Atelier dell’Errore / Piccola Liturgia Errante

Jack London, l’enfant terribile della letteratura americana, diventa uno dei più noti scrittori a ventiquattro anni, dopo aver tentato la fortuna in mille modi, come pirata di ostriche nella baia di San Francisco, cercatore d’oro nel Klondike o cacciatore di foche nel Pacifico. Un’esperienza determinante nella sua formazione fu il periodo di vagabondaggio, quando ancora teenager si unì ai numerosi gruppi di adolescenti senza famiglia che vagavano come piccole bande di diseredati in giro per gli Stati Uniti. Nel libro autobiografico The Road London racconta di alcune cose fondamentali per la sua carriera letteraria apprese in quel suo vagabondare senza meta: oltre alla lingua viva, espressiva, potente parlata dai suoi compagni di ventura, una lingua certo non libresca né di maniera, London imparò l’importanza di saper raccontare storie. Per essere capaci di procurarsi il cibo necessario per sopravvivere bisognava essere bravi narratori. “Dall’abilità di raccontare storie dipende la riuscita di un mendicante” scrive London; devono essere storie verosimili, non necessariamente vere, storie spesso inventate al momento, in risposta a situazioni impreviste, guardando in faccia il proprio interlocutore e giocando su ciò che si sa e su ciò che si riesce a immaginare. Questa abilità permise a London di sbarcare il lunario e a volte anche di evitare l’arresto.

 

Che il raccontare storie sia stato e sia necessario nell’evoluzione dell’homo sapiens è ormai luogo ricorrente nella critica letteraria, nella psicoanalisi, nelle scienze cognitive. Testo ricco e sollecitante per questo è il recente studio di Michele Cometa Perché le storie ci aiutano a vivere (Cortina 2017). Raccontare storie ci permette di collegare gli attimi della vita, le visioni, i traumi e di dare un senso unitario, certo ipotetico, a ciò che ci accade attorno. 

Ma le storie non sono solo salvifiche per chi le costruisce, possono salvare la vita (o aiutare a comprenderla un po’ meglio) anche a chi le ascolta o le vede rappresentate. Aristotele parlava di catarsi come momento di purificazione dalle o delle passioni che l’uditorio sperimenta quando assiste a una tragedia riuscita, quelle che sono capaci di trasportarti in un mondo altro, nel quale, senza fatica, si è disposti a sospendere tutti i propri pregiudizi e a mettere tra parentesi tutte le proprie categorie interpretative, abbandonandosi alla situazione rappresentata per vedere cose che prima non si vedevano in modo così chiaro e profondo. Non succede sempre, perché non sempre il racconto ci spinge in quello stato di sospensione e di empatia, ma ogni tanto capita quello strano corto circuito di passioni che fanno di una narrazione, qualsiasi sia la sua forma, un’opera poetica. Le storie fanno bene a chi le narra e, se ben raccontate, fanno bene anche a chi e ascolta, e questa è la sensazione che abbiamo provato al termine della Piccola Liturgia Errante, messa in scena alla Triennale Teatro dell’arte di Milano nel novembre scorso. Una sensazione che abbiamo visto condivisa da tutto il numeroso pubblico presente al “reading-video-performativo” dell’Atelier dell’Errore.

 

Uno degli obiettivi dell’Atelier dell’Errore, laboratorio creativo e scuola di alti studi su insetti e animali apotropaici e protettori, di cui si è parlato ripetutamente nelle pagine di Doppiozero partendo anche dal sorprendente Atlante di Zoologia profetica (Corraini 2016) curato da Marco Belpoliti, era di dare la possibilità a dei ragazzi di raccontare e raccontarsi attraverso il disegno. L’Atelier dell’Errore, come si legge nella home page della ONLUS, è «un laboratorio di Arti Visive progettato da Luca Santiago Mora per la Neuropsichiatria Infantile». L’atelier è nato nel 2002, come servizio integrativo all’attività clinica dell’AUSL di Reggio Emilia e, in seguito, dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Oltre ad essere un «valido complemento all'attività clinica della Neuropsichiatria Infantile» è «anche opera d'arte relazionale, e come tale ha partecipato a numerose esposizioni e manifestazioni legate all’arte contemporanea in Italia e all’estero». L’autodefinizione di «opera d’arte relazionale» è rilevante. Si pone l’accento non sulle opere che vengono prodotte, ma sull’atelier in quanto tale: è il processo, il luogo, l’attività in sé ad essere «opera d’arte relazionale», non tanto l’oggetto finito ed esposto.

