1947 - 2022 / Roberto Masotti, Vedere come ascoltare

18 Maggio 2022

Unire e miscelare assieme l’amore per la musica con quello per la fotografia: è quanto ha fatto Roberto Masotti con tenacia e passione dalla fine degli anni Sessanta fino al 25 aprile di quest’anno quando è scomparso, a 75 anni, con ancora alcuni progetti in corso, che presto vedranno la luce. Stava infatti realizzando con l’amata moglie Silvia – sua compagna di vita e di lavoro, di idee e confronti – un libro sui ritratti; mentre è, per fortuna, già in fase di stampa il suo ultimo libro Franco Battiato, Nucleus. È quest’ultimo il terzo libro dedicato a musicisti-compositori che Roberto aveva seguito e frequentato nel corso degli anni, dopo quelli dedicati a Keith Jarrett e John Cage, tutti pubblicati dall’editore Seipersei. Fotografo di musica, per la musica, con la musica, Roberto Masotti ha passato la sua vita a frequentare concerti, a vivere accanto ai musicisti e ai compositori più innovativi e alternativi. Il tutto sempre chiedendosi come riuscire con la fotografia – per sua natura un mezzo silenzioso e basato solo sul visibile – a suggerire, evocare, dare voce e immagine alla musica e ai musicisti, ai loro vari modi di viverla intimamente, di crearla e “sentirla” dirigendo un’orchestra.

 

Nato a Ravenna, ma traferitosi a Milano nel 1974, fin da giovane aveva iniziato a frequentare gli ambienti più all’avanguardia della musica di tendenza. Nel 1969 – al Festival Jazz di Bologna dove suonava Keith Jarrett – usò, come amava ricordare, una Rolleiflex presa in prestito da suo padre e da quel giorno continuò a fotografare e a frequentare concerti e musicisti, inseguendo in giro per l’Europa i festival più avanzati della scena musicale. Il tutto insieme a sua moglie Silvia Lelli, anche lei fotografa, con cui esisteva un rapporto paritetico di scambio, d’intesa profonda e di passioni comuni, che li portò anche a creare il sodalizio artistico-professionale Lelli & Masotti. Assieme, dal 1979 al 1996, divennero infatti i fotografi ufficiali del Teatro alla Scala, dove documentarono centinaia di spettacoli contribuendo alla creazione di un archivio fotografico che alla Scala ancora mancava.

 

Certo, ognuno ha portato avanti anche le proprie autonome ricerche personali, scegliendo i campi di ricerca a ciascuno più congeniali: Silvia si è infatti impegnata maggiormente nella danza, nella performing art e nel teatro d’avanguardia; Roberto invece nel jazz e nella musica, sempre vissuta accanto ai suoi protagonisti più sperimentali e radicali con cui stabiliva rapporti di amicizia. Assieme hanno creato un gigantesco archivio di diapositive, stampe, negativi, ma anche di libri e riviste (come la mitica rivista “Gong”, definita la più bella rivista di musica e cultura giovanile degli anni Settanta), di copertine di dischi e di cd dove sono state pubblicate le loro immagini. Un archivio talmente significativo per la storia della musica e del teatro che lo stesso Ministero della Cultura lo ha dichiarato di “interesse storico particolarmente importante”.

 

Miles Davis

 

Mi piace ricordare Roberto Masotti anche da un punto di vista umano, come una persona gentile, sempre piena di entusiasmo e con gli occhi che s’ illuminavano quando parlava di fotografia e dei suoi progetti, anche se, soprattutto nel passato, un po’ si sentiva amareggiato perché la fotografia di musica e teatro veniva considerata “di genere” e non riconosciuta come meritava. Mi sembra quindi più giusto ricordarlo soprattutto come un grande autore, affinché le sue opere continuino a circolare, ad essere viste, apprezzate e studiate. Parto quindi subito da un suo libro che trovo strepitoso, pubblicato nel 1994 e ormai introvabile: You Tourned the tables on me (sorta di: “tu mi hai preso in giro”, ma che con il suo errore consapevole di tourned al posto di turned vuole rimandare alla forma rotonda del tavolino – round – ma anche al viaggiare – tour – come ricorda Roberto in un suo testo).

 

Il libro ha infatti per comprimario un umile tavolino di ferro trovato e acquistato in un campo rom alla periferia di Milano: questo trabiccolo diviene infatti l’elemento ricorrente (portato in giro tra viaggi in treno e in auto) per 115 ritratti dei più innovativi musicisti, tutti fotografati tra il 1974 e il 1981. Al posto di mettere i suoi personaggi in un disagevole angolo, come aveva fatto Irving Penn, Roberto usa un socievole tavolinetto, quasi un simbolo di un possibile dialogo tra musicista e fotografo. Tutto nasce quando decide di fare un ritratto all’artista “Fluxus” Juan Hidalgo poggiando ironicamente e giocosamente sul tavolino (idea che piace molto all’artista) un pianoforte giocattolo e pure un cavolo. Da lì parte questo progetto che vedrà dietro al suo tavolino autori come Brian Eno, Philip Glass e figli, Davide Mosconi, Demetrio Stratos, Meredith Monk con tanto di teiera a fiorellini e molti altri. E se il tavolino non riusciva a trasportarlo? Nessun problema, con un’idea geniale usava al suo posto la fotografia del tavolino stesso, che ogni artista era libero di utilizzare come meglio credeva. 

