IMM' n. 3: Intensità, intermittenza, registrazione / Wolfgang Tillmans: un nuovo registro visivo

28 Aprile 2017

“Sei libero di usare gli occhi e di attribuire valore alle cose nel modo che vuoi. Gli occhi sono un grande strumento sovversivo perché tecnicamente non sottostanno a nessun controllo, sono liberi quando li usi liberamente” (Wolfgang Tillmans, conversazione con l’autore, dicembre 2005).

 

Ci sono fotografie di Wolfgang Tillmans che sembrano inesauribili. Non perché sono complicate nella composizione o così piene di informazioni visive da far emergere sempre nuovi dettagli. Talvolta è così, ma la ricchezza di cui parlo è di tipo differente. Posso tornare in continuazione su alcune sue immagini e ogni volta sperimento la stessa sensazione di qualcosa di fondamentalmente imperscrutabile. Per esempio, non posso smettere di guardare la fotografia Senza titolo (La Gomera), del 1997, che getta un incantesimo su di me non solo perché è strana – in effetti non riesco a capire bene cosa vi accade – ma anche a causa del suo innegabile fascino visivo. Due persone stanno strisciando carponi sulla spiaggia, creando un grande disegno nella sabbia: una linea senza meta, composta da due curve e poi un giro completo, il cui inizio è rimasto fuori dal riquadro dell’immagine. La coppia sulla spiaggia continua a strisciare e la linea non è conclusa: sono insieme e il loro futuro rimane aperto.

 

Wolfgang Tillmans, Senta titolo (La Gomera), 1997. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Misteriosamente un cane bianco li sta seguendo alle loro spalle, sta giusto per entrare nel cerchio, come se facesse parte di uno schema segreto. Chiaramente questa è un qualche tipo di attività ludica da spiaggia eppure sia lo strisciare che la figura che produce nella sabbia sembrano possedere un significato più profondo. Non so spiegare perché mi sembra così significativo, e anche un po’ inquietante. (Leggo la notazione dell’artista che questa immagine è stata realizzata nel periodo più buio della sua vita come una sorta di conferma. Ma una conferma di che cosa?) Infine, l’angolo in alto a sinistra sembra aprire una finestra su un nuovo capitolo o una storia completamente diversa: in lontananza un essere umano con un cane – entrambi appena visibili – stanno per uscire dall’immagine e andarsene.

 

Presa da un luogo sopra la spiaggia, la fotografia ha delle zone ben definite segnate da diverse texture e colori: rocce grigie, la sabbia liscia con il meandro scuro, ancora rocce (bagnate e quindi quasi nere), poi la schiuma bianca creata dalle onde che si infrangono, e infine la brillante superficie del mare leggermente corrugato. Queste campiture creano una composizione ben bilanciata con evidenti qualità pittoriche. (Guardo per un momento di traverso e l’immagine diventa astratta senza perdere il suo fascino.) “Non penso secondo le categorie specifiche dei media. Penso prima di tutto: ‘Una macchia di colore è una macchia di colore’”, dice Tillmans in risposta alla domanda sul rapporto che hanno le sue immagini con la storia della pittura. Poi, mentre nega di dipingere con la macchina fotografica, è pronto a riconoscere che la sua arte trascende il contesto fotografico: “E per quanto riguarda il mio ambito di riferimenti, esso include ovviamente più di 150 anni di pratica fotografica”.

 

Per me non c’è dubbio che il piacere visivo – sì, la bellezza – trasmesso da Senza titolo (La Gomera) e da numerose altre immagini classiche di Tillmans è più legato alla ricca storia della pittura che a quella della fotografia. “Non cerco ciò che sembra pittorico e non cerco di far sì che le mie immagini sembrino dei quadri”, dice Tillmans. Certo, un’enfasi sulla pura estetica e su composizione, colore e texture – in breve, sul pittorico – può facilmente portarci fuori strada come quella sul significato ultimo di quest’arte motivata politicamente. Ma se non si comprende questa dimensione e invece si sottolinea soltanto la natura transitoria e casuale delle sue immagini, si perde qualcosa di vitale. “È che vedo in questo modo. Vedo le immagini; sono proprio qui di fronte a me”, dice Tillmans.

 

Chiunque pensi che la sua arte abbia qualcosa a che vedere con le istantanee non perda tempo con queste immagini. Esse sono artefatti selezionati e fabbricati con cura, che restituiscono un inimitabile punto di vista, un distinto modo di vedere il mondo intorno a noi. Di fatto la personale visione di Tillmans sulle cose è diventata una delle più immediatamente riconoscibili e significative dalla metà degli anni Novanta, che ha avuto influenza non soltanto nel mondo dell’arte ma anche in un contesto molto più vasto della cultura pop. Sembra che le sue immagini, che volutamente evitano ciò che chiama “il linguaggio dell’importanza”, abbiano aggiunto un registro visivo completamente nuovo al nostro apparato percettivo. La vita imita l’arte e grazie all’“effetto Tillmans” molti di noi riconoscono le proprie immagini Tillmans o le situazioni “proprio qui di fronte a noi”, qui fuori nel mondo. È giusto menzionare il fatto che molte delle sue immagini contengono un elemento “messo in scena”, senza però che l’artista ne abbia un controllo totale. I concetti di “messo in scena” versus “non messo in scena” non catturano veramente ciò che è tipico del suo approccio alle persone e alle cose con cui lavora.