 

Il lavoro è infatti il risultato di un percorso collettivo, in cui i ragazzi realizzano collegialmente disegni di animali, condotti dall’artista visivo Santiago Mora, una guida che si muove con discrezione, che non impone ma che accompagna, un «maestro alla pari solo un po’ più vecchio (…) che passa fogli e matite e un po’ di tecnica» (C. L. Candiani, Sbaglio, in Atlante di zoologia profetica, cit., p. 188). Quello del tema (animali) e dei materiali da usare (matite, matite colorate, pastelli a cera) sono alcuni dei pochi vincoli dell’atelier; il resto è il tentativo, come racconta Santiago Mora, di creare delle relazioni fra ragazzi con «ritardi più o meno gravi, difficoltà di apprendimento, dislessie, disprassie, sindromi dai nomi aggraziati e quanto mai traditori (Turette, X-fragile...), ipercinesi, fino al misterioso ed onnivoro contenitore dell’autismo» (“Doppiozero”, 23 gennaio 2013). Più ragazzi lavorano insieme, con pazienza e minuziosità certosina, alla creazione di uno stesso disegno, a volte di grandi dimensioni. Il ragno riprodotto nella copertina del volume, ad esempio, è 300 x 240 cm. In un altro disegno, L’attacchista del canile, pure di dimensioni considerevoli (150 x 230 cm), o nel Vendicatore di notte (120 x 200 cm.), tutti riprodotti nell’Atlante, si nota la forma insolita e irregolare del foglio. È il disegno che sembra dettare lo spazio di cui ha bisogno; se questo spazio manca, allora non si deve far altro che assecondare le esigenze del disegno e aggiungere il supporto cartaceo dove necessario. Infatti, un altro dei vincoli che l’atelier si è dato è il divieto di usare la gomma da cancellare. Ogni segno è importante. Anche quelli prodotti per errore, che diventano così, al pari di qualunque altro segno “intenzionale”, parte integrale e ineliminabile dell’animale che sta prendendo corpo; un corpo non programmato né pre-visto, che è frutto di una relazione produttiva fra più soggetti, che a volte aggiungono, anche a distanza di tempo, dei particolari, come nel caso delle enormi zampe del ragno, rendendo necessaria la dilatazione dello stesso supporto cartaceo.

 

Nel 2015, ospitato dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, viene creato l’Atelier dell’Errore BIG, “alta scuola di specializzazione e professionalizzazione nell’ambito delle arti visive nata su sollecitazione dei genitori dei ragazzini che con la maggiore età, lasciando la Neuropsichiatria Infantile, non avrebbero più avuto la possibilità di proseguire il loro percorso artistico con l’Atelier”.  

Rocco Ronchi, in uno degli interventi apparsi su Doppiozero e al quale rimandiamo per comprendere meglio il senso profondo di questa singolare e luminosa esperienza etica ed estetica, sottolinea la differenza fra archetipo e prototipo. Per Ronchi gli iconotesti elaborati nell’atelier – i disegni di insetti e animali fantastici sono infatti corredati da titoli altrettanto immaginifici e da frasi che integrano il disegno stesso ampliandone il respiro narrativo – non sono rivisitazioni di archetipi nel senso junghiano, ovvero modelli simbolici predefiniti e universali, ma sono piuttosto prototipi, cioè entità prime che sono in cerca di una loro definizione compiuta che può realizzarsi solo nel loro divenire, nel loro entrare nel mondo. Scrive Ronchi (“Doppiozero”, 3 marzo 2017):

 

I prototipi differiscono radicalmente dagli archetipi perché sono macchine che funzionano come schemi operativi. L'Archetipo-Idea è un fatto. L'Archetipo è un modello trascendente che può essere solo imitato in modo più o meno adeguato, ma comunque, sempre difettivamente. L'archetipo è un Simbolo. Il prototipo, invece, è qualcosa che non può prescindere dal suo ulteriore sviluppo, è un essere che è fatto tutto di divenire, che ha bisogno del divenire (un divenire altro) per essere quello che (non) è. Se è un prototipo, non è per definizione compiuto, ma è sempre da fare. Nel corso del suo sviluppo cambia incessantemente. Deve cambiare. La sua essenza lo richiede. L'errore lo costituisce da capo a piedi perché se non fosse errante non sarebbe affatto un buon prototipo, cioè una macchina da sviluppare.