 

Certo per dare un’idea del suo vasto percorso artistico potrei parlare del meraviglioso libro, tutto nero con immagini stampate in argento, di Jazz Area, la mia storia con il jazz, sempre edito da Seipersei e già esaurito, o delle grandi mostre fatte con Silvia Lelli, come Musiche (Palazzo Reale, Milano, 2019) dove i due autori hanno dato vita a un percorso visivo in cui si incontrano gli uni accanto agli altri compositori, interpreti, direttori, cantanti, ma anche intere orchestre e situazioni appartenenti a universi musicali e artistici diversissimi: da Demetrio Stratos a Riccardo Muti, da Miles Davis a Pina Bausch, da Maurizio Pollini a Carla Fracci. Ma mi piace pure ricordarlo attraverso il suo libro dedicato a Keith Jarrett, un po’ perché da quell’incontro del 1969 è nata la sua passione per la fotografia, un po’ perché Jarrett è una sorta di autore-simbolo che incarna la passione di Roberto per i creatori trasversali, capaci di sconfinare da un genere musicale all’altro, miscelando culture diverse, così da unire – come appunto nel caso di Jarrett – improvvisazione, jazz e musica colta, gospel e blues.

 

 

Questo libro è emblematico anche perché (come quello dedicato a Cage) basato sulla continuità di un rapporto (le ultime foto scattate a Jarrett sono infatti del 2012), su un’intesa non solo musicale, ma fatta anche di vita quotidiana, amicizia e partecipazione. Non a caso nel fronte e retro della copertina del libro c’è un dittico, un doppio scatto: uno con una poltrona vuota accanto a una finestra spalancata, l’altro con la medesima inquadratura, dove però compare Keith Jarrett seduto e concentrato nei suoi pensieri.

 

Assenza, presenza: quasi una metafora della stessa vita di Jarrett, star della musica costretto negli anni Novanta ad abbandonare la scena per una malattia, per poi tornare a esibirsi a partire dal 2000. Ma tale doppio scatto sembra anche, terribilmente, essere nato o scelto come un presagio, quasi Roberto Masotti sentisse intimamente la nostra, la sua stessa impermanenza. «Oggi quell’assenza mi fa pensare al fatto che ci siamo e non ci siamo e che in un attimo passiamo al livello di assenza. La visione di un momento, due immagini in successione, un gioco, niente di più, può diventare stabile e fortemente iconica ma anche fugace presagio» – scrive l’artista in un suo testo presente nel libro.

 

Dentro il volume, accanto a ritratti e momenti d’incontro, si sprigiona dalle immagini tutta la potente forza musicale di Jarrett, tanto che si ha quasi l’impressione di sentirne le dita scorrere sulla tastiera del pianoforte, di avvertire la concentrazione e la tensione musicale che lo guidano e lo dominano intimamente, fisicamente assieme al suo gruppo. “Vedere come ascoltare” era d’altra parte il sottotitolo di una mostra a loro dedicata a Madrid nel 2012; sottotitolo che potrebbe essere anche cambiato in “ascoltare e fotografare nello stesso tempo i suoni, le emozioni e anche i silenzi”. Il suo, il loro obbiettivo era quello di creare “immagini del suono”, immagini cioè capaci di evocarlo mentre le si osserva. Un’impresa quasi impossibile – quella di “raffigurare” la musica – che a lui e a Silvia riusciva mirabilmente proprio perché la conoscevano, la sentivano e la vedevano nello stesso tempo, in una frazione di secondo. 

 

Pat Metheny

 

Meno nota, ma ugualmente importante per cercare di tracciarne un profilo artistico, era anche la passione di Roberto per la natura, i boschi e le montagne che frequentava da Castel Tesino, in Val Sugana, là dove Silvia aveva un casa di famiglia. Dal suo errare nel silenzio dei boschi, tra lo scricchiolio frusciante delle foglie, l’osservazione di radici affioranti, rami caduti e alberi piegati ad arco era nato il suo libro Winterreise (edizioni Seipersei): un’immersione silenziosa in una musicalità differente, questa volta prodotta da elementi naturali. E qui mi viene da ricordare la “spedizione” dell’agosto 2006, fatta nello spazio d’arte più alto d’Europa: ovvero alla malga Valarica, 1703 metri di altitudine e vista sulle Pale di San Martino. Eccitatissimo, Roberto voleva in quell’occasione mostrare a me e a una comune amica, la fotografa Paola Mattioli, la sua nuova mostra, a cui teneva “da morire”.

 

Curata da Giovanna Calvenzi, questa mostra presentava la video-installazione 100 vedute del Monte Agaro e una sequenza di immagini della serie Naturae Sequentia Mirabilis. Al posto del sacro e magico monte Fuji, dipinto da Hokusai, lui aveva fotografato giorno dopo giorno, il monte di fronte alla sua finestra di Castel Tesino. L’aveva fotografato sotto il sole, circonfuso di nuvole che penetrano tra i pini o ne cancellano la cima, dietro al vecchio ritratto della madre di Silvia… Quell’umile monte Agaro era la sua montagna sacra, che amava guardare e riguardare, percorrere passo dopo passo osservandone i sassi bianchi, le foglie cadute. Ora anche il suo monte soffrirà per la perdita di un amico e del suo sguardo affettuoso. 

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