 

Per una migliore comprensione della sua arte e di come vi sia giunto è cruciale indicare che il punto di partenza non ha niente a che vedere con la fotografia di moda nel senso commerciale del termine. Altri fotografi emersi nel mondo della moda negli anni Novanta sono stati salutati con entusiasmo quando sono passati nel contesto dell’arte. Non è così che vi è giunto Tillmans e l’idea che sia emerso prima nel mondo della moda e della pubblicità è un diffuso fraintendimento che ha reso più difficile il giudizio sulla sua arte. Da ragazzo Tillmans raccoglieva fotografie dalle riviste in un album, sperimentava con la fotocopiatrice laser, visitava mostre e leggeva riviste d’arte, e ha realizzato la sua “immagine numero uno” – Lacanau (sé), 1986 – all’età di diciott’anni e ha avuto la sua prima mostra l’anno seguente. La sua prima apparizione sulla rivista «iD» nel 1989 non ha niente a che vedere con il mondo della moda commerciale ma piuttosto con la sua passione per i locali notturni, le riviste di musica e la cultura di strada. Va visto più come un tentativo di espandersi artisticamente in un ulteriore medium per raggiungere altri tipi di pubblico della subcultura.

 

Questo artista infatti se ne è stato notevolmente lontano dall’industria della moda e non ha mai accettato offerte lucrative.

 

Wolfgang Tillmans, Lacanau (sé), 1986. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).

 

In una certa misura la mercificazione che generalmente detta legge nel mondo della moda e della pubblicità rappresenta il nemico stesso per Tillmans, e la volontà di comunicare l’“identità completa di una persona” venne presentata come una parte strategica della “più ampia battaglia culturale”: “Io uso la mia posizione nel mondo delle riviste per fare esattamente questo, qualcosa in cui credo completamente e qualcosa che come artista posso soltanto fare se sono credibile, realizzandolo dall’interno. L’industria ha sempre fame di marchi, trend e le mode trasformano ogni stile in un’altra storia di mercato benigna. In qualche modo io cerco di incanalare l’attenzione verso la multistratificazione della personalità e dell’identità...”. L’insistenza sulla possibilità di una più ricca diversità di vita e per forme alternative di stare insieme ricorre a prescindere dal medium. Attraverso attività parallele come fotografo che produce immagini per le pagine delle riviste, per i propri libri e per le sue eterogenee installazioni che sono montate in gallerie e musei, Tillmans ha di fatto creato una posizione unica per se stesso nel mondo dell’arte e al di là. Ogni nuovo passo e ogni nuovo contesto ha richiesto sue considerazioni estetiche e morali, ogni nuova opportunità ha richiesto nuove decisioni politiche.

 

Wolfgang Tillmans, Dispositivo anti-homeless, 2000. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Le prime immagini di Tillmans di suoi amici e del suo ambiente sociale comunicano un senso di speranza politica. Un’insistenza sugli stili di vita personali inventivi e radicali e sulle nuove politiche sessuali libera questi giovani dagli stereotipi repressivi, e i mondi della musica tecno, dei locali notturni, delle manifestazioni pacifiste e per la difesa dell’ambiente sembrano suggerire un ordine sociale diverso, forse anche un “ideale utopico di modo di stare insieme”, per usare le sue parole. Una vena di assurdità emerge in molte opere, un senso acuto per la possibilità di trasgressione con strumenti semplici, come in AA breakfast, del 1995, o Uomo che piscia sulla sedia, del 1997. Fondamentalmente vi è un tenore ottimistico in molte opere di Tillmans, ma le dure realtà sociali non sono mai molto lontane e occasionalmente gli aspetti più sinistri del controllo sociale e del “micropotere” sono analizzati, per esempio in Dispositivo anti-homeless, del 2000, implacabile nel suo realismo. La nozione politica più decisiva comunque è la fiducia di Tillmans nel potere critico della visione, nell’occhio come “strumento sovversivo” che siamo liberi di usare in modi che non obbediscono alle aspettative della società. Le fotografie di Tillmans non sono mai educative in senso limitato, ma sono veicoli di pensiero critico, non solo di esperienza sensuale.

 

Questa è l’unica nozione di politica che realmente importa in arte.