 

Le narrazioni prototipiche raccontate da queste opere a un certo punto della storia dell’atelier hanno sentito l’esigenza di trovare altri modi di raccontarsi. L’errore si fa erranza. L’opera chiama nuove traduzioni e adattamenti e metamorfosi. È nata così l’idea di mettere in vita, attraverso la messa in scena, gli animali raffigurati nelle tavole, raccontando, secondo le modalità della rappresentazione mimetica, che cosa avviene nel laboratorio creativo dell’atelier. 

Il teatro, sappiamo bene, è luogo statutario del come se, è fantasticheria e modo di creazione d’irrealtà. Il pubblico di una rappresentazione teatrale è consapevole di partecipare ad una finzione a cui, con la complicità degli attori, decide di aderire per tutto il tempo della messa in scena come se si trattasse della verità. Il tempo e lo spazio del teatro, come quelli delle fiabe, sono un tempo e uno spazio speciali, di sospensione delle categorie della realtà. Ed in questo spazio e tempo di sospensione, in cui prende forma l’evento teatrale come gioco del come se, di finzione del vero, è inserito lo spettatore per prendere parte a quel gioco, facendo finta di credere alla verità di ciò che accade in scena. Eppure, questa prima drammaturgia dell’AdE – perfetto e terribile acronimo di Atelier dell’Errore inventato da uno dei ragazzi – fa saltare immediatamente tutte le nostre categorie di spettatori complici di una finzione, perché gli attori non sono attori e, soprattutto, perché nulla è concesso alla dissimulazione o alla fascinazione dello spettacolo. Mentre prendiamo posto in sala siamo del resto avvertiti da Santiago Mora che “questo non è uno spettacolo”, che “tutto ciò che vediamo è già accaduto”.

 

 

Nessuna costruzione finzionale e nessun aristotelico compromesso spettacolare dunque, ma il racconto di un’esperienza in cui si inseriscono, come medaglioni, le storie degli animali nati dalla fantasia creatrice dei giovani artisti dell’atelier.

Una gemma narrativa è già il titolo scelto per questa singolare esperienza performativa, Piccola Liturgia Errante, che è Piccola, si legge nel libretto di sala, perché “vive dei corpi, dei gesti e delle voci narranti di piccoli performer che non vengono da alcuna scuola di teatro”; è una Liturgia perché “vuole essere un rituale scenico di auto-rappresentazione in cui l’atelier si racconta a mani nude al proprio pubblico”; ed è Errante “come tutto ciò che nasce in atelier, perché frutto dell’inciampo, dell’imprevisto, dell’inedito e dell’inenarrabile”. 

 

È lo stesso Santiago Mora a fare da guida al racconto, voce narrante appostata dietro un semplice banchetto di scuola, defilato maestro di scena e sommessa presenza con la sua liturgia di movimenti minimi che indirizzano i giovani artisti, proprio come accade quando si trovano in atelier alle prese con fogli e matite. Santiago Mora crea la cornice narrativa di questo miracoloso contenitore di storie, che si apre su una scena essenziale. A sinistra il banchetto di scuola che occuperà il “maestro alla pari, solo più vecchio” Santiago Mora, a destra, a terra con lui, due giovani artiste piegate su un foglio a disegnare, al centro un grande mucchio di sabbia, simile ad un vulcano pronto a risvegliarsi.

Su uno schermo largo quanto il palco ha inizio intanto la prima storia, racconto visivo del minuscolo corpo di una delle ragazze dell’atelier che danza inginocchiata sul pavimento. Nel primo dei molti giochi di specchi in cui la scena teatrale ripropone un perfetto raddoppiamento dell’immagine sullo schermo, capiamo che si tratta della stessa artista che disegna curva sulle tavole del palcoscenico. Non ne incrociamo mai lo sguardo, ma solo il movimento del corpo e delle mani che, in questa danza piena di grazia, cercano il volto di una compagna per accarezzarlo, abbellirlo con una coroncina di fiori, nutrirlo, lavorare insieme per costruire bellezza. Sin da questa prima scena il teatro traduce mirabilmente l’idea dell’atelier come “opera d'arte relazionale”. 

