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Scienza e società / Vaccini: dati scientifici e decisioni politiche

2 Dicembre 2020

I vaccini per il Covid-19 sembrano ormai vicini alla distribuzione. Nelle ultime settimane, diverse aziende farmaceutiche si sono avvicendate nel comunicare i risultati dei test e il grado di efficacia dei prodotti che stanno per essere messi sul mercato. Tuttavia sono tornate le polemiche, puntuali come non mai quando si affronta questo tema. E sono state scatenate anche dalle parole di Andrea Crisanti, che ha richiamato l’attenzione sulla necessità di dare priorità ai dati scientifici, senza affidarsi precipitosamente agli annunci lanciati alla stampa e non supportati da valide documentazioni. Le parole dell’ormai noto docente dell’università di Padova sono state interpretate come un invito a non fidarsi dei vaccini, se non addirittura come un’apertura alle posizioni antivacciniste che negli ultimi anni hanno goduto di un’enorme risonanza mediatica e di un’inedita visibilità. Crisanti si è quindi trovato costretto a chiarire il senso delle sue affermazioni inviando una lettera aperta al “Corriere della Sera”, sforzandosi di rimettere in primo piano il ruolo della trasparenza, del rispetto e della fiducia negli sviluppi del sapere, ricordando fra le altre cose che la scienza coltiva il confronto e lo spirito critico, rimanendo ben lontana dal reclamare atti di fede.

 

L’epidemia ci ha messi in effetti a dura prova e ha intensificato tendenze già in atto da lungo tempo nel rapporto fra società e mondo scientifico. Trovandoci in un momento di grande difficoltà, sentivamo il bisogno – per molti versi legittimo – di avere delle risposte precise, ma ci siamo confrontati con le incertezze della medicina, con informazioni contraddittorie trasmesse da studiosi di chiara fama, con frequenti difficoltà nel circoscrivere i fenomeni epidemiologici e persino nella lettura dei dati. Più volte il dibattito politico si è soffermato sulla necessità di dare voce alle competenze specialistiche, ma questa crisi ci ha portato a scontrarci con l’incapacità di sviluppare un’adeguata comunicazione scientifica e, se spostiamo l’attenzione sul versante della ricezione, con una diffusa impreparazione all’ascolto del discorso scientifico. È tornata inoltre in auge la diatriba – in realtà mai esauritasi – intorno alla scienza democratica o non democratica, che ci porta ancora una volta a chiederci quale ruolo abbiano l’opinione pubblica e l’intera società civile nello sviluppo e nell’applicazione di saperi controllabili solo da un gruppo ristretto di persone. 

 

La questione è stata già affrontata in maniera approfondita e convincente da noti studiosi, ma vale la pena di riprendere alcuni punti fondamentali dei ragionamenti sviluppati negli ultimi anni per avere un quadro concettuale sintetico e chiaro. In primo luogo, il dibattito sulla democraticità della scienza non è scientifico, bensì politico. Per affrontarlo, dobbiamo dunque cercare di fuggire dall’idea caricaturale di democrazia che ormai domina il nostro spazio pubblico, accostando la sovranità popolare a una “rissa da bar dove vince chi ha la voce più forte”: il nostro corpo sociale non è fatalmente ostaggio di una maggioranza prepotente e chiassosa, incline a imporre i suoi punti di vista in assenza di qualsiasi regola condivisa. La democrazia è innanzi tutto un metodo, in base al quale una comunità riesce a prendere delle decisioni. Ci sono delle norme condivise, che garantiscono – fra le altre cose – il rispetto delle minoranze etniche e linguistiche, delle scelte religiose e culturali degli individui, degli orientamenti sessuali, del diritto allo studio e alla salute. Come ha ben chiarito Luciano Butti (docente di diritto internazionale dell’ambiente all’università di Padova), gli spazi di azione della maggioranza hanno dei limiti molto precisi, che in genere sono assicurati dai princìpi costituzionali e delle leggi vigenti all’interno di un sistema democratico.

 

Non bisogna quindi stupirsi del fatto che i cittadini esprimano il loro bisogno di conoscenza e, pur non essendo esperti, desiderino aver voce nelle scelte di carattere scientifico che hanno conseguenze sulla vita comune. Come sosteneva il fisico neozelandese John Ziman, la scienza ha l’obiettivo precipuo di raggiungere un consenso libero e razionale di opinione. In una fase di indagine che per convenzione possiamo definire “privata”, l’interrogazione della natura viene portata avanti da un singolo scienziato o da un gruppo di scienziati. I risultati di quella stessa indagine, tuttavia, assumono una piena valenza scientifica solo quando diventano pubblici e sono sottoposti all’analisi critica di una comunità più ampia che è in primo luogo scientifica, ma poi diventa necessariamente anche politica. I metodi di lavoro possono essere diversi a seconda dei contesti, ma chi pratica la scienza non può compiere azioni o prendere decisioni autoreferenziali, incuranti dell’opinione di altri esperti e, sia pur in un secondo momento, dell’intera collettività.

