Imm, settembre 2017 / Live. Intensità, intermittenza, registrazione

Abitualmente pensiamo che le parole non soltanto creino una separazione tra ciò che ci accade e la possibilità di farne esperienza, di trattenerne il ricordo, ma che nella vita parlante dell’uomo il puro vissuto nemmeno esista. Eppure se prendiamo alcuni testi, per esempio autobiografici, capita che ci restituiscano una trama che non si esaurisce in una serie di fatti e di episodi, in una struttura che si risolve nella propria consistenza fattuale, ma siamo di fronte a un gesto che rimane come attraversato da una corrente viva che trova improvvise condensazioni visive, interruzioni, intermittenze in cui la vita che si vive e la vita per cui viviamo coincidono e come in un sogno diventano un dato da vedere.

È come se questa tensione tra il puro vissuto e il suo prendere forma trovasse uno spazio in cui l’occhio si fa specchio dello sguardo e la visione aumenta d’intensità.

 

È la certezza che un puro vissuto esiste, che le parole lo dimenticano, ma che le immagini vi si fissano con tutte se stesse. Non si tratta di contrapporre le immagini alle parole, ma di cogliere, o di essere colti, in diretta, live, da come le nostre parole si sgranano nell’incontro con il reale e il nostro occhio si fa nassa visiva dell’accaduto. Allora la vita non pare più bruciare le immagini nelle proprie metafore, ma legge le metafore vedendo le immagini che in loro ancora bruciano, ora, in diretta, nel momento stesso in cui la propria vita accade.

Il live, la diretta, per noi condensa in sé questo ordine di questioni, dall’apparente impossibilità di cogliere sul vivo al nodo differenziale che introduce la ripetizione, il rifacimento, dalla vita dell’immagine stessa a una nuova interattività conquistata nel virtuale Web conversazionale.

 

Nel presente volume si va allora da Proust a Michaux, alla performance, a particolari forme cinematografiche, al remake e re-enactment fino appunto agli usi che dell’immagine si fanno nella Rete, secondo un percorso che intreccia vita e morte, introspezione e auto-osservazione, visibile e invisibile, visione e corpo, parola e immagine, immagine fissa e immagine in movimento, assenza di immagini e immagini connesse.

Il primo testo del volume stabilisce per noi un filo di continuità con il volume precedente della collana, che era dedicato ai temi della memoria presa tra accostamenti, sovrapposizioni e persistenze, che vengono qui portati verso i nostri nuovi temi. Al centro del testo di Tanguy Viel vi è infatti la dialettica tra il flusso inarrestabile e veloce del pensiero, dell’immaginazione, del vissuto, la “fuga delle idee”, e la volontà artistica di restituirlo attraverso un linguaggio necessariamente più lento, laborioso, regolato. Dalla potenza persistente e strutturante delle immagini Viel ci porta, lungo il suo percorso, attraverso immagini che strappano il flusso, la superficie, lo schermo, alle immagini che “creano una durata nello scorrere, un altro tempo nel tempo”, aprendo in questo modo la durata “al proprio infinito”.

 

Henri Michaux, Senza titolo, 1948. Matita, inchiostro e acquarello su carta, 47,6 x 31,2 cm. Winterthur, Kunstmuseum Winterthur.

 

Da Proust Viel passa a Munch e all’Hitchcock di Psycho, infilando peraltro una serie di volti dalle particolari espressioni e sguardi che per noi formano quasi una sequenza in sé, secondo un ruolo dell’immagine non di pura illustrazione che rivendichiamo in questa nostra impresa editoriale. Non troppo distante dal testo di Viel è quello di Muriel Pic, che affronta la questione del “testimone” che lo scrittore è, ma anche che ha dentro e fuori di sé mentre scrive, mentre traspone in scrittura i propri pensieri. Da un lato sta allora l’introspezione e dall’altro l’osservazione esteriore, per superare l’alternativa dei quali Henri Michaux, protagonista del testo, assume a modo suo due paradigmatici metodi scientifici dell’auto-osservazione: quello etnografico, che rovescia però in una sorta di etnologia immaginaria, e quello medico, in particolare nelle famose sedute in cui assume mescalina, che trasfigura a sua volta spostando il suo oggetto d’osservazione dal visibile all’invisibile. Ne nascono due altri tipi di auto-osservazione peculiarmente artistiche, quello del testimone cieco, divinatore, che vede l’invisibile, e quello del testimone meravigliato, che vede l’inatteso e il sorprendente.