 

 

Altri racconti visivi partono dallo schermo, impiegato come dispositivo scenico, restituendo immagini di lava incandescente, che sembra scaturire da quel vulcano di sabbia innalzato sul palco, e di un formicaio brulicante. Due immagini ctonie, efficaci traduzioni visive di quel terrifico AdE che è l’Atelier dell’Errore, luogo dell’ombra dove lavorano gli invisibili, luogo germinante di storie che raccontano resti rifiutati, luogo di creazione di immagini che riproducono la vita incandescente dei ragazzi, la loro anima inquieta. Ma la lava, il formicaio, il disegno di Nicolas dal titolo La Remora AdE proiettati sullo schermo non fanno altro che dirci, con Eraclito, che “il medesimo sono Ade e Dioniso” (Frammento 123), che c’è identità fra l’oscurità e l’invisibilità di Ade e l’esplosiva pienezza della vita di Dioniso, dio dell’ebbrezza e del teatro. 

E allora, come accade nello spazio dell’atelier in cui i ragazzi disegnano con ritrovata libertà i loro animali mostruosi perché li difendano, li vendichino e facciano giustizia, anche il teatro, nella sua autentica radice etimologica di luogo e tempo privilegiato di visione di ciò che non è immediatamente percepibile, può creare fessure nelle incrostazioni, nei pregiudizi dei ”volgari normaloidi”, come li chiamano i ragazzi, può farsi spazio elettivo in cui dare nuova forma e suono a quei mostri che i ragazzi custodiscono, consentendo loro di raccontare ad alta voce, per esempio, che l’occhio destro della Remora AdE si chiama “rabbiometro”, perché serve a misurare il grado di rabbia che uno ha in corpo: “1: normale, 2: nervoso, 3: arrabbiato, 4: arrabbiatissimo, 5: spaccatutto, 6: tira giù i grattacieli (con la trancia) (trancia: macchinario che taglia tutto fatto così…), 7: piega i pulman (con 2 cacciaviti), 8: ingobba i gorilla, 9: sfonda tetto (con utensili da pugilato)”. 

 

 

Alle narrazioni che si susseguono per via esclusivamente visiva si intrecciano le storie personali dei giovani artisti dell’atelier, affidate alla voce narrante di Santiago Mora, e le storie favolose dei potenti mostri generati dalla loro fantasia. Il Tritaossa Mangiaparenti, il Drago Medusa Palline in Testa, l’Animal Tosto Morte, la Farfalla Pregante di San Pancrazio, l’Immane RagnoFerro di Curnasco sono presentati sullo schermo e descritti verbalmente in scena, in una forma di contesa ecfrastica fra la pictura e la poёsis complicata dalla dimensione performativa della narrazione. Durante la performance, attraverso la voce e i corpi degli attori-non attori, i disegni sembrano di fatto staccarsi dalla loro statica riproduzione sullo schermo, per materializzarsi e animarsi. La “dinamizzazione delle immagini” (M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Cortina, 2012), tecnica ecfrastica che crea l’effetto di una messa in movimento dell’immagine, è qui rinforzata dall’interazione fra la parola e le retoriche del gesto, del corpo e della scena. È una relazione vitale, nel senso di messa in vita, quella che si instaura fra gli animali disegnati e i corpi degli artisti che li hanno generati, una incarnazione, nel senso etimologico di farsi carne, delle immagini nei corpi dei loro stessi artefici. 

C’è un momento di questa singolare esperienza performativa in cui il patto ecfrastico sembra infrangersi, ed è quando dal quel grosso cumulo di terra al centro della scena, ossia dal sottoterra di Ade, sbuca il Cockroach, un enorme scarafaggio che “è impossibile da descrivere, si può solo vedere”.