 

Guardando a emergenze come l’epidemia di Covid-19, siamo dunque chiamati ad analizzare il rapporto fra scienza e società focalizzando l’attenzione sui diversi momenti che caratterizzano i processi decisionali, facendo ricorso ad alcuni concetti chiave del diritto. Per la “valutazione del rischio” non si può far affidamento sulle opinioni della maggioranza, ma ci si deve rivolgere necessariamente al parere esclusivo della comunità scientifica. Per la “gestione del rischio”, invece, gli equilibri devono necessariamente cambiare: gli scienziati possono avere una funzione consultiva, ma non possono monopolizzare le decisioni che hanno ricadute sociali e che devono essere necessariamente responsabilità della politica. Queste dinamiche si riflettono in maniera diretta sulla questione vaccinale. Per riprendere ancora le parole di Luciano Butti, le considerazioni sull’efficacia dei vaccini per la riduzione del contagio rientrano nella valutazione del rischio e “competono esclusivamente alla scienza”. Il quadro cambia in maniera decisiva quando si tratta di decidere “se sia più appropriata la strategia dell’obbligo o quella della raccomandazione”: si tratta in questo caso di gestire il rischio coinvolgendo “la comunità nel suo complesso” attraverso “una politica informata e attenta”.

 

Assodate quindi le responsabilità delle istituzioni e dell’intera società sullo sviluppo dei saperi specialistici, restano da chiarire le ragioni di una così diffusa sfiducia nel discorso scientifico. E si tratta, con ogni evidenza, di una questione politica e culturale che ha delle radici profonde. Un ruolo importante è stato giocato sicuramente dall’insegnamento scolastico e, più nel particolare, dall’idea di scienza veicolata da discipline umanistiche come la storia, la filosofia o la letteratura. Sfogliando le pagine dei libri di testo – i cosiddetti “manuali” – si possono intravedere delle evidenti carenze, che spesso favoriscono irreparabili fraintendimenti. Oltre a essere tendenzialmente ancora eurocentrico, lo sviluppo della scienza è descritto come un incessante cammino che ha condotto l’umanità a uscire dalle tenebre della superstizione per approdare al trionfo della razionalità.

 

 

Non si tiene in sufficiente considerazione la complessità di un dibattito scientifico che ha vissuto spesso di frenate, negoziazioni, compromessi e talvolta di forzati arretramenti, rinnegando i risultati raggiunti o, più di frequente, scoprendone l’invalidità solo dopo intervalli temporali enormi. Le trasformazioni che interessano le indagini sulla natura, inoltre, risultano spesso slegate dai contesti di riferimento: di conseguenza, gli studenti hanno molte difficoltà a collocare l’azione di individui, gruppi o istituzioni all’interno di dinamiche più ampie, comprendendone a tutto tondo le valenze sociali, politiche, religiosi, economiche, morali e culturali. Ne consegue una frequente confusione fra avanzamento tecnologico e progresso scientifico. 

 

Si dimentica, in buona sostanza, che la scienza è una modalità di indagine, un punto di vista sulla realtà che diventa legittimo attraverso la definizione di criteri condivisi. È certamente vero, ad esempio, che alcuni regimi totalitari del passato hanno consentito la messa a punto di dispositivi avveniristici o sorprendenti, ma non è per questo scontato che quelle scoperte siano avvenute nel rispetto di norme che la società del tempo riconosceva come “scientifiche”.  I “progressi” della scienza vengono, in ultimo, rappresentati come conquiste di singole personalità che acquisiscono – nelle ricostruzioni proposte dagli autori dei libri scolastici – contorni eroici: appaiono a tutti gli effetti come santi laici capaci di resistere ai pregiudizi del loro tempo e di innalzare la loro voce al di sopra di un contesto sociale dominato da fanatismo e oscurità. A farne le spese è la comprensione delle condizioni storiche concrete che consentono a un ragionamento scientifico di affermarsi come tale e di avere maggiore credito rispetto ai discorsi concorrenti. Ancora più frequenti sono le gallerie di invenzioni e innovazioni nel campo della tecnica, che appaiono come eredità visibili di intuizioni geniali e per certi versi irripetibili. Le ricerche degli ultimi anni hanno sottolineato il ruolo di diversi attori sociali nel progresso di alcuni saperi specialistici, come ad esempio gli artigiani per gli apparati industriali o i contadini per l’agronomia, ma questi fenomeni godono di uno spazio tutto sommato marginale sui libri di testo. In definitiva, possiamo affermare con buone ragioni che capitoli sulla scienza e sulle “rivoluzioni” scientifiche somigliano ancora troppo spesso ad album di figurine, dove contano prima di tutto le individualità, mentre i procedimenti rimangono inesorabilmente sullo sfondo.  

