito. Anche i negrieri avevano i loro servitori in livrea bianca. E i nazisti i loro ebrei buoni.

 

Lei che cosa sa della sua attività?

 

Tutto.

 

E cosa ne dice?

 

Nulla. Ciò non significa che non ci pensi. Guardi i suoi occhi. La luce che c’è nei suoi occhi.

 

Perché rimane?

 

Vai a sapere. Vede come sta su. Se regge la mia coscienza, significa che la mia coscienza non è così pesante.

 

Lei l’ama?

 

Non è questo il problema.

 

E qual è?

 

Il fatto che lei sia qui.

 

Come complice?

 

Come testimone. Io voglio che lei veda cosa faccio. Che qualcuno come lei sappia. È così semplice.

 

Io non lo trovo così semplice. Come si chiama la sua nuova compagna?

 

Blessing.

 

È un nome terribile.

 

È il solo che voglio.

 

Cosa vuol dire?

 

Quando si fa bracconaggio in mare si recuperano pacchi, valigie. All’hangar di scarico si spogliano gli annegati. Abiti, camicie, t shirt, pantaloni. Dei mucchi informi di cose che vengono bruciati una volta la settimana nei bracieri. Un fumo purificatore sale verso il cielo. Ci capitano oggetti di ogni tipo, catene, collane, amuleti in cuoio, pietre lisce e lavorate, lettere manoscritte in lingue indecifrabili, un po’ di soldi, foto a metà consumate dall’acqua e dal sale. Il più insopportabile sono i documenti di identità.

 

Non mi stupisce.

 

Certo. Impiliamo legni d’ebano nel retro del battello, li chiamo così adesso che mia moglie se n’è andata. È impersonale, legni d’ebano. Non impegna. È neutro. Diciamo legni ma quando all’improvviso ci capita un passaporto o un documento di identità che l’acqua non ha completamente sbriciolato, appaiono Boubacar, Idrissa, Djibril, Aïssata… Il mare è un rivelatore. Fino a quel momento i corpi non erano niente. All’improvviso esistono. Il legno d’ebano non è più anonimo. È un uomo, una donna, un bambino con il suo avvenire finito in fondo alle tasche. Una volta ho trovato un biglietto della lotteria nel giaccone di un maliano. Era la sua speranza. Si chiamava Alfonso. Vorrei tanto dimenticare il suo nome. Dimenticarlo.

 

Lo capisco.

 

Mi stupirebbe. Alla fine avevano ragione i negrieri.

 

Ragione?

 

Toglievano i nomi agli schiavi e li cambiavano con dei numeri. È più facile rimanere insensibili davanti al numero 327 che davanti al corpo senza vita d’un Boubacar.

 

Cosa ne ha fatto del biglietto della lotteria?

 

Non aveva vinto. Nessun rimpianto.

 

E gli oggetti che gli trovate addosso?

 

Li bruciamo con gli abiti. Ciò che vale un po’ di più lo diamo a una venditrice al porto di Mytilene. I turisti adorano queste cosette come souvenir. Pensano che si tratti di artigianato locale o di importazione dalle coste dell’Africa. Riusciamo persino a fargli credere che arrivi dai migranti del campo della collina nera, qui accanto, un antico poligono militare, sinistro e schiacciato dal sole, senza un angolo di ombra e nemmeno un po’ di acqua potabile. Se avessero la curiosità di andarci si renderebbero conto che niente di questo genere potrebbe mai uscire da quell’inferno di tende insalubri, più volte incendiato. Ma questi turisti non sono dei buoni osservatori. Fanno attenzione solo ai prezzi, Ma noi non li vendiamo molto cari. E tutti sono contenti. 

 

[…]

 

Bizzarri i vostri governanti. Non sono io che dò la Legion d’onore ai capi libici e ai raïs egiziani. O che unge le zampe dei dirigenti sudanesi colpevoli di crimini contro l’umanità. E tutto questo per ringraziarli di regolare i flussi dei migranti con la morte a domicilio, nessuno vede e nessuno sa. E voi venite a fare le pulci a noi?

 

Io non cerco niente.

 

E fa bene. In ogni caso i migranti sono pericolosi per tutta l’Europa.

 

Non per l’edilizia o le fabbriche di automobili che ne fanno i loro schiavi. Per non dire degli spacciatori di droga di cui sono i docili muli.

