Speciale

Mirandola, 7/10 Giugno 2018 / Marcel Proust: sulla memoria

8 Giugno 2018

Quest’anno dal 7 al 10 giugno l’appuntamento è con la seconda edizione del Memoria Festival, promosso dal Consorzio per il Festival della Memoria in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Nei prossimi giorni pubblicheremo alcuni scritti di approfondimento sui temi di cui si discuterà durante il Festival, in compagnia di numerosi protagonisti italiani della cultura, del pensiero e dello spettacolo.

 

Non solo madeleine. Il tema della memoria, involontaria, inconscia, affiora più volte nelle pagine della Ricerca del tempo perduto, dalla prima resurrezione di Combray, in apertura del primo volume dell’opera, fino all’ultima serie di epifanie, quella aperta sul selciato sconnesso del cortile di palazzo Guermantes, nel Tempo ritrovato. Dentro lo scorrere ordinario, irrimediabile e entropico del tempo, la memoria irrompe inattesa a saturare in modo imprevisto un istante, quasi a isolarlo in una dimensione extratemporale, una sorta di esitazione, di interruzione che sottrae Marcel al movimento altrimenti inarrestabile e deludente della vita. Questi eventi, questi varchi aperti dai ricordi involontari non hanno però sempre lo stesso sapore, gli stessi colori. Possono essere esperienze colme di un piacere delizioso e straordinario; talvolta, invece, sono rivelazione del dolore che colma silenzioso la nostra vita.

 

«Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che si ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i miei disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove poteva giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minore forza, la stessa testimonianza. […]

E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m’aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s’era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota – erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo.

E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito (benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, le piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne,  e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè» (I, pp. 55-59, passim).

 

Illustrazione di Grau-Sala.


Siamo alle ultime pagine del primo capitolo di Combray, la parte prima del volume che apre la Recherche, Dalla parte di Swann. Nella casa di campagna dei nonni, a Combray appunto, il narratore ha trascorso tante estati, bambino e poi adolescente; e a lungo, di Combray sono sopravvissuti nel suo ricordo soltanto pochi tratti essenziali, quasi soltanto i luoghi e i protagonisti di un rito ripetuto e sofferto ogni giorno, il distacco dalla mamma la sera al momento di andare a dormire. Certo, Marcel sapeva, ha sempre saputo che Combray era stato anche altro; «ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell’intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto» (I, pp. 54-55). Il sapore della madeleine ammorbidita nella tazza di tè porta invece all’improvviso con sé il ricordo pieno, felice, integrale di Combray, delle sue strade, case, fiori, giardini, persone; la memoria involontaria, a differenza dell’intelligenza (e d’altronde, «Ogni giorno che passa attribuisco minor valore all’intelligenza», aveva scritto Proust in avvio del Contre Sainte-Beuve), restituisce il passato con una vivezza, con una intensità che sembrano sopraffare e illuminare l’istante presente. A muovere l’interesse e la riflessione del narratore, peraltro, non è tanto il meccanismo della memoria, quanto la felicità, la deliziosa voluttà, «staccata da qualsiasi nozione della sua causa», che lo aveva invaso. Come spiegarla? Quale potrebbe esserne la causa? A un’ipotesi di spiegazione Marcel perverrà soltanto al termine del lungo itinerario di vita e di conoscenza (e di morte) narrato nella Recherche; saranno le riflessioni aperte nel cortile e poi nella biblioteca di Palazzo Guermantes, in attesa di entrare nel salotto in cui si tiene la matinée a cui lo ha invitato la Principessa di Guermantes, a svelare la relazione tra memoria, arte, rivelazione della bellezza e del significato delle cose. Quella felicità, si apre a chi nel ricordo involontario viva l’improvvisa e inattesa restituzione di qualcosa che assomiglia al senso della vita, alla ricomposizione in unità della totalità del mondo; senso, unità che l’arte, la letteratura in particolare, cercano di dire, di fissare. «La grandezza dell’arte vera – quella che il signor di Norpois avrebbe chiamato un gioco da dilettanti –  era di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, rispetto alla quale deviamo sempre di più a mano a mano che prende spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale con cui la sostituiamo – quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta, e che è, molto semplicemente, la nostra vita. La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura» (IV, p. 577).

 

Il senso ritrovato, però, è fragilissimo. Qualcosa che assomiglia a una bolla iridata, instabile – che ha l’evanescenza di una bolla di sapone, e la sua inconsistenza. E già lo svelano molti ricordi involontari, che sono semplicemente irruzioni di un dolore estremo, insopportabile. Marcel ce lo aveva già raccontato, ancora nel primo volume della Recherche, quando ci aveva narrato della serata trascorsa da Charles Swann a casa della marchesa di Saint-Euverte.

 

«Ma il concerto ricominciò e Swann si rese conto che non avrebbe potuto andarsene prima della fine del nuovo pezzo in programma. Soffriva di restare imprigionato fra quella gente, la cui stupidità e ridicolaggine lo colpiva ancor più dolorosamente perché, ignari del suo amore, incapaci, se anche l’avessero conosciuto, di prestarvi interesse e di fare altro che sorriderne come di una puerilità o deplorarlo come una follia, glielo mostravano sotto l’aspetto di una condizione soggettiva, esistente solo per lui, la cui realtà non riceveva alcuna conferma esterna; soffriva soprattutto, e al punto che persino il suono degli strumenti gli faceva venir voglia di urlare, del protrarsi del suo esilio in quel luogo dove Odette non sarebbe mai venuta, dove nessuno, niente la conosceva, dal quale lei era totalmente assente.