 

Dunque il live comporta queste problematiche e disegna soluzioni simili, ma siamo solo all’inizio. Lungo un’altra serie di interventi scorre un filo che le collega, quello che va dalla performance, per definizione atto unico e irripetibile, fondamento del live nelle arti visive, al remake e re-enactment, dove la rievocazione e ripetizione – nonché la sovrapposizione e il not straight, per ricordare i temi dei due volumi precedenti e la continuità della nostra ricerca – sono rimesse in gioco in forma rinnovata. Si parte da una strana “storia della performance in 20 minuti”, trascrizione di un intervento che è stato a sua volta una performance. Performer vi erano l’ideatore e autore del testo Guillaume Desanges e l’attore Frédéric Cherboeuf, che ha mimato le performance evocate. L’idea portante è il potere silenzioso e zittente dei gesti, da un lato un rispondere con i gesti alle chiacchiere, dall’altro la rivendicazione di un “giubilo dell’immediatezza” che il gesto può avanzare forse più della parola.

 

Ma, lungi da un’idea ingenua dell’immediatezza del gesto e dell’evento – del resto qui ripetuti, nel doppio e triplo senso della ripetizione teatrale –, la dialettica in atto è ripresa appunto da Érik Bullot in un modo e da Mickaël Pierson in un altro. Il primo tratta di una ripresa, la ripetizione “due volte”, insita nel cinema stesso, fin dalle origini, ricordata e riconsiderata dalle avanguardie sperimentali poi, significativamente, negli anni Settanta, e ancora in quelli recenti. Si tratta di un “raddoppio differenziale”, dice Bullot, e fa due esempi che inquadrano le questioni in gioco: “Hollis Frampton esplora la ripresa attraverso la distanza tra descrizione e messa in mostra, mentre Jean Eustache sottopone le inquadrature a una permutazione generale data da dirottamento e manipolazione”. In entrambi, ulteriore motivo di interesse, è poi in causa il rapporto tra fotografia e cinema, immagine ferma e immagine in movimento, in cui interviene il sonoro che le sfasa e sovrappone, o brucia in un caso o rilancia nell’altro: in entrambi i film presi in esame una voce descrive qualcosa che non è ciò che stiamo guardando.

 

C’è una sfasatura, uno scarto differenziale in gioco nel live. Lo si vede in modo ulteriormente diverso nei remake e re-enactment tornati all’ordine del giorno nel cinema e in arte, argomento del testo di Pierson. Nati con finalità di rievocazione, ricostruzione o riattualizzazione, sono recentemente diventati forme d’arte in se stessi a partire, anche qui, dal rifacimento di qualcosa, film o altro, che per definizione si proponevano come eventi unici e irripetibili. In essi gioca la sovrapposizione del già noto e della versione e ricezione attuale. Entrano allora in gioco le questioni sollevate da un lato dalla corporeità della rieffettuazione concreta, che per certi versi risponde all’assenza di immagini documentarie, come nel film di Rithy Panh che ricostruisce il genocidio dei khmer rossi in Cambogia, e dall'altro i rischi di deformazione e di ogni genere di rapporto problematico con il modello originale, gli effetti perversi in cui può incorrere ogni ricostruzione, al centro di altri film che Pierson analizza. È proprio l’assunzione e la decostruzione di tali rischi, declinati però a partire dal rifiuto della dicotomia finzione/documentario, a costituire la novità di queste pratiche e la premessa per un remake e un re-enactment vivi, live.

Il due detta la legge sottile della visione anche nell’intervento di Giovanni Oberti e Keti Shehu: due attaccapanni, due bicchieri ci dicono che le vedute dalle finestre vanno guardate con sguardo doppio: dentro e fuori si legano e il mondo diventa un “altro mondo”, forse quello “sfondo di contrasto perché spicchi il disegno d’un minuto” di cui parla Rilke, citato dagli autori (due), con l’avvertimento che noi “non conosciamo il contorno del sentire, ma soltanto quel che dall’esterno lo forma”.

 

Rithy Panh, S21: La macchina di morte dei khmer rossi, 2003. Fotogramma.


