Irrazionalità della politica / L’economia è la chiave della politica?

9 Febbraio 2020

1.

Qualche anno fa, un importante personaggio politico disse in un dibattito pubblico che alla base del terrorismo fondamentalista islamico c’erano interessi economici. Qualcuno gli fece osservare che l’idea che un giovane commetta una carneficina tra gente presa a caso e poi si ammazzi perché conti su tornaconti economici è evidentemente poco credibile; diciamo piuttosto che il terrorista spera così di andare in paradiso. Ma il personaggio aveva la risposta pronta: una massa di gente ingenua viene manipolata con argomenti religiosi da capi che mirano al potere economico. 

È una variante di teoria cospiratoria della storia: il radicalismo religioso sarebbe un marchingegno trovato da certe classi dominanti per abbindolare i poveri. Questo non è escluso in certi casi. Ma dubito fortemente che i grandi trascinatori religiosi di folle fanatizzate lo facciano sulla base di strategie economiche. Osama Bin Laden era ricco, avrebbe potuto arricchirsi ancora di più e godersi i propri beni, invece ha attaccato la potenza americana, si è nascosto per anni e alla fine è stato ucciso. Avrebbe fatto tutto questo per estendere il proprio patrimonio? E si pensi agli attentati terroristici suicidi di matrice ISIS in Sri Lanka durante la Pasqua del 2019, che hanno mietuto 253 vittime: gli attentatori erano persone di famiglie ricche e istruite, avevano fatto i loro studi in Gran Bretagna e in Australia.

La verità è che non una sola ragione fondamentale muove gli atti e le passioni degli umani. Non solo quindi la ragione economica. Come diceva Ernst Bloch, non si vive di solo pane, soprattutto quando non se ne ha.

 

2.

Invece, sin dall’Ottocento si è imposto, nella letteratura politica e sociale, il presupposto che ciò che conta veramente nella storia e nella politica è l’economia. Questa presupposizione è sostanzialmente condivisa sia a sinistra che a destra. Per il liberismo quel che conta è la libertà il più possibile sfrenata del mercato, il free market è il modello del miglior assetto politico e sociale. Per la sinistra marxista e post-marxista contano le classi sociali che sono prima di tutto classi economiche: la storia è storia di lotte di classe. Per la sinistra di oggi l’incremento dell’eguaglianza economica è l’obiettivo principale, e direi ultimo, della lotta politica.

È vero che la sinistra articola soprattutto una critica dell’economia, oggi capitalista, ovvero prospetta una liberazione dai vincoli e condizionamenti dei meccanismi economici. Mentre la destra invece esalta i puri meccanismi spontanei del libero scambio in quanto essi assicurerebbero l’allocazione ottimale delle risorse. Ma sia la critica che l’esaltazione del sistema economico appaiono, in un’altra prospettiva, due facce della stessa medaglia. Che si tratti di liberarsi dall’economia, o che si tratti di liberare l’economia da ogni laccio e lacciuolo politico, è comunque l’economia al centro della politica, il motore fondamentale della storia. Per cui anche a conflitti che non hanno nessuna apparenza economica – scontri religiosi, etnici, razziali, ecc. – bisogna sempre cercare una spiegazione economica ultima. È questa che ancora a molti appare “la spiegazione profonda”. Voler morire per Allah o per il Führer appare invece un motivo del tutto superficiale.

Anche il recente fiorire di partiti e movimenti populisti, in particolare nel mondo più industrializzato, tende a essere interpretato come effetto economico. Molti ripetono che è stata la grande crisi del 2008 il motore di questa conversione di massa alla propaganda populista e di estrema destra; altri dicono che motore è l’aumento delle diseguaglianze economiche. 

