Letto in un’altra lingua / Ricardo Piglia, Prisión perpetua

2 Settembre 2018

Sussiste nell’opera di Ricardo Piglia un’attrazione magnetica tra narrativa e non-fiction: l’una richiama costantemente l’altra, spinge per entrare nell’ambito dell’altra e contagiarla; questa tensione a mescolare forme diverse (diario, saggio, narrativa, scrittura aforistica), in Piglia riguarda in modo intimo il dualismo finzione-realtà e rappresenta una declinazione peculiare della figura del bovarismo.  

 

Bovarismo, scrive Piglia a proposito di Anna Karenina, è “l’illusione di realtà della finzione come segno di ciò che manca nella vita” (“La lanterna di Anna Karenina” in L’ultimo lettore, Feltrinelli, 2007, p.128, traduzione di Alessandro Gianetti). Tuttavia questa figura, nell’opera dello scrittore argentino, si trasferisce da una dimensione tematica a un’altra più profonda, strutturale: l’interferenza finzione-realtà è il modo stesso in cui i suoi testi sono costruiti. 

 

“Patricio Pron: Credo di aver scoperto che la storia del gatto che sceglie di tornare a vivere in strada dopo aver trascorso un breve periodo in casa del protagonista [di Solo per Ida Brown] si trovava già negli estratti del tuo diario pubblicati da Babelia. Qual è la relazione tra Solo per Ida Brown e i diari? Come circolano i materiali?

Ricardo Piglia: La storia del gatto (che è vera) è accaduta a Buenos Aires, all’angolo di casa mia, ed è uno dei materiali che poi sono confluiti nella finzione come blocchi di realtà. Questo accade in tutti i miei romanzi, in particolare in quelli il cui narratore è Emilio Renzi: qui, la relazione tra finzione ed esperienza è più diretta e i materiali vissuti vi entrano in modo naturale”.

(Letras Libres, 10 novembre 2013, il corsivo è mio.)

 

La tensione tra finzione e realtà si traduce nella circolazione di materiali dai testi di non-fiction a quelli narrativi “come blocchi di realtà”. Questo procedimento, all’opera in tutti i romanzi di Piglia, trova un’espressione particolarmente radicale in Prisión perpetua, testo narrativo costituito da due nouvelles, pubblicato per la prima volta da Editorial Sudamericana nel 1988 e ripreso in Spagna da Anagrama nel 2007. 

 

 

La prima nouvelle, “Prisión perpetua” si apre di fatto con un calco letterale dal primo volume de Los diarios de Emilio Renzi, Años de formación (Anagrama, 2015). Il tempo della storia comincia con la prima pagina del diario che l’alter ego dello scrittore argentino, Emilio Renzi, scrive nel 1957. È la cronaca di un trasloco, per ragioni politiche, da Adrogué a Mar del Plata, l’inizio di un viaggio e di una sorta di iniziazione. A Mar del Plata, a diciassette anni, Piglia scopre la vertigine della letteratura, per il tramite di “un tipo eccezionale, a cui in un certo senso devo tutto. Senza di lui”, scrive Piglia nei panni di Renzi, “non avrei scritto i libri che ho scritto” (Prisión perpetua, Anagrama, 2007, p. 19). Questo “tipo eccezionale” è Steve Ratliff detto El Inglés, statunitense di New York, il quale “scrisse per tutta la vita ma pubblicò solo quattro racconti”. Ratliff inizia Piglia a Faulkner, a Henry James, a Fitzgerald. Ratliff “intendeva affondare nel mare dell’esperienza per distillare l’arte della finzione. S’imbarcò per conoscere il mondo e navigò per un anno; ebbe una tragica storia d’amore con una donna in Argentina e da allora è rimasto nel mio paese” (p. 21). El Inglés lavora inoltre ininterrottamente a un progetto di romanzo interminato o interminabile. 

 

La tensione tra finzione e esperienza, tra letteratura e vissuto, si manifesta dunque fin dalle prime pagine, tanto dal punto di vista tematico che strutturale, e diventa il motore narrativo del testo. Inoltre, il procedimento dei “blocchi di realtà” presenta strati molteplici: il passo in cui nella nouvelle Renzi presenta Ratliff (pp. 19-21) è un altro calco letterale da un’intervista presente in Critica y ficción, “Novela y utopia”, del settembre 1985. Questa serie di intersezioni tra varie opere dello scrittore argentino (nello specifico: i testi di non-fiction che entrano nella finzione) indirizza lo sviluppo della struttura narrativa del testo: come in La città assente, i narratori si stratificano: al Renzi narratore del tempo del racconto si aggiunge prima la voce del Renzi dei Diarios e poi, a partire dalla seconda parte della nouvelle, quella di Ratliff (quella del romanzo interminabile o interminato di Ratliff). 