 

Un’infima parte di loro. La maggior parte portano criminalità, violenza, odio. Quando il Marocco è in collera con la Spagna, apre la diga a una buona ondata di rifugiati che vadano a sbattere contro la barriera di Ceuta e Melilla. Lo stesso fanno la Libia o la Turchia quando pensano che il limite si stia superando. Aprono le chiuse, il mare diventa nero di esseri umani. Non è un bel mondo. Lasciamo il Mediterraneo per quel che è. Un fossa comune. Un carnaio senza nome. Noi facciamo gli spazzini. Non immischiatevi o vi sporcherete le mani con noi.

 

Lei crede davvero a quel che dice?

 

Io ripeto, è quello che sento. 

 

[…]

 

Lei trova umano questo traffico tenuto dai mafiosi? È facile giocare ai buoni di cuore quando si lascia il lavoro sporco agli altri. Lei dev’essere francese, no?

 

Perché?

 

Per questo leggero sentimento di superiorità. I diritti e le libertà offerti a quelli rimasti indietro vi assomigliano. L’elemosina degli spiriti superiori, la lezione dei Lumi. Mi dica, per curiosità, queste cose le insegnano ancora nelle vostre università? Che ne avete fatto dei grandi principi, del diritto assoluto di essere soccorsi in mare, del diritto di asilo che addolcisce l’esilio, il diritto alla casa o di essere curato quando si è dispersi? Di essere accolti quando si ha perso tutto? Aspettando, i contrabbandieri vi fregano. Le persone come lei sono incapaci di agire. Quando uccidete, lo fate con le nostre mani.

 

Che cosa le prende all’improvviso? Sono venuto per parlare non per litigare.

 

Mi segua e guardi bene.

 

Cos’è?

 

Delle mappe trovate su un tuareg naufragato. All’interno di una cucitura doppia. I nostri doganieri che lasciano passare tutto, non se ne sarebbero mai accorti. Le immagini dettagliate di parecchie chiese in Estremadura e nel sud della Francia. Nel cuore di villaggi isolati. Lei pensa che venisse a fare il turista davanti ai monumenti religiosi del 13esimo secolo?

 

E questo cosa prova?

 

Guardi cosa aveva nascosto al fondo del suo sacco. All’interno di un sacchetto stagno. Un manuale di esplosivi. Una fune di sicurezza. Due coltelli. Le basta?

 

Le pecore nere ci sono sempre.

 

E formano un bel gregge.

 

Lo so.

 

Ma non fate niente. Io sì. È la differenza tra noi.

 

Potreste aspettare qualche indicazione in più su cosa fare.

 

E da chi? Dagli stati? Morti. Da Bruxelles? Morta. Dalla comunità internazionale? Più morta ancora.  

 

Perché ripete questa parola: morte, morte?

 

Vede qualcosa di vivo qui intorno?

 

Di tuareg ne passano molti?

 

Ah, mi stupiva che non avesse reagito a quella parola. No, la rivolta la portano piuttosto verso l’altro lato, nel nord del Mali. Ma ce ne sono parecchi che ve ne vogliono per aver lasciato linciare il leone libico senza essersi preoccupati del loro destino. Qualcuno sogna fuochi d’artificio a cosa vostra. Lo confessi: vi togliamo una bella spina dal piede.

 

[…]

 

Ma che tipo di uomo è lei?

 

Lo stesso suo. Senza l’ipocrisia che avete fatto diventare arte. D’accordo, le mie mani sono sporche, ma le vostre di più, anzi non avete mani. Noi separiamo il mare dai suoi morti come il buon seme dal loglio, è tutto.

 

E queste scarpe le vendete?

 

Siete degli artisti nel cambiare argomento durante una conversazione.

 

Non ho la sensazione di divagare.

 

Togliamo le scarpe ai naufraghi e se hanno un po’ di valore le recuperiamo. È stupefacente vedere questi miserabili talvolta vestiti come dei milord, con abiti ben ripiegati nei loro sacchi, cravatte, scarpe di cuoio. Dei ragazzi vestiti da festa con ai piedi delle Nike farlocche nuove fiammanti. O scarpette da calcio nuove per quelli che sognano di giocare nel Manchester United. Sognatori.

 

Non so davvero cosa potevano credere. Da quando sbrigate questo lavoro?

 

Quest’inverno sarà il terzo anno.

 

È cominciata d’inverno?

 

Sì. Me ne ricordo come se fosse ieri. Quella notte la cresta delle onde era bianca e dal vuoto tra le onde emergevano le maschere nere dei morenti e dei morti. Una grande scacchiera.

 

[…]

 

E pensa di continuare a lungo?

 

Perché cambierebbe qualcosa? Loro sono morti, io vivo. Faccio pulizia. Li intercetto. Fin che ne arriveranno, io ci sarò. Sento che mi giudicate. Invece dovreste incitarmi.

