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Intervista a Suad Amiry / Quando Damasco era un paradiso

18 Aprile 2016

 

Suad Amiry, autrice di Sharon e mia suocera, il suo primo romanzo in cui raccontava l’assedio di Ramallah, la città nella quale vive in Palestina, da parte degli israeliani, e di Golda ha dormito qui nel quale racconta delle antiche dimore palestinesi confiscate dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, torna al romanzo con Damasco. Si tratta della saga del lato materno della sua famiglia, ambientata in uno dei più sontuosi palazzi della città vecchia, palazzo Baroudi, di proprietà del ricco mercante Jiddo, suo amatissimo nonno. Suad Amiry vi racconta i riti e i legami di una grande dinastia dal 1862 fino ai nostri giorni, i segreti e i rimossi di una famiglia potente e riesce nell’intento di restituirci un Medio Oriente meraviglioso e raffinatissimo. Gli antichi suq delle spezie e dei gioielli, i riti dei grandi ricevimenti del venerdì, le abluzioni negli hammam privati, una quotidianità che procede anno dopo anno seguendo il consolidato ritmo delle convezioni familiari, all’interno delle quali sono accolti e messi a tacere anche segreti e scandali. In un racconto che a tratti ha la superficie traslucida di un sogno, con una delicatezza e un’ironia di visione che contrastano con la violenza della Storia che sconvolgerà per sempre i profili medio-orientali, Suad Amiry indaga il senso di bellezza e di perdita della complessità di un mondo e di una cultura che il presente sembra voler radere al suolo. È la bellezza, che pare Amiry voglia rievocare, l’amore per la sua terra e per la sua cultura in un momento così tragico come quello contemporaneo in cui alla parola Siria il lettore si è abituato ad associare solo immagini di dolore e devastazione. Amiry gioca il registro inverso. Racconta la storia della sua Damasco, del coraggio e della forza delle donne della sua famiglia, della cultura complessa di una delle città più antiche al mondo, mosaico multiculturale e crocevia di attraversamenti millenari, in una lunga e meravigliosa dedica d’amore.

 

In Damasco racconti la storia del ramo materno della tua famiglia dal 1862 fino a nostri giorni. Perché hai deciso di raccontarla?

 

La parte materna di una famiglia è sempre una parte forte nella vita di una persona, e questo vale soprattutto nel mio caso. Mia madre era siriana, proveniva da una meravigliosa casa di quella stupenda città che è Damasco. Mio padre era palestinese, originario di Jaffa, e perse la sua casa. Così sono solita dire che sono cresciuta con l’assenza di una casa e con la presenza molto forte di un’altra casa. Essere palestinesi dopo il 1948 significava in moltissimi casi essere dispersi o rifugiati, quindi non sarebbe stato così facile recuperare il lato paterno della storia della mia famiglia. Damasco in realtà è iniziato con Sharon e mia suocera, il mio primo romanzo. Nell’introduzione del libro raccontavo l’incontro di mio padre e mia madre e ricordo bene che Feltrinelli, il mio editore, e soprattutto Alberto Rollo, apprezzarono quelle pagine dedicate alla mia parte siriana. Ho pensato a lungo a quando e a come scrivere questa storia ma per via della mia ossessione con la Palestina ho continuato a scrivere di cosa significasse viverci giorno dopo giorno. Deve essere stato quello che è successo in Siria, la distruzione del Paese a causa della guerra, ad avermi spinto a scrivere. Quando ho iniziato a vedere centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare il Paese e a diventare rifugiati, in Turchia, in Grecia e in Europa, ho sentito un grande dolore. Perché la Siria è sempre stata un Paese meraviglioso, non ricco, ma in cui le persone potevano vivere con dignità. È una sofferenza ora constatare come le persone associno la Siria alla distruzione e alla tragedia. La gente guarda ai rifugiati e pensa che queste persone non abbiano storia, non abbiano cultura, non abbiano tradizioni musicali o culinarie. Questa è la cosa che mi addolora di più. Ho già vissuto lo stereotipo legato ai palestinesi e so molto bene cosa significhi essere rifugiati e come il mondo continui a percepire i rifugiati. Attraverso questo libro ho voluto riappropriarmi della parte siriana della mia storia, riappropriarmi della bellezza di Damasco, della nostra casa, ma anche della storia delle donne della mia famiglia. Quello sulle donne arabe, musulmane e arabe, è un altro grande stereotipo che conosco bene. Inconsciamente credo di avere voluto raccontare questo libro per rendere giustizia a questa storia. 

 

La storia di una famiglia e di un palazzo, ma anche di un Medio Oriente che non esiste più.