 

 

Lo stratagemma dei racconti intercalati permette a Piglia di dare il passo decisivo: quando i tre narratori si allineano (cadono l’uno dentro l’altro lasciando un’unica voce parlare) avviene un altro slittamento. Le intersezioni che si verificano all’inizio di “Prisión perpetua”, tra testi esterni alla nouvelle, cominciano a rivolgersi all’interno. Così, la voce narrante che ingloba le tre precedenti si appropria di interi episodi raccontati dagli altri narratori: li ripete, li copia, li interpola. Questa mise an abyme radicale, che risulta dall’intersezione progressiva di forme letterarie, dalla tensione realtà-finzione, dalla stratificazione delle voci narranti, è il cuore simbolico di “Prisión perpetua”: la prigione è il luogo più intimo, la sorgente stessa della letteratura. Questa figura esprime tutta la sua forza e raffinatezza nella chiusa della nouvelle, quando la prigione letterale diventa metafora dello scrittore che intende trattenere “per un istante il fluire della vita” e apresar (impossessarsi imprigionando: rappresentare) “in quest’istante fugace, tutta la verità” (p. 78). 

 

La seconda nouvelle, “Encuentro en Saint-Nazaire”, presenta un movimento analogo a “Prisión perpetua”. È il racconto di una macchinazione ordita dallo scrittore Stephen Stevensen ai danni del narratore, in occasione della sua residenza presso la Maison des écrivains et traducteurs de Saint-Nazaire. 

 

 

Anche qui incontriamo l’interferenza di altre opere del corpus dello scrittore argentino: Stephen Stevensen è variante dal William Wilson di Poe, personaggio prodotto dalla macchina che trasforma le storie de La città assente (Sur, 2014); anche qui il dato reale entra nella finzione (Piglia è stato ospite della Maison des écrivains et traducteurs de Saint-Nazaire); anche qui assistiamo a un progressivo slittamento della voce narrante, dal narratore in prima persona (Ricardo Piglia), al perpetratore della macchinazione (Stevensen); anche qui, infine, Piglia opera una mise en abyme che spinge il lettore all’interno della macchinazione stessa: il diario di Stevensen. 

Se in “Prisión perpetua” la chiave simbolica è la prigione, prima letterale poi metaforica, qui si tratta invece della scrittura diaristica. Stevensen, è “un filosofo o un mago, un inventore di mondi come Fourier o Macedonio Fernández” (p. 82), e intende operare un esperimento estremo: prevedere il futuro attraverso la scrittura del passato. È il diario come oracolo. Stevensen dispone di un metodo e di un’epistemologia: “per decifrare un enigma ci sono due alternative: l'accumulazione infinita di dati diversi, o l'utilizzazione infinita dello stesso dato" (p. 99). Tuttavia, per realizzare questo esperimento, è necessario che il narratore della nouvelle, Ricardo Piglia, cada nella trama del diario di Stevensen, che ne diventi lettore e interprete. 

 

Si tratta di un testo narrativo più radicale, che intende porsi in continuità con la nouvelle che nel libro lo precede (uno dei personaggi di “Prisión perpetua” ritorna, di fatto, in “Encuentro en Saint-Nazaire”), assumendone le istanze per spingerle in avanti. Così, diario e prigione finiscono per collidere l’uno sull’altra, per diventare figure della stessa medaglia: entrambi rappresentano il luogo intimo e chiuso da cui la finzione prende vita: l’una intende afferrare e imprigionare il presente, l’altro impossessarsi del futuro attraverso il passato. 

Tuttavia, se in “Prisión perpetua” la complessità concettuale si sviluppa in modo armonico rispetto alla materia narrativa, in “Encuentro en Saint-Nazaire” la densità teorica è così elevata da schiacciare l’elemento narrativo. È lo stesso Piglia a fornire gli elementi per giudicare questo squilibrio quando scrive che “raccontare vuol dire trasmettere al linguaggio la passione di ciò che sta per accadere” (p. 66, il corsivo è mio). Se la prima nouvelle colpisce proprio per la maestria e l’equilibrio con cui Piglia accompagna il lettore per i diversi gradi della mise en abyme, nella seconda il percorso che conduce al confronto con il diario di Stevensen risulta invece troppo ellittico; di conseguenza, la stessa ricchezza teorica delle osservazioni di Stevensen, svincolata dal traino narrativo, finisce per perdere forza e cadere, a volte, nella gratuità speculativa. 

 

Se non diversamente specificato, la traduzione delle citazioni è di Alfredo Zucchi.

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