L'impero asburgico non è crollato / Ucronie: la storia con i "se"

Non è concessa nostalgia a chi “ha imparato l’arte preziosa di non rimpiangere il perduto”. Lo affermava lo scrittore viennese Stefan Zweig nelle prime pagine del suo capolavoro Il mondo di ieri, uscito postumo nel 1942, pochi mesi dopo il suicidio in Brasile. Eppure, c’è chi non ha mai smesso di immaginare come sarebbe stato il futuro dell’Europa, del mondo, se l’Impero austro-ungarico fosse uscito indenne dalla Grande guerra.

Confrontarsi con i “se” e i “ma” della Storia, si sa, è considerato un esercizio di pedanteria fantastica. Ma questo serissimo passatempo non ha mai spaventato Guido Morselli. Basterà ricordare, infatti, che per tutta la vita lo scrittore nato a Bologna ha provato a convincere gli editori italiani che le sue non erano soltanto belle, inutili pagine da erudito grafomane. Dal momento che “il paradosso sta dalla parte dell’accaduto: dall’altra parte se ne sta, sconfitta, quella che chiamiamo (sebbene con ottimismo) logica delle cose”.

   

Nel 1969, mentre Einaudi pubblicava finalmente La paga del sabato di Beppe Fenoglio, scomparso sei anni prima, e nelle librerie arrivavano Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, Una relazione di Carlo Cassola, Super Eliogabalo di Alberto Arbasino, Il buio e il miele di Giovanni Arpino, Guido Morselli iniziava a scrivere Contro-passato prossimo. Un vero e proprio atto di ribellione alla “superstiziosa ossequienza alla Storia”, come lo definirà lo scrittore stesso, entrato nel catalogo Adelphi soltanto nel 1975. Due anni dopo il suo incontro fatale con “la ragazza dall’occhio nero”. La pistola Browning militare con cui si sparò il 30 luglio del 1973.

Con l’ibrido romanzo Contro-passato prossimo, macchina narrativa capace di far dialogare la precisione del pamphlet saggistico e l’estro fantastico dell’autore, Morselli costruiva una storia alternativa della Prima Guerra mondiale. Dove, grazie al visionario piano di un uomo senza qualità, il maggiore di Stato maggiore Walter von Allmen, animato da velleità artistiche e frustrato dalle scarse speranze di carriera nell’esercito, gli Imperi Centrali sarebbero riusciti a sfondare il fronte italiano nel maggio del 1916. Costruendo un lunghissimo tunnel sotto le Alpi e dilagando, poi, nella pianura con le truppe della Edelweiss Expedition.

    

Morselli non si fermava lì. In una corposa lettera di presentazione del romanzo indirizzata a Italo Calvino, che farà rispondere dalla segreteria dell’Einaudi di trovarsi all’estero, spiegava: “Ne viene fuori che mentre l’accaduto, il REALE è paradosso, assurdità, l’Ipotetico, il contingente (ciò che poteva accadere) non ha niente del fantastico, è lineare, persino ovvio: logico. Il non-reale ha per sé la razionalità, o più modestamente, la logica”.

È evidente che l’elucubrare di Morselli sulla Storia non lo si può ridurre a un’amenità. Perché tanti suoi romanzi non sono gratuiti divertissement, ucronie un po’ irridenti. “Qualcosa di mezzo (a parte la diversissima scrittura) tra Piero Chiara e un’arbasinata”. Se così fosse, assicurava lo scrittore, “me li rimetterei pari pari nel comò”.

   

A rileggerlo adesso, il Contro-passato prossimo di Morselli appare tutt’altro che un’idea fuori rotta. Perché un frammento reale della Storia del ‘900, spesso trascurato dagli studiosi, viene a porre una domanda del tutto in linea con le traiettorie mentali dello scrittore: “What if?”. Che cosa sarebbe successo se alla fine del 1917, mentre la Prima guerra mondiale lasciava sui campi di battaglia cataste di cadaveri, l’Austria-Ungheria avesse accettato di trattare una pace separata con gli alleati dell’Intesa? 

Come sarebbe cambiato il secolo breve dopo la firma di un accordo che poneva fine bruscamente all’impegno bellico di Vienna al fianco della Germania? Avrebbe salvato il traballante Impero asburgico dalla catastrofica dissoluzione cui era destinato?