 

Quando ho iniziato a scrivere Damasco credevo di provenire da una famiglia felice. Ma nel processo di scrittura ho scoperto così tanti nuovi dettagli che a tratti ho avuto l’impressione di raccontare la famiglia di qualcun altro. Quando ho finito la stesura del romanzo, ho capito che si tratta di un libro sulle donne e che riguardava le donne. Non solo quelle della mia famiglia ma anche le donne che stavano a servizio nel grande palazzo di mio nonno. La tragedia di ragazze che iniziavano a prestare servizio quando erano poco più che bambine e che spesso erano vendute dai padri in una forma moderna di schiavitù. Scrivere Damasco mi ha anche riportato a Damasco, al suq Al Hamidiya, alla meravigliosa città vecchia e al ricordo di mia madre che (pur avendo vissuto a Gerusalemme, Amman e in altre città) non ha mai riconosciuto nessun’altra città in Medio Oriente se non Damasco. Damasco e solo Damasco. 

Le relazioni familiari sono tra le più complesse in assoluto. Ogni famiglia ha un segreto, qualcosa di oscuro al suo interno. Quando ho scoperto il segreto della mia famiglia, all’età di cinquantacinque anni, mi sono chiesta in che diamine di famiglia avessi vissuto e scrivere questo libro mi ha insegnato a riflettere sulla mia storia familiare in modo onesto.

Per esempio penso spesso alle mie due zie, Laila, che di fatto diresse con piglio sicuro la casa paterna, e la dolce Karimeh, che non si sposarono mai e lavorarono entrambe e che adottarono ed educarono da sole una bambina – mia cugina Norma –

 a Damasco e poi in Giordania a metà del XX secolo. Oggi, negli Stati Uniti come in Europa, la maternità e le adozioni sono al centro di dibattiti cruciali; maternità surrogata, maternità biologica, step child adoption, adozione per donne nubili, adozioni per coppie omosessuali etc. Noi, in famiglia, abbiamo sempre considerato le nostre due zie con la bambina come qualcosa di normale, non ci abbiamo mai trovato nulla di strano. E allora trovo alcuni aspetti di questa storia di una contemporaneità sconcertante. A volte società che noi definiamo tradizionali si sono dimostrate molto più accoglienti e aperte delle società contemporanee.

 

Damasco così come Golda ha dormito qui sono romanzi al centro dei quali ci sono le case: la casa intesa come simbolo di appartenenza e di spoliazione. In che modo la tua formazione di architetto si collega con la tua produzione letteraria? Sono entrambi aspetti collegati alla necessità di preservare l’identità di un territorio costantemente sotto assedio?

 

Sono un architetto per formazione e come sai bene sono diventata una scrittrice per puro caso. I motivi che mi hanno spinto a diventare architetto sono collegati sia a Damasco che alla distruzione della Palestina. Quando rifletto sul perché io abbia scelto questa professione, credo che la motivazione sia nell’idea estesa di casa e di perdita della propria casa. Quando vivi in un posto come la Palestina, spesso il concetto di perdita del tuo Paese diventa un discorso politico e astratto, ma quello di cui le persone hanno sofferto e soffrono di più è la perdita del proprio giardino, delle proprie piante, del proprio soggiorno, dei propri oggetti e delle proprie fotografie, dei propri libri… Ricordo quando mia nonna paterna e mio padre parlavano della loro casa di Jaffa vicino al mare, di quando andavano a nuotare. Credo sia importante riuscire a riportare il discorso su un piano personale. Per via del trauma i nostri genitori cercavano di evitare il racconto di questa perdita straziante con noi figli. Non erano abituati a condividere con noi il loro dolore. Erano traumatizzati. Scrivere di queste case significa per me portare il discorso dal piano politico a quello umano. Le persone non realizzano che gli israeliani stanno vivendo nelle nostre case. Sarebbe importante che le persone capissero cosa significa andare nella tua casa, nel tuo giardino, e vedere un’altra famiglia che ci abita mentre tu non hai il permesso di entrare. Le persone dovrebbero iniziare a chiedersi anche in che modo la mente umana possa accettare un’ingiustizia di questo tipo. Dovrebbero cercare di capire cosa significhi perdere la propria casa per sempre e non sentirsi più a casa in nessun luogo. Che cosa è casa per me? Che cosa significa realmente questa parola per me? È a Damasco? È a Beirut? È in Palestina? Una volta che diventi rifugiato, rimani uno straniero per tutta la vita. E perché un giorno possa avvenire una pace con gli israeliani è importante che loro e che il mondo capiscano questo tipo di dolore. Penso sempre, “se solo queste case potessero raccontare la storia, quello che hanno visto e vissuto, quello di cui sono state testimoni”.

 

 

Ci puoi parlare brevemente del Riwaq Centre for Architectural Conservation?