La crisi economica avrebbe creato nuove ampie fasce sociali di disagio, che si sarebbero volte al populismo per reazione. Ma si tratta di una tesi poco verosimile. In effetti il successo di partiti populisti si verifica anche in paesi che hanno superato da anni la grande crisi del 2008, prosperi e in una situazione di grande ripresa economica, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna prima della Brexit, la Germania fino a poco tempo fa… Niente ci indica che la conversione al populismo fiorisca particolarmente in paesi che ancora non si sono ripresi dalla crisi o in declino economico da tempo. D’altro canto, se l’aumento delle diseguaglianze fosse la ragione fondamentale della svolta verso il populismo neo-fascista, non si capisce perché tanta gente non certo benestante voti per Trump o Salvini che vogliono tagliare le tasse soprattutto ai ricchi, e che escludono aiuti ai più poveri.

Ma collegare le vittorie populiste a processi economici è un modo di confermare l’assunto di fondo: che alla base delle idee politiche tra la gente è la sua condizione economica. 

Nella campagna referendaria del 2016 per la Brexit i sostenitori del Remain hanno rovesciato sugli elettori una valanga di fatti, fatti, soprattutto fatti economici, il cui succo era: se ce ne andiamo dall’Europa, la nostra economia andrà male. I sostenitori del Leave invece hanno fatto appello a sentimenti viscerali, a slogan spirituali, a un ideale di independence, e hanno vinto. Hanno fatto appello a valori, anche se per me non condivisibili. E poi, i fatti dei sostenitori del Remain sono poi talmente ‘fatti’? Può darsi che l’uscita dall’Europa produca il declino economico britannico, può darsi di no. In realtà, le vere ragioni per cui ci si oppone alla Brexit non sono, nel fondo, ragioni di portafoglio: è perché si condivide un ideale in senso lato, quello dell’affratellamento di tutti i popoli europei, il crollo progressivo delle frontiere, un mondo unificato di esseri umani cooperativi. Ai valori nazionalisti della Brexit si opponevano non ragioni di convenienza economica, ma altri valori. Solo che i pro-Europa hanno mascherato i loro valori con previsioni economiche, mentre i brexiteers non li hanno mascherati.

Qualcosa di simile accade con la contro-propaganda che di solito si fa per far accettare gli immigrati. Anche qui si ripete che l’immigrazione ci dà vantaggi economici, il presidente dell’INPS dice che se non ci fosse il lavoro degli immigrati non potremmo più pagare le pensioni, che senza lavoratori stranieri molte fabbriche del Nord non potrebbero funzionare, ecc. Non dico che molti di questi argomenti non siano veri, ma non toccano il cuore di chi vede il proprio paese cambiare color di pelle. Perché invece non mostrare che “gli immigrati sono simpatici!”? È la strada percorsa da Checco Zalone con Tolo tolo: qui gli africani sono rappresentati come per lo più simpatici malgrado i loro guai, generosi, pieni di senso dell’humour, mentre gli italiani sono descritti come egoisti, avidi, cinici, spietati. Si dirà: semplicista propaganda pro-immigrati. Ma in politica, per convincere la gente, ci vuole semplicista propaganda, non statistiche.

 

In questi ultimi anni il razzismo e il suprematismo etnico sono in crescita, un po’ dappertutto in Occidente – ma questo non ha fatto seguito alla crisi del 2008. In realtà, la grande crescita degli Hate Groups negli USA è avvenuta verso il 2015, e l’elezione di Trump non è estranea forse a questo incremento. Che cosa è accaduto attorno al 2015 che ha innescato un po’ in tutto l’Occidente questa moda di massa di orientarsi verso l’estrema destra razzista e xenofoba? Ecco una domanda a cui i sociologi stentano a rispondere.

 

 

3.

Questo primato attribuito alla vita economica rispetto a tutte le altre forme di vita umane – religiose, artistiche, erotiche – esprime un presupposto ancora più profondo: che gli esseri umani, anche quando sembrano pensare e fare cose assurde, sono nel fondo esseri sempre razionali. E in effetti, che c’è di più razionale del portafoglio? Fa comodo pensare che gli umani siano ragionevoli, perché così sembra più facile capirli. Capire l’irrazionalità è molto più difficile.