    

Partendo da qui, sarebbe facile lasciare campo libero alla fantasia. Immaginando un’Europa d’inizio ‘900 in cui l’Impero Austro-Ungarico fosse ancora in grado di tenere uniti quelli che l’Imperatore Franz Joseph, morto il 21 novembre del 1916, chiamava “i miei popoli”. E che, poi, riuscisse a schierare il modello asburgico di convivenza per fare argine, una decina d’anni più tardi, contro il catastrofico dilagare della follia nazista. Fermando a Est l’ipertrofica sete di espansione dell’Unione Sovietica. Senza dimenticare che Trieste, Trento (e Bolzano), inserite in questo ipotetico scenario, avrebbero evitato di bere l’amarissimo calice del fascismo. 

Ipotesi? Eppure, le vicende della pace separata, offerta dal’Inghilterra all’Austria-Ungheria, non è affatto una trama immaginata da qualche romanziere pronto a rimodellare la Storia. Lo sa bene Marina Cattaruzza, professore emerito dell’Università di Berna, fino al 2015 docente di Storia contemporanea generale nell’ateneo della capitale svizzera, che ai problemi di L’Italia e il confine orientale tra 1866 e 2006 ha dedicato un saggio, pubblicato da il Mulino, entrato nella terna finale del Premio Acqui Storia e vincitore del Premio speciale della presidenza del Piemonte Storia. Una versione aggiornata del saggio è uscita in traduzione inglese con il titolo Italy and Its Eastern Border, di cui è disponibile anche l’edizione paperback dal 2018.

    

Oggi sembra difficile accettare l’idea che i Paesi dell’Intesa cercassero di scardinare il patto bellico degli Imperi Centrali. Che senso aveva offrire a Vienna di smarcarsi dall’alleato tedesco per arrivare alla firma di un accordo che le permettesse di conservare integro il proprio Impero?

La risposta a questi dubbi deve prendere in considerazione scenari bellici, politici, diplomatici, che non si fecero assolutamente condizionare dall’accorato appello di Papa Benedetto XV a fermare “l’inutile strage”, capace di lasciare sui campi di battaglia più di 10 milioni di morti e oltre 20 milioni di feriti.

“I Paesi dell’Intesa, in quel momento, si sentivano tutt’altro che militarmente superiori agli Imperi Centrali – spiega Marina Cattaruzza –. Per Francia e Inghilterra, la grossa incognita era la Russia. Si potevano già scorgere evidenti segnali che Mosca non avrebbe proseguito il suo impegno nella guerra a causa dei numerosi e pesanti problemi da risolvere all’interno del Paese. Infatti, puntualmente, a novembre del 1917, quando prese forma la Rivoluzione bolscevica, la prima decisione adottata da Lenin, una volta assicuratosi il potere, fu proprio quella di firmare l’armistizio con gli Imperi Centrali. Poi, avviò subito una trattativa di pace, che verrà siglata il 3 marzo 1918 con gli accordi di Brest-Litovsk”.

    

A rendere traballanti le certezze dell’Intesa c’era anche la lentezza americana nell’entrare in guerra. “Gli Stati Uniti – dice Marina Cattaruzza – non prevedevano di farsi coinvolgere direttamente nel conflitto prima del 1919. Anche se avevano dichiarato guerra agli Imperi Centrali già nell’aprile del ’17. Dopo che, con la guerra sottomarina illimitata, la Germania aveva distrutto il 38 per cento del tonnellaggio mercantile britannico. Il naviglio affondato, appartenente a paesi dell’Intesa o neutrali (in primo luogo gli Usa) ammontava a più di 12 milioni di tonnellate lorde. Nonostante la dichiarazione di guerra, almeno per un altro anno, però, gli effetti dell’ingresso dell’America nel conflitto non furono per niente evidenti. Infatti, l’addestramento dei soldati proseguiva lontano dal’Europa, sul suolo americano o, in un’appartata località della Lorena”. 

     

 

L’ipotesi di scompigliare l’alleanza degli Imperi Centrali con un accordo offerto soltanto alla monarchia asburgica era da tempo una grande tentazione per il primo ministro della Gran Bretagna. Già alla fine del 1916, Lloyd George andava affermando che i tempi per trattare una pace separata con l’Austria erano maturi. Poi, nel settembre del 1917, lui stesso, in accordo con gli autorevoli rappresentanti del Gabinetto di guerra britannico, decise di avviare una trattativa con Vienna.