 

Cosa c’entro io?

 

Avete capito a cosa ci si abitua? All’inizio tutti questi morti in mare facevano titoloni sui giornali. I giornalisti venivano da tutta Europa. Si aggiravano intorno al mio banco in cerca di una buona storia. Mi ricordo di uno che voleva gli raccontassi l’odissea di uno del Sahel disteso su una plancia di ghiaccio tritato con il viso ancora mascherato di alghe brune. Ho risposto che non ne sapevo niente. E lui insisteva perché inventassi qualcosa mettendomi biglietti da 50 euro sotto il naso. Era pronto a pagarmi per le mie fandonie purché sembrassero vere. L’ho cacciato come una mosca della merda. Ora i media se ne fregano di quel che succede qui. È da un bel po’ che non vediamo reporter da queste parti. Il cadavere africano non fa più vendere. A malapena ci si dà la pena di contare gli annegati se sono neri. Passano al disotto dell’inventario. Sono diventati una specie di angolo morto. Niente da fare. Niente da dire. Senza che ci siamo messi d’accordo, in silenzio siamo diventati dei mostri. 

 

E me lo rimprovera?

 

Il suo accecamento mi confonde. È già stato a Calais? 

 

No, ma ho visto delle immagini, ho sentito delle testimonianze.

 

Io ci sono andato. Non a Calais. Nella giungla di Calais. Il fango. Campi inondati. Matasse d’acciaio di filo spinato. Le torrette di guardia. Le tende spazzate dal vento freddo o tagliate dai cutter dei poliziotti. La fame. La disperazione di spaccarsi il naso contro le bianche scogliere di Dover. Le malattie. La nostalgia del proprio paese. Andate senza ritorno. Il cimitero dei rifugiati. E dimentico il meglio. Veni, vivi, Vinci.

 

Che sta dicendo?

 

Se lei fosse stato a Calais capirebbe. Basta imboccare i sentieri verso il mare per finire sul chilometro tutto nuovo del muro “anti-intrusione”. Impossibile non vedere questa meraviglia costruita dalla famosa società dei parking, quella che diffonde anche musica di Mozart nei sotterranei ben sorvegliati delle vostre raffinate città francesi. Niente è troppo bello o troppo caro per proteggere le coste d’Inghilterra dalla lepre migrante. Respinti a Calais. “Non li vogliamo a casa nostra”, dicono gli inglesi. E i francesi hanno risposto: d’accordo, ma quanto fa? Tre milioni di euro e il muro della vergogna è vostro. Veni, vidi, Vinci, gliel’ho detto.

 

[…]

 

L’altro giorno una donna ben messa, una straniera, è passata senza fermarsi davanti al bancone di uno dei miei amici del porto, Efaisto, ben fornito di pesci. Lui ha ancora qualche cliente per le orate. Ma è sempre più difficile. Ha gentilmente invitato quella donna perché buttasse un occhio alla sua merce. Lei gli ha risposto che non avrebbe mai più mangiato pesci del Mediterraneo.

 

E perché?

 

Perché si nutrono di migranti! Questa è stata la risposta. Incredibile, non trova? I pesci mangiano i migranti…

 

Io non so più cos’è incredibile, oggi.

 

Allora, mi creda, se ci rosicchio qualcosa, la mia parte è ben più modesta.

 

Non si giustifichi. Non sono il suo giudice.

 

Allora chi è lei?

 

Un vile, tra tanti altri.

 

E cosa vuole da me?

 

Che mi porti con lei, questa notte. E che mi lasci là, nell’acqua nera.

 

E questo a cosa servirà?

 

Sarò con loro. Sarò al loro fianco.

 

E se poi la raccolgo nella mia rete?

 

Mi metta nel mucchio. Se domani mattina c’è un posto tra il maliano e l’eritreo, mi metta là.

 

Éric Fottorino (1960, Nizza) è giornalista e scrittore. Tra il 2007 e il 2011 ha diretto Le Monde. Dal 2014 è direttore del settimanale "le1 hebdo”, un originalissimo giornale di carta su un solo foglio di grande successo in Francia. Da “le1” è nata una serie di altre pubblicazioni periodiche: il trimestrale “Zadig” consacrato al racconto della Francia profonda, “America” e “Légende”, un grande formato patinato con testi e fotografie d’autore. Fottorino è anche autore di romanzi editi da Gallimard. L’ultimo, uscito a settembre, si intitola “Mohican” ed è il racconto del confronto tra generazioni nelle campagne di oggi, tra tecnologie ed ecologia.

 

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