Invece, senza togliere affatto ai fattori economici l’importanza enorme che essi hanno, voglio mettere in evidenza le determinazioni irrazionali degli esseri umani, anche quando fanno politica. Mi rendo conto che la distinzione tra razionalità e irrazionalità è relativa, fluttuante. Comunque, per irrazionalità intenderò comportamenti che non capiamo, e che proprio per questo dobbiamo spiegare, con ipotesi più o meno scientifiche. Se chiediamo a qualcuno quanto fa ‘3 X 4’ e costui risponde ‘12’, lo capiamo; ma se costui, pur senza essere un minorato mentale, si ostina a dire che fa ‘14’, ecco qualcosa che, non essendo per noi comprensibile, dobbiamo spiegare. Facendo magari appello alla malattia mentale, uno dei modi più comodi per ammettere che certi atti e comportamenti non ci sono comprensibili. Solo con uno sforzo di astrazione scientifica possiamo pensare che occorra spiegare anche atti e comportamenti per noi del tutto comprensibili. 

 

I comportamenti incomprensibili rivelano la dimensione che chiamerei pulsionale degli esseri umani (pulsione come ne parlava Freud). Questa irrazionalità ha certo la sua logica, che occorre ricostruire e descrivere: anche l’irrazionalità ha una propria logica. A differenza dei motivi razionali, di cui il soggetto è consapevole (so perché ‘12’ è il risultato di ‘4 per 3’), quella che chiamo “logica” non è saputa dal soggetto: lui o lei non sa quale logica lo/la spinge a credenze o atti che, proprio per questo, sono irrazionali. 

Mi pare che la psicoanalisi sia oggi una delle poche teorie che ci fornisca i concetti per pensare questa pulsionalità. Con questa intendiamo il fatto che l’essere umano non è solo homo oeconomicus, ovvero lucido calcolatore delle proprie utilità (come vuole una visione di destra) e nemmeno solo essere bisognoso che cerca di sopravvivere e riprodursi (come vuole una visione di sinistra). Intendiamo il fatto che Homo sapiens è un animale che cerca di godere, in qualsiasi modo. Che desidera godere e che spesso gode del proprio desiderio. In questa prospettiva, il dilagare del cosiddetto populismo negli ultimi anni non è riducibile a una reazione a un dato assetto o congiuntura economiche, ma mette in gioco fattori che, rispetto al calcolo utilitario, appaiono del tutto irrazionali. Insomma, nei populismi emerge in modo disturbante l’inconscio.

Ora, la psicoanalisi – come altre teorie, ad esempio quelle della complessità e del caos (a cui ho accennato in un articolo su doppiozero) – non tratta l’essere umano come un animale essenzialmente razionale. Ma la pulsionalità spiega tanta politica solo se la mettiamo in relazione con quel che una certa psicoanalisi, sulla scia della linguistica, chiama significante.

 

4.

È ora di mettere in rilievo nella vita politica la forza del significante. Il significante si distingue dal segno in quanto quest’ultimo è strettamente connesso al suo significato: il segno è sempre segno di qualche cosa. Invece il significante può non avere alcun significato, perché esso consiste nella differenza da altri significanti, come stabilì Ferdinand de Saussure (nel suo Corso di linguistica generale). La potenza del significante è stata sempre sottovalutata in politica. Eppure da sempre gli esseri umani si massacrano non solo per conquistare territori ricchezze o donne, ma anche in nome di opposizioni significanti.

Il primato del significante fu bene espresso dal personaggio di re Ubu di Alfred Jarry: “Viva la Polonia! Perché se non ci fosse la Polonia, non ci sarebbero i polacchi!” – detto in un’epoca in cui la Polonia non esisteva ancora come stato. La Polonia è un significante, i polacchi sono il suo prodotto.