 

Sono cresciuta a Damasco e a Beirut e la parte antica delle città è sempre stata la cosa che ho amato di più. Ho studiato architettura all’Università americana di Beirut negli anni ’70 ma l’architettura contemporanea non mi è mai veramente interessata. Quando sono arrivata in Palestina a inizio anni ’80 c’erano ancora paesaggi meravigliosi ma gli israeliani, dal 1948, avevano già distrutto con bulldozer 420 villaggi palestinesi. Ho sentito come un’urgenza cercare di preservare il patrimonio architettonico palestinese che ancora non era stato distrutto. Così nel 1990, mentre insegnavo architettura alla Birzeit University a Ramallah, ho fondato Riwaq, un centro di preservazione e tutela del patrimonio architettonico palestinese. Con Riwaq abbiamo sempre cercato di creare lavoro per la popolazione palestinese e questo è un elemento per me particolarmente importante. Con questo slogan “la creazione di lavoro attraverso la conservazione del patrimonio” siamo riusciti a dare lavoro a tanti operai palestinesi. Non so se hai letto Murad Murad

 

Sì, l’ho letto

 

Ecco quello è, tra i libri che ho scritto, quello più vicino al mio cuore. Racconto diciotto ore nella vita di Murad, un lavoratore palestinese che deve andare in Israele per potere lavorare. Tutte le difficoltà e le umiliazioni che deve quotidianamente affrontare, lui come tutti gli operai della West Bank. Con Riwaq abbiamo cercato di fare in modo che operai palestinesi come Murad non fossero costretti a cercare lavoro in Israele ma potessero lavorare in Palestina. 

 

Il lato paterno della tua famiglia proviene da Jaffa, Palestina. Come scritto in Damasco tuo padre, che era un intellettuale e un giornalista, fu costretto a lasciare Jaffa nel 1929 in seguito a un mandato di arresto per il suo coinvolgimento politico contro l’autorità britannica. Hai mai avuto la possibilità di tornare a visitare la casa di tuo padre a Jaffa? E tuo padre, ha mai avuto la possibilità di tornare nella casa della sua famiglia?

 

Nel 1968 mio padre ottenne per la prima volta dal 1948 (ndr. anno della Nakba palestinese e della formazione dello Stato di Israele) il permesso di visitare la Palestina. Al tempo eravamo rifugiati in Giordania. Con il permesso decise di ritornare a Jaffa, nel suo quartiere, nella sua casa. C’era il negozio di un barbiere sotto la casa della sua famiglia e mio padre chiese all’uomo: “chi vive ora nella mia casa?”. Il barbiere rispose che ci viveva una famiglia israeliana polacca. Allora mio padre gli chiese nuovamente: “pensa che io possa visitare la casa?” e l’uomo gli rispose di provare a bussare alla porta. Così salì le scale, bussò alla porta e una donna venne ad aprire. Mio padre si presentò, disse che quella era la sua casa e aggiunse che gli sarebbe piaciuto entrare e guardarla ancora una volta. La donna si rifiutò di lasciarlo entrare. “C’è sempre stata una fotografia di mia madre sopra il letto nella sua stanza” disse mio padre, “per caso è ancora al suo posto?”, aggiunse. Erano passati vent'anni dal quel 1948 in cui anche mia nonna era stata costretta ad abbandonare la nostra casa di famiglia. “Lei sa qualcosa di questa foto? Perché ci terrei davvero a riaverla e a portarla con me”. La donna gli sbatté la porta in faccia per non aprirla più. Mio padre tornò da solo ad Amman. Era così provato psicologicamente da quello che aveva visto a Jaffa che per un mese intero non riuscì a parlare con nessuno. Ricordo benissimo quanto questa cosa mi toccò, ero un’adolescente all’epoca, e capii che forse non avrei mai avuto la forza di passare attraverso qualcosa di così traumatico come il rimanere in piedi davanti alla casa di tuo padre e non avere il permesso di entrarci. Quando nel 1981 sono tornata a vivere in Palestina, sono andata a visitare Jaffa ma mi sono resa conto che non sarei stata in grado di reggere a quel dolore e di affrontare quell’incontro. Così, per tornare alla tua domanda, non sono mai tornata a visitare la casa di mio padre.

 

Una delle metafore per descrivere la narrativa palestinese dopo la Nakba del 1948 è l’ossessione della perdita, un trauma personale, collettivo e politico. Ci puoi parlare della “absentees property law”? 

 

La “absentees property law” è la legge attraverso la quale gli israeliani hanno legalizzato l’occupazione. Noi palestinesi, anche se presenti sul territorio, veniamo considerati proprietari assenti. Siamo costretti a vivere quotidianamente l’assurdità di avere qualcuno che vive nella casa della tua famiglia e a te, che sei lì davanti a quella porta, non è permesso entrare. È diverso che essere rifugiati in Libano, in Giordania o in America. Cosa significa dovere fare quotidianamente i conti con l’assurdità di una legge che dice che in quanto proprietario palestinese sei assente mentre tu sei lì? E sei assente solo quando si tratta del diritto di rivendicare le tue proprietà, la tua casa, le tue terre. Non sei affatto assente quando si tratta di pagare le tasse. Golda ha dormito qui parla esattamente di questo.

