L'Italia che dimentica gli Appennini / Sillabario irpino

10 Ottobre 2017

Paese-Campagna

 

Una volta, in quel bel libro che è L'abusivo di Antonio Franchini, incontrai una frase che poi ho sempre portato con me: chi da un luogo se ne è andato non ha diritto di parlare se non del luogo che lasciò

Del luogo che ho lasciato, dunque, ricordo mia nonna Maria che, quando grandinava, piangendo per la disperazione, si strappava i capelli e graffiava tutta la faccia perché la grandine rovinava il raccolto. Oppure, ricordo un letto di morte, il silenzio e la linea della bocca contrita di nonno Stefano, stretto nel divanetto bigio, pietrificato nella veglia per suo figlio Antonio. 

 

Ma più di ogni cosa, in generale, viene alla mente il disprezzo che la gente del paese nutriva per quella di campagna. Non ho alcuna intenzione di difenderlo, il mondo di mio nonno. Ma era fatto pure di parsimonia, di un lavoro infaticabile che non si distingueva né scindeva dalla vita. Quel mondo per qualche ragione non veniva migliorato, bensì continuamente esecrato.

Io stesso abitavo in paese e ho partecipato a quell'odio. Nel tragitto per la scuola prendevamo a offendere i nostri compagni, figli dei contadini di contrada Piani o Bosco. È buffo: senza saperlo, facevo quello che altri, come me, in passato avevano fatto a mio padre, da bambino. 

Se parte dell'Irpinia odierna è diventata quello che è, se le campagne non sono ambite bensì deturpate, e manca l'amore per la terra, ebbene, credo ciò sia dovuto un po' anche a quel disprezzo oppressivo inculcatoci dalla nostra cara vita urbana. 

 

 

Margini

 

Ovunque vada porto con me ancora tre versi che mi sono estremamente cari, è una poesia dove Caproni scrive Tutti i luoghi che ho visto / che ho visitato / ora so, ne sono certo: / non ci sono mai stato

Me la porto dietro perché per me significa che da certi luoghi non si va mai via per davvero e non si smette di tornare.

 

Il mio paese si trova nella valle dell'Ufita, ai margini della Campania, a due passi dalla Puglia, dal Molise e dalla Lucania. C'è una cosa che ho appreso in questa parte di Irpinia, nel bel mezzo dell'Appennino, ed è lo starsene ai margini. Magari da ciò deriva l'attrazione per tutto ciò che è confine, per ogni luogo dove si incontrano altri luoghi, fino ai limiti estremi, dove fine vuol dire ancora una volta principio. Ecco, Grottaminarda e la sua valle mi hanno insegnato a riconoscere i margini. Quello linguistico, per esempio: i suoni della vicina Puglia nella lingua dei paesi verso levante, quelli del napoletano a ponente. Oppure il margine agricolo e paesaggistico, laddove il giallo delle monocolture del grano pugliese, quasi sull'Ufita, incontra il verde della policoltura mediterranea o i castagneti, gli ulivi, i vitigni e i boschi delle alture. 

 

Centro

 

A un certo punto, però, fino ai margini è arrivato il nuovo mondo. L'incombere della Storia porta il nome di A16, o Autostrada dei due mari. L'autostrada Napoli-Bari e l'insediamento della Fiat Iveco danno vita a una piccola area industriale. Finalmente l'intera valle si trova al centro di qualcosa. 

Alla Fiat Iveco penso sempre con affetto. Tanti amici, prima di perdere il posto, ci lavoravano. In verità, la ricordo con affetto soprattutto perché, nei dintorni, di notte noi ragazzi ci andavamo a fare l'amore. E di giorno, come fosse un parco pubblico, potevi vederci i podisti correre intorno al suo perimetro chilometrico, tra fazzoletti accartocciati e preservativi rotti. 

 

 

Terremoto

 

In realtà al centro di qualcosa l'Irpinia lo sarebbe stata anche in seguito, a partire dal 23 novembre 1980. Quei devastanti novanta secondi, con i suoi tremila morti insabbiati, lasciati a morire sotto le macerie di un Paese privo di Protezione civile, mentre il presidente della Repubblica Pertini inveiva contro l'assenza e poi la lentezza dei soccorsi, avrebbe portato altra agognata centralità. 