Anche la nazione italiana è effetto di un significante. Quando nel 1861 fu creato il regno d’Italia, gli italiani parlavano vari dialetti, non la stessa lingua, a parte le persone colte, che erano minoranza. Gran parte della popolazione era analfabeta. L’italiano, ovvero il toscano, è divenuto lingua nazionale effettiva a poco a poco, attraverso la scolarità obbligatoria, ma soprattutto grazie alla radio e poi alla televisione.  Lo stato italiano, coagulatosi attorno al significante Italia, ha creato gli italiani, non viceversa, come preconizzava Massimo d’Azeglio nel 1861 (“Abbiamo fatto l’Italia, adesso dobbiamo fare gli italiani”). 

Insomma, l’adozione di un significante è in gran parte arbitrario. Per esempio, non è l’omogeneità linguistica che fa una nazione.

Sono significanti, ad esempio, il Belgio e la Spagna. In Belgio si parlano ufficialmente tre lingue diverse (francese, fiammingo, tedesco), in Spagna quattro (castigliano, catalano, basco, gallego). Entrambi questi stati si propongono ai loro cittadini come “patrie” perché hanno un re. In Belgio i valloni si rifiutano di parlare fiammingo, e i fiamminghi si rifiutano di parlare francese – di solito, quando si incontrano, tra loro parlano inglese. Eppure quello che il filosofo Ernesto Laclau chiama un significante vuoto – le monarchie spagnola e belga – li tiene uniti (vedi questo articolo su doppiozero).

All’inverso, all’omogeneità linguistica si sovrappongono significanti diversi. Nel Regno Unito tutti parlano inglese e solo inglese, eppure gli scozzesi e i gallesi ci tengono a distinguersi dagli inglesi, e l’unità del Regno è rimessa spesso in questione. Che cosa distingue uno scozzese da un inglese? Il fatto che uno scozzese si riconosca scozzese e un inglese si riconosca inglese. È una tautologia. Si tratta di differenze “senza significato”, in senso linguistico. In effetti, Saussure definiva il segno come arbitrario. Il segno è arbitrario perché il significante non ha alcuna rassomiglianza con il significato – il suono italiano bue non assomiglia per nulla all’animale bue. Essere scozzese ed essere inglese sono significanti che non assomigliano affatto ai loro significati, per la semplice ragione che la scozzesità e l’inglesità non esistono. O meglio, esistono solo come emanazioni immaginarie dei significanti rispettivi “essere scozzese” ed “essere inglese”.

 

5.

Questo vale non solo per le identificazioni etniche e nazionali, ma anche per le contrapposizioni politiche tra gruppi. Saussure disse che i significanti si costituiscono per differenze; quel che li determina non è qualcosa di pieno, ma le differenze rispetto ad altri significanti. E in effetti, quel che determina il mio “essere italiano” è il fatto che non sono francese, non sono svizzero, non sono croato, non sono ucraino… È un’identità negativa. Ogni identità nazionale è negativa, pura differenza dalle altre nazioni.

Ma proprio perché una nazione o un’etnia sono significanti, quindi entità puramente differenziali, questa differenza produce opposizioni: un gruppo finisce prima o poi con l’opporsi ad altri gruppi perché la definizione di sé è oppositiva. Come diceva Lattanzio agli inizi del IV° secolo, “L’attaccamento alla patria è, nell’essenza, un sentimento ostile e malevolo”. È qui che il significante, come ha mostrato la psicoanalisi (soprattutto lacaniana) si innesta nella vita pulsionale, nell’odio e nell’amore.

Nel 1994 assistemmo a uno dei genocidi più micidiali del secolo scorso: nel Rwanda la guerra civile provocò tra i 500.000 e il milione di vittime, essenzialmente civili, in soli tre mesi. Questo olocausto esprimeva un conflitto tra le due etnie, Hutu e Tutsi. Ma chi erano questi Hutu e Tutsi e da dove veniva quel reciproco odio così letale?