Su nuovi registri del sentire, vivere e vedere sono incentrati un altro gruppo di testi. Daniel Birnbaum ne ha introdotto uno attraverso la fotografia secondo Wolfgang Tillmans, quello di immagini che sembrano casuali e si rivelano frutto di un’acutezza visiva del tutto singolare. Essa deriva non tanto da decisioni estetiche o categorie fotografiche quanto dall’“alchimia della luce”, da una parte, e dall’“interesse per il nostro essere-al-mondo con gli altri”, ovvero dall’intreccio inestricabile tra fenomeni visivi e vissuto, dall'altra; così le sue opere apparentemente astratte si caricano di un erotismo che le rende fisiche e quasi viscerali, mentre le immagini apparentemente colte per caso nella situazione momentanea si dimostrano invece paradigmi della complessità e della condivisione, della scelta “dell’instabilità e della vulnerabilità che sono sempre un aspetto della bellezza individuale”. “Fondamentalmente le sue immagini sono basate su coinvolgimento e affezione”, scrive Birnbaum.

 

Su un vedere invece non-umano – ma quanto di più-che-umano, troppoumano c’è anche nello sguardo di Tillmans? – sono incentrati i testi di Florian Leitner e di Nicola Turrini. Il primo analizza strane immagini e video realizzati volutamente o casualmente da animali – in particolare un video realizzato di fatto da una tartaruga marina che giocava con una videocamera smarrita nell’acqua – paragonandoli al capolavoro di Michael Snow La région centrale, a sua volta realizzato non da occhio umano bensì tramite un dispositivo meccanico semovente. Dove finisce l’intenzione umana, dove l’autorialità, dove il confine tra umano e non-umano, tra tecnico e naturale, e le nozioni tradizionali che riguardano la soggettività e l’estetica? Ne emerge un vedere non antropocentrico e post-umano che l’autore considera anche “paradigma per le pratiche di imaging e di significazione nelle reti digitali” e una sottile riflessione sul viaggio che le immagini fanno per giungere a destinazione e concludere che è proprio “il movimento che fanno quando viaggiano verso la rete globale ciò che ci affascina”.

 

Nicola Turrini sviluppa per molti versi gli spunti di Leitner portandoli in un’altra direzione. Quello che gli interessa è non solo una visione non-umana, ma una anche immersiva, un filmare “con i corpi e con i pesci” nel caso del film Leviathan di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, e quell’immagine “pura” che viene da un “puro vissuto del doppio divenire”, secondo la formula di Gilles Deleuze. Tale immagine, anzi “situazione ottico-sonora pura”, non solo viene da “un occhio dotato di capacità analitiche inumane”, come definiva il cinema Jean Epstein, capace di penetrare l’interiorità degli esseri e di modulare il puro vissuto, ma descrive un “universo alle soglie della percezione umana”, un’immagine che finisce con l’essere “l’immagine dell’inafferrabile fantasma stesso della vita”, forse “la chiave di tutto”.

Un poco fuori dalle righe ma non troppo è l’intervento di Elio Grazioli, che prende il live dalla parte della morte, a rovescio, se così si può dire, incentrando il suo intervento sulla particolarità, anzi “singolarità”, dell’opera di artisti che sanno di star per morire. Scatta qualcosa in quella circostanza di assolutamente unico, a cui alcuni artisti – qui Hans Hartung, Felix Gonzalez-Torres, Robert Mapplethorpe, Martin Kippenberger – hanno risposto con cicli di opere in cui la questione della morte e della vita è rilanciata in un rovesciamento temporale che oppone la pratica di un dopo la morte immanente al pensiero più diffuso di un dopo trascendente.

A questo testo possiamo accostare l’intervento visivo di Simone Schiesari, i cui “Creaturi” intrecciano vita e morte, reale e simulacro, passato e rifacimento – qui pulitura digitale – nella direzione, come suggerisce il titolo, del futuro piuttosto che di un luttuoso sguardo al passato.

Chiude il volume una doverosa interrogazione su che ne è dell’immagine e del suo rapporto con il live nel Web e nella tecnologia correlata. Andrea Zucchinali affronta vari aspetti della questione appoggiandosi sia ad artisti come Joan Fontcuberta o Sophie Calle, sia agli usi della fotografia ormai diffusi nel Web, “favoriti dalla sua [della fotografia] dimensione fluida-digitale combinata con lo sviluppo del suo nuovo habitat, il Web orizzontale interattivo”. È appunto questa combinazione a teorizzare oggi un nuovo genere di immagine, “connessa e “conversazionale”, che induce Zucchianali a scrivere che lì non solo si parla per immagini, ma si parla le immagini, nel senso in cui si dice che si parla l’italiano.

 

Introduzione a Imm, settembre 2017.

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