Del Gabinetto di guerra facevano parte anche i rappresentanti di Canada, Australia, India e dei Dominions britannici. E proprio in una di quelle terre periferiche dell’Impero, il Sudafrica, venne scelto l’uomo che avrebbe condotto la trattativa con l’Austria-Ungheria. A Ginevra, infatti, arrivò il primo ministro sudafricano, il generale Jan Smuts. Mentre Vienna incaricò di sedersi al tavolo della trattativa il Conte Albert von Mensdorff, ex ambasciatore austriaco a Londra.

    

I dialoghi di Ginevra iniziarono nel dicembre del 1917 e proseguirono fino al gennaio del 1918. L’Inghilterra mise sul tavolo della trattativa l’offerta all’Austria-Ungheria di una pace separata basata sullo status quo antecedente allo scoppio della Grande guerra. In pratica, Vienna avrebbe dovuto ritirarsi da tutti i territori occupati, che non erano pochi. Basterebbe pensare che le truppe asburgiche avevano sfondato il fronte italiano, dilagando fino al Piave. E che gli eserciti degli Imperi Centrali erano riusciti a occupare il Belgio, la Serbia, il Montenegro, l’Albania, quasi tutta la Romania e la parte russa della Polonia. Con la pace di Best-Litovsk, poi, avrebbero potuto allargarsi anche sul Baltico e in Ucraina.

    

Sui campi di battaglia gli Imperi Centrali non davano ancora segni di cedimento. Ma ben più grave era la situazione dei civili. “La Gran Bretagna – spiega Marina Cattaruzza – aveva messo a punto un blocco navale del Mare del Nord, che impediva l’afflusso di rifornimenti in entrata verso i Paesi nemici. Dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, anche il Canale di Otranto era sbarrato. Non c’era alcuna possibilità di far arrivare viveri. Il blocco navale attuato nella Prima guerra mondiale è sempre stato un grande tabù per gli storici, perché andrebbe inevitabilmente trattato come un crimine di guerra contro la popolazione civile per opera delle democrazie occidentali. Non a caso non ci sono monografie aggiornate che trattino questo argomento, rimasto completamente in ombra anche nelle numerosissime iniziative e pubblicazioni che hanno accompagnato il quinquennio di commemorazioni del centenario della Grande guerra. Si può immaginare come la popolazione fosse ormai allo stremo. Si susseguivano scioperi nelle fabbriche e dimostrazioni di piazza delle donne che dovevano fare i conti con la fame, e che stentavano a mettere qualcosa in tavola per i propri figli. Per questo l’Impero Austro-Ungarico accettò subito la trattativa proposta dai britannici”.

    

Da subito, gli incontri di Ginevra presero avvio nel segno di un equivoco destinato a rivelarsi insormontabile. L’Austria era disposta a negoziare una pace generale di compromesso, cioè “senza annessioni e senza riparazioni”. Quindi, l’ex ambasciatore a Londra von Mensdorff si sedette al tavolo del negoziato con intenti del tutto diversi da chi gli stava di fronte. Perché l’Inghilterra, per voce del generale Smuts, puntava invece a rompere l’asse degli Imperi Centrali, togliendo dai campi di guerra gli eserciti di Vienna e isolando la Germania. 

A rendere ancora più traballante il ruolo di von Mensdorff al tavolo della trattava era l’inadeguatezza dell’imperatore Carlo I. Del tutto incapace di svolgere un ruolo così importante e delicato. A guardarlo con gli occhi del nostro tempo, l’imperatore asburgico finisce per apparire come un personaggio tragico. Forse nemmeno lui si sentiva pronto a salire al trono dell’Austria-Ungheria a 29 anni, poco dopo la morte dello zio Franz Joseph. Non è esagerato affermare che la Corona degli Asburgo divenne una corona di spine schiacciata, “malgré lui”, sulla sua testa.