 

In realtà, non c’è un significato chiaro dell’essere Tutsi o Hutu. Entrambi i gruppi parlano una stessa lingua nativa, il rwanda-rundi, e per lo più entrambi sono cristiani. Non si sa esattamente che cosa abbia prodotto questa differenza tra Hutu e Tutsi, anche se essa venne rafforzata dai colonizzatori tedeschi e belgi. Per farla breve, la differenza tra Hutu e Tutsi è arbitraria. Ma questa distinzione senza fondamenti ha prodotto milioni tra morti e rifugiati, distruzioni e rovine.

Si prenda il patriottismo iracheno, che Saddam Hussein sfruttò per scatenare guerre, contro l’Iran e il Kuwait. L’Iraq era in realtà uno stato inventato a tavolino da francesi e inglesi dopo la fine della 1° guerra mondiale (accordo Sykes-Picot), un insieme eteroclito di sunniti, sciiti, cristiani e curdi. Eppure si è creato presto un fiero patriottismo iracheno, e centinaia di migliaia sono morti per l’Iraq in varie guerre. 

Potremmo estendere queste riflessioni a gran parte dei conflitti politici e sociali. Credere che alla base dei conflitti ci siano divergenze di interessi economici è talvolta un alibi: molto spesso le contese economiche sono piuttosto l’effetto di pure differenze, arbitrarie, tra significanti. Basti pensare all’interminabile conflitto israelo-palestinese. Se entrambi i popoli agissero su una base di calcolo razionale, ovvero utilitario, tutto dovrebbe portarli a convivere in due stati amici. Un’alleanza e collaborazione tra entrambi i popoli potrebbe rendere più prospera quella regione. E invece ben sappiamo come le cose vanno da una parte e dall’altra. 

Molte contrapposizioni politiche non sono molto diverse dall’opposizione tra due squadre sportive. La Juve si oppone all’Inter non perché i suoi giocatori o allenatori siano tutti torinesi da una parte e tutti milanesi dall’altra, ma perché sono due squadre diverse in competizione.

Insomma, le opposizioni significanti generano massacri e distruzioni non meno importanti delle contrapposizioni su base economica o su conflitti diciamo concreti. 

 

Karl Lüger fu sindaco di Vienna dal 1897 al 1910, leader di un partito ultra-cristiano, ed era noto per le sue posizioni nettamente antisemite (Hitler si ispirò a lui). Quando gli si fece notare che lui aveva molti amici ebrei, dette la celebre risposta: “Sono io a decidere chi è ebreo e chi no”. Questo arbitrio soggettivo è la spia dell’arbitrarietà che permea il significante: è esso a decidere contro chi stare e a favore di chi stare. 

In effetti, tutti tendiamo a riempire di senso delle pure entità differenziali, ovvero, tendiamo a mascherare l’arbitrio del significante con contenuti esaltanti. Questo comporta continuamente contraddizioni pratiche nel proprio comportamento, come fu il caso di Lüger. Conosco persone che hanno una domestica immigrata con cui intrattengono ottimi rapporti, che si servono quotidianamente in uno spaccio tenuto da immigrati, che vanno anche a mangiare talvolta al ristorante cinese o indiano… e votano Salvini e plaudono a una politica di chiusura a ogni immigrazione. Così come conosco persone di sinistra che evadono le tasse, che pagano i loro lavoranti in nero, e speculano in borsa… Non bisogna credere che dietro i significanti sbandierati ci siano comportamenti coerenti.

Così ci inventiamo identità etniche e nazionali. Che cosa in effetti identifica un italiano?  Certamente la lingua, che si parla però anche in altri paesi grazie ai connazionali emigrati. Un tipo di dieta e di cucina? Sì, ma ci sono ampie varietà regionali. Certamente gli italiani sono per lo più cattolici, ma allora ebrei e protestanti italiani, per quanto pochi, non sarebbero italiani? Anche un paese alquanto coeso come l’Italia si è inventata un’identità, quindi un narcisismo specifico. Il narcisismo, appunto, di cui parlò Freud. E qui dovrebbe cominciare il discorso più serio.

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