Dunque, nel dopo-sisma, insieme al mio corpo bambino, crescevano caseggiati o villette geometrili bianche, con archi, veneziane, torrette merlate, cuspidi. L'avranno fatta coi soldi del terremoto, si diceva appena spuntava un'altra casa. 

Non potevo certo immaginare che il cemento e il ferro, oltre alle case, stessero armando un'invincibile sistema di potere politico-clientelare tuttora vigente. 

Il terremoto diede il colpo di grazia alla già prostrata civiltà contadina irpina. E a volte mi illudo che senza di lui sarebbe stato diverso. Preferisco puerilmente dare la colpa a lui e dire che saremmo stati migliori, che fu lui, il terremoto, a depositare come una polvere sottile dappertutto e in ognuno: tra le case, su per ogni singola narice. E così il mondo successivo alla scossa inoculò il germe da cui è scaturita una sorta di allergia collettiva per ogni sorta di responsabilità e per qualsiasi bene comune. 

 

Paese-Città

 

Oggi la Fiat Iveco è chiusa, forse per sempre. Sembra che pure quei corpi caldi e avidi di piacere, quei vetri appannati dagli ansimi dei ragazzi che facevano l'amore nelle viuzze della zona industriale, si siano smarriti. Non so dove vadano a fare l'amore adesso, i ragazzi irpini. Dovrei chiedere in giro ma ne verrebbe fuori una scenetta imbarazzante, credo. 

Nel frattempo sul Corso Vittorio Veneto non passeggia più nessuno, le saracinesche dei negozi, su cui campeggiano i cartelli Affittasi, restano serrate. Anzi, cammino in un cantiere aperto tra zone interdette, buche, sampietrini e basoli. Qualcuno ha distrutto marciapiedi intonsi per ricostruirli daccapo. In passato, hanno tagliato gli alberi dei giardini comunali, e i bambini si sono abituati a giocare sotto il sole cocente. Prima ancora avevano demolito il vecchio centro storico, il rione Fratta. Così abbiamo imparato a distruggere per questuare qualche fondo pubblico.

 

 

Certo, rispetto all'Irpinia contadina e artigiana, che sapeva produrre e costruire, questo continuo dissipare ha davvero il sapore di una mutazione genetica. È inevitabile che le mie parole risultino ingiuste verso qualcuno. Anzi, la descrizione potrebbe indurre a pensare ai paesi appenninici fatti di desolazione e spopolamento. E invece Grottaminarda, come Lioni, Ariano Irpino, Atripalda, Solofra, è un luogo che in centocinquanta anni ha visto raddoppiata la popolazione. E la gente che non passeggia più da queste parti, se ne va al centro commerciale del Passo di Mirabella. Il fatto è che siamo orfani o emuli, vuoti e pieni, ambivalenti come il resto della Penisola. Al vuoto invernale opponiamo la parossistica stagione estiva. Ai paesi inattuali corrispondono i paesi-città sradicati, sformati, bulimici, ingrossati fino a incarnare il simulacro delle città osservate alla televisione. È la nostra attuale compresenza dei tempi.

 

Partenza-restanza

 

Mentre scrivo queste righe, con in mente l'Irpinia che lascio e ritrovo ogni volta, leggo un'intervista a Franco Fiordellisi, segretario della Cgil di Avellino. La disoccupazione si attesta poco sotto il 20%. Sembra che ogni anno più di duemila persone abbandonino il territorio. 

Spenderei ogni singolo centesimo rimasto, ogni energia intellettuale, per conquistare la libertà di restare. A patto che restare, per nessuno mai, significhi umiliazione o sacrificio, e che sia una possibilità di avere e dare un futuro. Ma sono di parte, so bene cosa vuol dire non essere più di alcun luogo. So che l'idea della partenza a volte nasce più dall'umiliazione generata dalla politica che dalla necessità, fino a incarnare il riflesso chimerico di una liberazione o di un riscatto. Credo però che il senso della libertà individuale stia in una vera e plurale comunità, in una vita locale che sia intessuta di relazioni umane. 

Un Paese democratico, oltre le leggi, ha un corpo. E questo corpo deve fondarsi su una miriade di centri e reti, senza nessun margine. Invece l'Italia che dimentica gli Appennini, le isole, fatta di grandi città che fagocitano ciecamente risorse e individui, ebbene, produce costantemente nuovi margini e continue periferie, abitate da individui soli, circondati dalla diseguglianza, nello sradicamento.

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