 

In Golda ha dormito qui c’è anche la storia del celebre Andoni Baramki, uno dei più importanti architetti palestinesi. Cosa gli successe?

 

Sai che Gabi Baramki, il figlio di Andoni, era il preside della Birzeit University, dove ho lavorato a lungo ed era anche un mio vicino di casa? Andoni è stato il più prominente tra gli architetti palestinesi. Era innamorato di una delle sue costruzioni, la casa che aveva progettato e realizzato per la sua famiglia, che era solito chiamare Nour Hayati (luce della mia vita). Dopo le espropriazioni del 1948, fu cacciato con la forza da questa bellissima casa e negli anni a seguire cercò ogni via legale per riottenere il permesso di tornare ad abitarci. Era una persona famosa e onesta, aveva tutti i documenti legali, tutte le carte e le fotografie che attestavano ogni suo possedimento e proprietà. Si presentò alla corte israeliana e vinse la causa. La corte riconobbe che la casa era di sua proprietà. Andoni quindi pensò di potere tornare a casa sua per viverci ma gli venne risposto che non era così facile perché legalmente e tecnicamente lui era considerato, dalla legge israeliana, un proprietario assente. Gli venne detto in faccia, in sua presenza, che lui era assente. Nel libro descrivo la scena in cui il celebre architetto, che era alto più di due metri, battendosi i pugni sul petto grida al giudice: “Io sarei assente? Lei crede che io sia un fantasma o cosa? La persona che in questo momento le è davanti sarebbe assente? Mi vuole fare credere questo?”. Il giudice rispose che no, certo, lui non era un fantasma ma per la legge israeliana era un assente. Andoni, distrutto dall’assurdità e dalla gravità di quell’ingiustizia, fu costretto a lasciare la corte. Non poté mai più entrare nella splendida villa che aveva costruito per la sua famiglia.

 

Puoi parlarci brevemente di Huda Al-Imam, un altro dei personaggi di Golda ha dormito qui, che tu chiami la Giovanna D’Arco della memoria palestinese.

 

Nel romanzo ho inserito molte fotografie di queste abitazioni perché le persone non realizzano quanto fossero belle le ville di cui racconto. Quella della famiglia di Huda al-Imam, o la bellissima villa Harun al Rashid della famiglia araba dei Bisharat di Gerusalemme che è stata occupata negli anni Sessanta addirittura da Golda Meir, il primo ministro di Israele, o la villa di Andoni Baramki. Le persone quando pensano ai palestinesi credono che quando diciamo che abbiamo perso le nostre case ci riferiamo a delle tende, per colpa dello stereotipo sui rifugiati. Non hanno idea del tipo di dimore di cui stiamo parlando. Quando Huda vide che a suo padre fu impedito di entrare nella loro meravigliosa casa di famiglia a Gerusalemme giurò a se stessa che se suo padre non poteva più entrare in casa sua, allora, lei non avrebbe dato il permesso a nessun israeliano di vivere in pace nella casa di suo padre. Ogni sabato si presenta davanti alla casa, entra nel giardino, in un’atmosfera del tutto kafkiana e viene arrestata dalla polizia chiamata dai nuovi occupanti. Ormai la polizia conosce bene Huda, i prigionieri la conoscono, i giudici la conoscono, e lei conosce bene tutti i giudici. Ma insiste. Per questo la chiamo la Giovanna D’Arco di Palestina. Oggi, Camilla, se tu vai a Gerusalemme e ti metti in contatto con Huda, sicuramente avrà organizzato uno dei suoi tour in cui porta le persone a vedere le antiche case palestinesi. A volte le chiedo: “Ma non sei stanca di tutto questo?” e lei mi risponde: “Certo che sono stanca”. Ma quando parlo dell’ossessione della Palestina, è di questo che parlo. Si parla sempre dell’Occupazione della Palestina, ma la cosa che ci fa più male è capire in che modo e con quale radicalità la Palestina ha occupato noi. Per esempio, ora, prendi me. In questo momento mi trovo a New York, dovrei andare fuori a fare una passeggiata a Central Park oppure a camminare sul Brooklin bridge, dovrei andare all’Opera o a vedere uno spettacolo a Broadway e invece sono qui, seduta con te, a parlare di Palestina. Il problema è che anche se tu lasci la Palestina, la Palestina non ti lascia. E questa è la vera occupazione di cui nessuno si rende conto. Prego possa esserci un giorno nella mia vita in cui non pensi costantemente al fatto che sono palestinese. Questa è la vera occupazione ed è forse ancora più difficile da sostenere dell’occupazione fisica. 

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