    

“Carlo I era completamente in balia del suo entourage – spiega Marina Cattaruzza –. Impreparato a gestire l’Impero, anche se in linea di successione veniva subito dopo Franz Ferdinand, assassinato a Sarajevo il 28 giugno 1914, ben presto si troverà protagonista di errori clamorosi. Come lo ‘scandalo Sisto’, provocato da una lettera fatta pervenire al presidente francese Henri Poincaré attraverso i fratelli della moglie Zita di Borbone-Parma, ufficiali dell’esercito belga. Nell’aprile del 1917, utilizzando questo canale segreto, l’imperatore scriveva al presidente francese di considerare giusta la restituzione dell’Alsazia-Lorena da parte della Germania alla Francia. Assicurava pure che si sarebbe speso in tutti i modi per convincere l’alleato tedesco a ottemperare alla richiesta. Circa un anno dopo, la lettera avrebbe trovato una platea di lettori assai vasta dal momento che sarebbe finita non solo sulle pagine dei quotidiani francesi, ma addirittura su quelli austriaci. Imbarazzando non poco Carlo e costringendolo a smentire di avere mai scritto parole del genere”. 

    

In alcuni verbali di conversazioni, poi pubblicati, il cognato Sisto di Borbone suggeriva a Carlo di ampliare la Serbia, annettendo al suo territorio quello dell’Albania. A tale proposta l’imperatore reagiva con un atteggiamento possibilista, anche se avrebbe preferito a capo di una Serbia ingrandita un granduca della Casa d’Austria. “Forse dimenticava – dice Marina Cattaruzza – che la Serbia era uno dei principali nemici dell’Impero asburgico e che il conflitto mondiale era iniziato con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia. Se ancora non bastasse a tracciare il ritratto di un uomo inadeguato al suo ruolo, basterà ricordare che sempre nella medesima circostanza, quando gli stessi alleati dell’Intesa consideravano Mosca ormai poco affidabile, si dichiarava disposto a sostenere il vecchio obiettivo russo della conquista di Costantinopoli. Traccia di questa disponibilità si trova anche nella prima versione della lettera a Poincaré. Ampliare la Serbia e regalare Costantinopoli alla Russia avrebbe significato ammettere di aver perso la guerra, dato che ambedue le misure rafforzavano considerevolmente i nemici mortali dell’Austria”. 

    

Del resto, sempre Carlo I si era spinto perfino ad affermare che avrebbe considerato una sciagura una vittoria della Germania.

Ma allora perché Vienna non accettò di firmare una pace separata con l’Intesa? Non certo per paura che l’alleato tedesco decidesse di invadere il Paese per riportarlo a più miti consigli. La Germania, infatti, aveva già la sua montagna di problemi da affrontare prima di progettare un intervento armato in una nazione amica. E poi, se l’Austria si fosse dichiarata neutrale, una volta accettato l’accordo, sarebbe stato impensabile inviare truppe tedesche sul suolo di uno Stato ormai estraneo alla guerra. 

    

“Una soluzione positiva alla trattativa di Ginevra era possibile – spiega Marina Cattaruzza –. Sarebbe bastato che l’imperatore Carlo I e il ministro degli Esteri Ottokar von Czernin fossero in perfetta sintonia e decisi a mantenere segreta l’ipotesi di una pace separata. Ma Czernin era un tedesco-nazionale di antica nobiltà boema, strettamente legato alla Germania. Da una raccolta di fonti dell’Alto comando tedesco risulta che il generale Erich Ludendorff, figura di riferimento insieme a Paul von Hindenburg delle forze armate germaniche, veniva informato sull’andamento dei negoziati prima ancora che iniziassero i colloqui ufficiali tra Smuts e von Mensdorff. Il che significa che l’Austria non aveva alcuna possibilità di firmare quell’accordo”. 

    

Infatti, von Mensdorff era stato istruito dal Conte Czernin, il ministro dagli occhi di ghiaccio, a chiedere al suo interlocutore se la Gran Bretagna fosse disposta a discutere di una pace generale. E, in caso di risposta positiva, se i britannici avrebbero acconsentito a far partecipare ai colloqui anche un rappresentante tedesco. A tale domanda Smuts rispose in maniera criptica che la Gran Bretagna non riteneva di poter battere militarmente la Germania, ma che i tempi non erano ancora maturi per parlare con i tedeschi. Con ciò i colloqui, iniziati con tante speranze, furono interrotti.

