Scrittrici italiane al cinema / Una gentile festa per gli occhi

14 Agosto 2018

Una delle più recenti acquisizioni del Fondo Morante alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma consiste in un corpus di 47 recensioni cinematografiche che l’autrice scrisse fra l’inizio del 1950 e il novembre del 1951 per la rubrica radiofonica della RAI Cinema. Cronache di Elsa Morante

Pubblicate l’anno scorso a cura di Goffredo Fofi con il titolo La vita nel suo movimento (Einaudi, 2017), le recensioni delineano la postura critica di una scrittrice-spettatrice che guarda i film – i più vari: italiani e stranieri, di autore e di genere, drammatici e comici – con una sua sensibilità visuale, ma in virtù soprattutto di una concezione estetico-letteraria del cinema, riconoscibile, per quanto riguarda il testo presentato, dell’estate 1951, nell’affermazione che in Powell e Pressburger «il colore è espressione non soltanto di un sapiente gusto pittorico, ma anche di poesia». Altrove, questa impostazione tradisce una certa irritazione per le trasposizioni giudicate troppo disinvolte di opere letterarie in film, come Madame Bovary di Minnelli e persino Macbeth del pur amato Welles, o anche il timore che «un bel giorno la gente dalla mente pigra e passiva, che forma la maggioranza del pubblico, preferisca andare a vedere i libri piuttosto che leggerli». Di qui, ancora, un certo snobismo: non solo nei confronti del cinema italiano, spesso oggetto di critica nella sua involuzione verso la commedia di crasso intrattenimento, ma anche nei confronti di generi non particolarmente graditi, come il giallo, definito «un passatempo alla buona», simile alla canasta o alle parole crociate. 

 

Si noteranno poi nella recensione, oltre alla parzialità di alcuni giudizi, il tono umoristico e la messa in scena dell’io scrivente, che ribadiscono l’impronta autoriale della rubrica: Morante valuta i film secondo parametri di spettatrice colta ed esigente, ma anche secondo la sua visione del mondo di scrittrice, che le fa apprezzare, ad esempio, fiabe e western, sentiti vicini alla sua predilezione per il romance. Per questo, nel caso di Powell e Pressburger, la sua preferenza va a Scala al paradiso, in cui «la maestria tecnica e l’ispirazione poetica si componevano in effetti di un realismo sobrio e immaginoso e di una fantasia misurata e sorprendente». A ben vedere, infatti, queste parole sarebbero calzanti anche per Menzogna e sortilegio, così come non meno sospetta risulta nella descrizione ammirata del talento del «geniale duetto» inglese il ricorrente riferimento alla grazia, cui già nel Gioco segreto, nel 1941, Morante aveva dedicato un ‘frivolo aneddoto’ e alla quale, in opposizione dialettica con la pesanteur, avrebbe continuato a dedicare gran parte della sua produzione. (Elena Porciani)

 

 

Duello a Berlino

 

(The Life and Death of Colonel Blimp), GB 1943; regia e sceneggiatura: Michael Powell e Emeric Pressburger, dal personaggio creato da David Low; interpreti: Roger Livesey, Anton Walbrook, Deborah Kerr, John Laurie, James McKechnie

 

Riconoscere i propri torti è uno dei primi doveri degli uomini d’onore. Nelle nostre cronache di martedì scorso, accusavamo la stagione estiva di offrire ai critici cinematografici soltanto delle pellicole di scarto e senza interesse. Ed ecco, a smentire le nostre accuse, il film Duello a Berlino, primizia di questa settimana, in technicolor.