 

Il Cockroach, nella cui corazza si nasconde e trova sicuro rifugio dal proprio tormento uno dei ragazzi dell’atelier, riemerge dalla terra e si spinge faticosamente fino in platea, mentre lo schermo, in un nuovo e singolare gioco di specchi, ne ha appena anticipato l’inquietante presenza mostrando in primissimo piano i movimenti rallentati di un vero, gigantesco insetto. La partita si gioca ora fra il corpo dell’insetto che si aggira per il teatro e la sua immagine duplicata sullo schermo, in un dialogo fra due media in cui l’unico inserto ecfrastico consentito all’elemento verbale non può essere meramente denotativo, ma lirico. Ed è qui che si inserisce la voce decisa di Matteo, che urla ispirato, in un inglese sorprendente, il Psalm III di Allen Ginsberg, il cui ultimo verso, “I feed on your Name like a cockroach on a crumb – his cockroach is holy” ricorda di nuovo allo spettatore, in un momento ad altissimo gradiente lirico, la coincidenza del basso e dell’alto, dell’immondo e del divino, dell’oscurità e dell’ebbrezza che convergono nel qui e ora della scena, come nella vita di questi ragazzi e nel loro lavoro all’atelier.  

 

 

E mentre il Cockroach lascia la platea, ancora due immagini potenti ci visitano attraverso lo schermo. La prima è quella della giovanissima artista rinchiusa nel suo piccolo corpo che avevamo incontrato all’inizio, intenta a tracciare nell’aria, con la sua matita che ora sembra una bacchetta magica, dei lenti movimenti di danza; l’ultima immagine, mentre Santiago Mora e i suoi ragazzi raccolgono in grossi sacchi il vulcano di sabbia ormai distrutto dal Cockroach nella sua emersione dal sottosuolo, è quella di un altro vero insetto, osservato  nel suo eroico sforzo di arrampicarsi sul vetro scivoloso di una finestra per raggiungere la luce, proprio come il Cockroach e come tutti i giovani artisti dell’AdE. E anche il suo sforzo è simile a una danza. 

 

In un breve e potente manoscritto postumo del 1932 dal titolo Racconto e cura, che riportiamo integralmente dal libro già citato di Cometa Perché le storie ci aiutano a vivere, Walter Benjamin dà conto della singolare terapia contro il dolore messa in atto dalla moglie del suo amico filosofo Felix Noeggerath: 

 

 

Noeggerath mi sorprese raccontandomi dei poteri curativi che abitavano le mani della sua seconda moglie, e definendo con le seguenti parole i movimenti di queste mani che lenivano il dolore e curavano: questi movimenti erano altamente espressivi. Ma non si sarebbe potuto descrivere (beschreiben) la loro espressione – era come se raccontassero una storia. Ora i Merseburger Zaubersprüche danno un esempio – certo uno tra i tanti – di cura attraverso il narrare. È noto per altro che il racconto che il malato fa ascoltare al medico all’inizio della cura può rappresentare l’inizio di una guarigione. La psicoanalisi fa così in certi casi. E sorge la domanda se ogni malattia che si lasciasse confluire in un profondo e sufficientemente ampio flusso del racconto non fosse di per sé curabile. E il fatto diventa ancor più chiaro se si considera che il dolore non si lascia raccontare; che in qualche modo sbarra la strada come una diga ai succhi vitali che, come affluenti, vorrebbero sfociare nel grande flusso epico dell’esistenza (Dasein), della vita raccontabile. (pp. 350-51) 

 

 

I soli gesti delle mani della donna bastano dunque per costruire una narrazione, è come se raccontassero una storia, anzi sono già essi stessi una narrazione ad alto potere terapeutico. Anche i movimenti delle mani dei ragazzi dell’atelier compiuti sui fogli da disegno, così come quelli dei loro corpi in scena, raccontano storie. E sono storie per lo più tremende, di paura, di rabbia, di giustizia e vendetta, escluse dal flusso della vita raccontabile attraverso il solo discorso. Sono i gesti muti e i corpi di questi giovani artisti a tentare di articolare narrativamente la vita magmatica che essi custodiscono. E per noi “normaloidi” è come quando si fa rotolare un sasso e si scopre un formicaio brulicante di vite. Non si può far finta di niente, ricoprirlo, e via. 

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