Era evidente che i tedeschi non consideravano affatto compromesso l’esito della Grande guerra. Anzi, il 21 marzo del 1918 la Germania avrebbe dato il via alla violenta offensiva bellica di primavera sul fronte occidentale: la Kaiserschlacht o Battaglia per l’Imperatore. “L’obiettivo era quello di sfondare il fronte dell’Intesa nel punto di congiunzione tra le forze francesi a Sud e quelle inglesi a Nord – spiega Marina Cattaruzza –, occupando Parigi e giungendo fino alla Manica. Già nel primo giorno di combattimenti furono polverizzate tutte le linee difensive alleate. Le truppe tedesche riuscirono ad avanzare complessivamente di 65 chilometri su un fronte di 80, arrivando molto vicine dal loro obiettivo principale: Parigi. La popolazione francese era terrorizzata dal frastuono del bombardamento tedesco che si avvaleva del cosiddetto cannone di Parigi, un’arma terrificante uscita dalla fabbrica bellica della Krupp”.

    

A quel punto, il primo ministro britannico Lloyd George giocò la carta più pesante. Invocò l’intervento immediato degli Stati Uniti, mettendo a disposizione le navi che portarono rapidamente sul Continente europeo 15 divisioni armate americane. Raschiando il barile dell’Impero, riuscì miracolosamente a inviare al fronte in tempi brevi un altro mezzo milione di soldati sotto bandiera britannica.

In una prima fase, le truppe americane combatterono agli ordini del generale francese Ferdinand Foch. Durante l’estate del 1918, però, si dimostrarono in grado di agire in perfetta autonomia. Negli ultimi mesi del conflitto, sul suolo francese erano operativi ben 2 milioni di militari Usa. 

In ogni caso, soltanto nel settembre del 1918 le formazioni britanniche avrebbero riconquistato tutti i territori occupati dai soldati della Germania durante l’offensiva di primavera, riportando il fronte dov’era stato fissato quattro anni prima. 

    

Oggi possiamo affermare che probabilmente l’Impero Austro-Ungarico non si sarebbe dissolto se Albert von Mensdorff avesse firmato a Ginevra quell’accordo di pace. E cullare il sogno che la cultura della Mitteleuropa, lo spirito di convivenza tra popoli di lingua e religione diverse, sarebbe riuscita a mitigare l’ansia di nuovi scontri bellici. A fermare la follia delle tragedie che hanno insanguinato il ‘900. “Un imperatore diverso da Carlo I – ipotizza Marina Cattaruzza –, una personalità più forte, avrebbe trovato il coraggio di sostituire il ministro degli Esteri con un uomo fedele alla linea scelta dal’Austria-Ungheria. Per non far naufragare la trattativa di Ginevra. E adesso sì che saremmo in grado di raccontare la Storia in un altro modo”.

      

Nel gennaio del 1918, Lloyd George era stato molto esplicito. Parlando ai sindacati britannici, le Trade Unions, aveva rivelato che l’obiettivo di guerra britannico non era la dissoluzione dell’Impero asburgico, ma una sua riforma in senso federale. Pochi giorni dopo, il presidente Thomas Woodrow Wilson si era espresso in modo analogo davanti al Senato americano.

Guido Morselli, partendo da tutt’altro punto di vista, immaginava un “Contro-passato prossimo” dove l’Europa sarebbe riuscita a esorcizzare le tentazioni più oscure. Bloccando l’ascesa al potere dei militari. E dando vita all’Unod, la Comunità Europea Democratica di ispirazione socialista. Guidata da un uomo illuminato come il berlinese Walther Rathenau, che nella realtà venne assassinato nel giugno del 1922 da due ex ufficiali dell’esercito tedesco. Terroristi legati all’estrema destra più reazionaria e militarista, che non condividevano affatto la sua politica estera. 

   

La Storia, però, racconta un’altra storia. L’11 novembre 1918, il giorno in cui finì la Grande guerra, l’Assemblea nazionale provvisoria d’Austria fece firmare a Carlo I, spinto dal primo ministro Heinrich Lammasch, la dichiarazione di rinuncia al potere. Dopo un lungo esilio, e due tentativi falliti di riprendere il trono d’Ungheria, il pronipote di Franz Joseph morirà il 9 marzo del 1922 a Madera. Una polmonite si porterà via, a soli 35 anni l’ultimo imperatore asburgico. 

Oltre ottant’anni dopo, il 3 ottobre del 2004, Carlo I verrà innalzato all’onore degli altari dalla Chiesa cattolica. A proclamarlo beato sarà Papa Giovanni Paolo II per “aver seguito la vocazione del cristiano anche nella sua azione politica”.

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