I nomi dei due registi, Michael Powell e Emeric Pressburger, ci promettevano già in ogni caso (anche a voler essere pessimisti), una immancabile festa per gli occhi e per l’immaginazione. La grazia, la fantasia, il gusto delicato del colore, sono le qualità ormai provate del geniale duetto Powell-Pressburger. Non è la prima volta che questi due artisti lavorano insieme. Alla loro collaborazione, arricchita dal concorso di ottimi tecnici e artisti del colore, si devono alcuni fra i migliori films della produzione inglese, fra i quali il più notevole fu Scala al Paradiso. In questo film, la maestria tecnica e l’ispirazione poetica si componevano in effetti di un realismo sobrio e immaginoso e di una fantasia misurata e sorprendente. È curioso, a tale proposito, notare un fatto, e cioè: la storia dell’arte inglese (pur vantando, anche in questo campo, dei nomi ottimi) non può vantare un primato, né una particolare eccellenza, nella pittura. Nella cinematografia a colori, invece, gli artisti inglesi si sono dimostrati, fino ad oggi, i primi del mondo. Essi sono, forse, i soli che abbiano saputo usare il colore con effetti di vera poesia. Basti citare, a prova di questo, l’Enrico V di Laurence Olivier.

Duello a Berlino, non è un capolavoro, e non tocca certamente l’altezza artistica di altre opere di Powell e Pressburger. Ma è un’opera di finissima qualità, piena di maturità e di grazia, e nella quale il colore è espressione non soltanto di un sapiente gusto pittorico, ma anche di poesia. Si vedano alcuni paesaggi romantici della Germania d’anteguerra, e la scena del duello all’alba, e il festoso, amabile spettacolo della birreria. Questo film è insomma, come avevamo avuto ragione di prevedere, una gentile festa per gli occhi.

 

Esso ci racconta la storia di due giovani ufficiali, uno inglese e uno tedesco, i quali, nel beato anno millenovecentodue, sono condotti dalle circostanze a battersi a duello. Da questo duello ha origine, fra loro, una carissima e fedele amicizia, la quale durerà per tutta la loro vita, resistendo a tutte le tragiche avventure corse dall’Europa in questo ultimo mezzo secolo. Il film accompagna le vicende dei due amici fino all’epoca presente; e ce li mostra nell’ultimo quadro, mentre, ormai vecchi, conversano insieme davanti alle rovine della casa di uno di loro, riandando ai tempi passati. Il mondo della loro giovinezza è travolto; ma il reciproco affetto, nei loro cuori, è rimasto uguale.

Un gentile (seppure inconfessato), legame fra i due amici, attraverso le loro lunghissime separazioni e il passare degli anni, è il loto amore per una stessa donna, divenuta, all’epoca del loro duello a Berlino, moglie del tedesco. L’inglese, dopo quell’epoca, non la rivedrà mai più; ma ne serberà in cuore, per tutta la vita, l’immagine amata, che serberà per lui, tutte le grazie della giovinezza. Questa immagine, egli la ricercherà sempre in tutte le donne che accompagneranno il suo destino. Così sua moglie, destinata a spegnersi giovane, sarà, per un bizzarro favore della sorte, una donna dalle sembianze quasi identiche a quella della giovinetta amata a Berlino. E così pure la sua autista-segretaria, che accompagna i suoi ultimi giorni, sarà quasi una perfetta copia di lei.

Questo grazioso fantasma del primo amore, che ritorna nel film, ha forse, nell’intenzione dei due registi, un significato. Vuol forse rappresentare l’ideale dell’amicizia e della giovinezza, che neppure le più cupe tragedie possono offendere, e serba intatta la sua grazia fiduciosa? Non si capisce bene, e questa incertezza, che non riesce a una vaghezza poetica, ma soltanto a una insufficienza e inconseguenza d’espressione, è forse il difetto principale del film. Il quale nella seconda parte, più debole, delude un po’ le promesse della prima. Esso è, tuttavia, un buon film, e degli attori principali (Deborah Kerr, Anton Walbrook, e Roger Livesey), non si sa chi lodare di più.

 

(Elsa Morante, La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951, a cura di Goffredo Fofi, Torino, Einaudi, 2017, pp. 94-95, published by arrangement with The Italian Literary Agency)

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