 

Alla luce di queste considerazioni, la diffidenza odierna di una larga parte della popolazione verso il mondo della scienza dovrebbe risultare più spiegabile, almeno in parte. Abbiamo spesso attribuito a internet o ai social networks una responsabilità importante nel cambiamento degli atteggiamenti collettivi nei confronti dei saperi specialistici prodotti in ambiti istituzionali o accademici. Dimentichiamo in tal modo le trasformazioni culturali più profonde che attraversano la nostra società e che vengono solo rese più visibili dalle piattaforme di condivisione messe a nostra disposizione dalla tecnologia. La centralità che la nostra civiltà assegna all’individuo si riflette, quasi inesorabilmente, sull’immagine acquisita dalla scienza nel “senso comune”, nonché sull’idea caricaturale di democrazia che ormai tendiamo ad accogliere senza opporre sostanziali obiezioni (quella della maggioranza aggressiva e vincente, per intenderci). 

 

L’equivoco di fondo dal quale dobbiamo difenderci è proprio quello che assegna alla scienza una dimensione eccezionale, individualistica, a tratti solipsistica, legata a interessi particolari.  Gli studiosi non vivono in questo universo immaginario o in un dorato isolamento, ma sono al contrario impegnati in necessarie attività di condivisione e confronto, che scandiscono il cammino verso scoperte più o meno rilevanti. Sono parte integrante di una comunità, nella quale talvolta i passi piccoli di numerosi ricercatori riescono a porre le basi per le grandi intuizioni dei singoli. Devono sottoporre i loro risultati a un costante controllo pubblico, nel rispetto di regole che sono state sottoscritte e accettate da tutti: il “consenso scientifico” non può quindi muoversi sul piano dell’individualità, né insistere su campi ristretti.  

 

La scienza deve essere quindi radicalmente compatibile con i principi della democrazia, perché si configura come una comunità nella comunità: non può non essere democratica, semplicemente perché vive in un sistema democratico. Se vogliamo ricostruire una fiducia diffusa nel sapere scientifico, dobbiamo inevitabilmente ripartire da questi presupposti e ripensare i percorsi di formazione scolastici, intensificando la relazione fra educazione civica, storia, filosofia, letteratura e discipline scientifiche. Dobbiamo scalfire la declinazione individualistica del progresso scientifico che ancora oggi caratterizza i libri di testo e far emergere l’importanza dei sistemi e dei contesti nella trasformazione (non solo nei progressi, ma anche nelle frenate e nei regressi) del sapere. Siamo ormai assuefatti a un atteggiamento che accomuna diverse componenti della nostra società, dai governi ai media: si chiede alla popolazione di avere fiducia in una scienza rappresentata da persone che hanno un nome e un cognome, indicate come modelli incontrovertibili e infallibili, ma che talvolta si mostrano disattente, incerte o imprudenti, anche sul piano puramente comunicativo. Si chiede in altre parole ai cittadini di obbedire a un’autorità, negando di fatto uno dei principi costitutivi dello sviluppo del sapere scientifico, che è per sua stessa natura fondato sulla costante messa in discussione di dogmi e conoscenze acquisite. 

 

Il rapporto fra scienza e società dovrebbe in realtà essere improntato a un’idea sostanzialmente contraria. Avere fiducia in un vaccino non significa dar credito a un individuo o a un’azienda, ma a un metodo, a una comunità ampia e transnazionale che si muove sulla base di regole ben definite, a diversi esperti che lavorano in enti di controllo, che si sorvegliano a vicenda e che coprono tutti insieme ruoli di cruciale importanza per la vita pubblica, facendo in modo che l’interesse della comunità venga prima dell’interesse dei singoli. Se vogliamo costruire certezze intorno a un vaccino, in ultima analisi, dobbiamo necessariamente ricostruire la fiducia nelle istituzioni e credere nella democrazia. Crederci in maniera profonda e radicale, senza tentennamenti. 

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