Ma, tutt’a un tratto, fu come se fosse entrata, e quella apparizione gli inflisse una così lacerante sofferenza che fu costretto a portarsi la mano al cuore. Il violino, infatti, era salito a note alte e lì restava come per un’attesa, un’attesa che si prolungava senza che rinunciasse a tenerle, nell’esaltazione che gli veniva dallo scorgere già l’oggetto della propria attesa che s’avvicinava, e compiendo uno sforzo disperato per cercar di resistere fino al suo arrivo, di accoglierlo prima di spirare, di far sì con tutte le sue forze che il varco rimanesse aperto ancora un attimo perché potesse passare, come chi regga il peso di una porta che altrimenti ripiomberebbe. E prima che Swann avesse il tempo di capire, di dirsi: “È la piccola frase della sonata di Vinteuil, non ascoltiamo!”, tutti i ricordi del tempo in cui Odette era innamorata di lui, i ricordi che fino a quel giorno era riuscito a custodire, invisibili, nella profondità del suo essere, ingannati da quell’improvviso raggio del tempo d’amore, supponendolo ritornato, si erano ridestati e, a volo d’uccello, erano risaliti a cantargli perdutamente, senza pietà per la sua presente sventura, i ritornelli dimenticati della felicità.

 

Invece di espressioni astratte come “il tempo in cui ero felice”, “il tempo in cui ero amato”, che fino allora aveva pronunciato spesso e senza troppo soffrirne, poiché il suo intelletto vi aveva racchiuso, del passato, solo certi pretesi estratti che non ne serbavano traccia, ritrovò tutto ciò che di quella felicità perduta aveva fissato per sempre la specifica e volatile essenza; rivide tutto, i petali arricciati e nevosi del crisantemo che lei gli aveva gettato nella carrozza e che lui s’era tenuto stretto contro le labbra – l’indirizzo in rilievo della Maison Dorée sul messaggio dove aveva letto: “La mia mano, mentre vi scrivo, trema così forte” – l’accostarsi delle sue sopracciglia quando gli aveva detto in tono supplichevole: “Non aspetterete troppo a chiamarmi?”; sentì l’odore del ferro del parrucchiere dal quale si faceva sistemare la pettinatura “a spazzola” mentre Loredan andava a prendere la piccola operaia, i rovesci di pioggia così frequenti in quella primavera, il gelido ritorno nella sua victoria, al chiaro di luna: tutte le maglie di abitudini mentali di impressioni stagionali, di reazioni cutanee che avevano steso sul succedersi di quelle settimane una rete uniforme nella quale il suo corpo si trovava di nuovo imprigionato. […] Ricordò, per sua sventura, la voce di Odette mentre esclamava: “Ma io potrò vedervi sempre, sono sempre libera!”, lei che adesso non lo era mai, non lo era più!, il suo interesse, la sua curiosità per la vita di lui, il suo appassionato desiderio che Swann le concedesse di penetrarvi – aspirazione che allora, invece, egli temeva come causa di fastidiosi scompigli –; quanto aveva dovuto pregarlo perché si lasciasse portare dai Verdurin; e, ai tempi in cui la lasciava venire a casa sua una volta al mese, quanto aveva dovuto decantargli, prima ch’egli si piegasse, la dolcezza di quell’abitudine di vedersi ogni giorno che lei allora sognava, mentre a lui sembrava soltanto una piccola, noiosa calamità, e che poi lei aveva preso a detestare e aveva definitivamente interrotta, mentre era divenuta per lui una così invincibile e dolorosa esigenza. […] E Swann vide, immobile davanti a quella felicità rivissuta, un infelice che gli fece pena perché dapprima non lo riconobbe, al punto che gli toccò abbassare gli occhi perché non si vedesse che erano pieni di lacrime. Era lui stesso» (I, pp. 416-419, passim).

 

Il ricordo dei tempi felici con Odette riaffiora insopportabile nelle note della sonata di Vinteuil, nella “piccola frase” che era stata «come l’inno nazionale del loro amore». Quando Swann si reca a casa di Madame de Saint-Euverte il suo amore per Odette non è più, e da tempo, quello degli inizi; è invece ormai un amore tutto intessuto di sofferenze, ansie, gelosie, sempre e di nuovo alimentate dalle ambiguità dell’amata, dalla sua inafferrabilità, dal suo crescente distacco. Di questa sofferenza, peraltro, Swann non è del tutto consapevole; il mutamento progressivo, graduale dei modi di Odette nei suoi confronti lo ha ferito nell’anima, in profondità, in un luogo così riposto da poter essere eluso, nascosto, tenuto celato prima di tutto a sé stesso. «Si diceva sì, in astratto: “C’è stato un tempo in cui Odette mi amava di più”, ma, quel tempo, non lo rivedeva mai» (I, p. 389). Il lavorio incessante dell’intelligenza non svela la verità, ma mira a nascondere, mitigare, rendere sopportabile la fine dell’amore. E poi, all’improvviso, il vero. Ancora una volta, un insieme di sensazioni travolge senza preavviso la quotidianità, il suo grigiore e la sua continuità rassicurante, la sua confortevole banalità. La memoria involontaria porta anche qui a una resurrezione, non di una piccola città, delle sue estati, colme di zie genitori biancospini fanciulle irraggiungibili, ma di un amore e della sua felicità volatile, effimera. La promessa di conoscenza insita nel sapore della madeleine trova qui un compimento differente; se è conoscenza, il contenuto della promessa insita nelle epifanie che costellano l’esperienza di Marcel, è cognizione del dolore. Dell’ineliminabile fragilità del senso, o di ciò che gli assomiglia. Di un tempo che si incarna, incorporato, trasformazione lenta ma inarrestabile, movimento verso la distruzione e la morte. 

 

Le citazioni sono tutte tratte dalla traduzione italiana di Giovanni Raboni, M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1983-1993, 4 volumi. 

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