Le sue installazioni – che mescolano ritratti di dimensioni che variano moltissimo, nature morte e fotografie astratte con pagine di riviste, appesi secondo una logica rigorosa – danno espressione a un senso di radicale molteplicità e adesione alla varietà della vita: “Ogni cosa richiede un trattamento diverso”. Tillmans è un artista del contingente, dell’effimero e del temporaneo, afferma il critico Midori Matsui. Egli ci mostra la bellezza latente in ciò che è periferico e negli oggetti e fenomeni il cui significato sfugge alle leggi della cultura alta. La bellezza, dice Charles Baudelaire in Il pittore della vita moderna, è fatta da un lato di qualcosa di “eterno, invariabile” e di “un elemento relativo, occasionale” dall’altro. Dubito che Tillmans voglia parlare delle cose in questi termini – eternità? – ma non vedo un altro artista d’oggi che viva secondo i requisiti di Baudelaire, come nelle sue note introduttive sul bello, la moda e la felicità, che inoltre abbia un acuto senso del “transitorio, fuggitivo, contingente”, che viva cioè per la modernità stessa, come fa Tillmans. Al tempo di Baudelaire non c’erano dubbi su dove trovare esempi di modernità radicale. C’era un unico luogo: Parigi, capitale del XIX secolo. Cento anni dopo non era più così chiaro e nei primi anni Novanta del XX secolo Tillmans giocava un ruolo chiave in almeno quattro contesti artistici che si trovavano occasionalmente legati ma anche abbastanza distinti: a Colonia faceva parte della movimentata scena intorno alla galleria Daniel Buchholz e alla rivista musicale «Spex»; a Parigi era legato al gruppo di artisti e scrittori associati alla rivista «Purple»; a Londra, dove viveva la maggior parte del tempo, diventò uno dei collaboratori principali della rivista «i-D» e una sorta di ponte tra il mondo della musica e la scena YBA (Young British Artists); e durante gli anni tra il 1994 e il 1996 si stabilì tempestivamente a New York, dove divenne amico di gruppi come Art Club 2000 e Group Material e subito pubblicò sulle riviste «Interview» e «Index». Ci sono molti artisti che si sentono a casa propria in città diverse, ma credo che i legami produttivi di Tillmans con tutti questi contesti sia unico. La sincronicità creativa tra città diventa realmente visibile soltanto quando le connessioni d’atmosfera diventano concrete nel lavoro di specifici artisti. Nella prima metà degli anni Novanta l’artista che più di chiunque altro si può dire che rappresenti la sensibilità di una generazione emergente è stato Wolfgang Tillmans.

 

Nel tentativo di riassumere alcune caratteristiche centrali della sua arte, Tillmans punta su due filoni che sembrano attraversare la maggior parte del suo lavoro: l’alchimia della luce e l’interesse per il nostro essere-al-mondo con gli altri e il suo desiderio di relazionarsi a questi altri. Entrambi questi interessi tendono a essere presenti nella sua opera, in alcuni casi uno dei due prevale. L’alchimia della luce non è mai pura quanto nelle opere astratte che investigano l’effetto della luce su materiali fotosensibili. Di fatto questa è effettivamente una sorta di pratica pittorica con mezzi fotografici (fatta con le mani, non con la macchina fotografica): interventi in camera oscura e manipolazioni del processo di esposizione producono immagini che non rappresentano la realtà ma creano le proprie realtà astratte, che appaiono stranamente fisiche, viscerali e spesso cariche di erotismo. In serie di immagini come Rossori, Pesche e Freischwimmer si incontrano orifizi corporei, pelle umana e fibre muscolari – o cose del genere. In realtà nessuna immagine trasmette un senso più forte di carne di questi puri esperimenti alchemici sulla luce, neppure immagini di reali corpi nudi. Tillmans espone queste grandi stampe in mezzo a ritratti e nature morte e li inserisce nei suoi libri tra altri generi di immagini. Talvolta questa pratica produce un effetto quasi allucinatorio, come nel recente Centro studi verità, del 2005, dove quindici pagine estatiche di carne cosmica ci trasportano da una serie di ritratti (che finiscono con Tony Blair, Isa Genzken, Morissey e Richard Hamilton) a una sezione in bianco e nero di un giovane soldato che smonta il suo fucile. Nessun altro compone in questo modo.

Gli esplosivi lavori astratti chiariscono una cosa: nel mondo di Tillmans anche l’esplorazione della luce ha un aspetto corporeo. La sua opera è sempre quella di un soggetto incarnato, anche quando gli oggetti rappresentati sono celestiali. Un’eclissi solare, il passaggio di Venere del 2004 o la notte stellata non sono mai rese in un modo che pretende di essere oggettivo e distaccato.

 

Wolfgang Tillmans, Arkadia I, 1996. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Questi fenomeni sono qui fuori nel cielo, ma sono anche visti da qualcuno, e questo qualcuno è un essere sociale che vive in un corpo e si relaziona ad altri esseri umani. Il frammento di corpo dell’artista di cui si ha un assaggio in Lacanau (sé) è veramente di importanza simbolica per l’intera opera: anche se tendente all’astrazione, l’immagine cattura il punto di vista di un soggetto incarnato – un essere umano che cammina sulla sabbia vestito di una t-shirt rosa e short Adidas neri.

L’interesse di Tillmans per il suo fondamentale essere-al-mondo con altri, l’altro “filone” che egli menziona, è naturalmente più immediatamente visibile nei ritratti e nelle fotografie che mostrano coppie, raduni, dimostrazioni e locali notturni. Quello che cerca, dice l’artista in una delle prime conversazioni, è “la complessità nelle persone”. Interrogato sul significato culturale dei primi numeri di «i-D», sottolinea che la rivista rendeva chiaro che nessuno deve sottoscrivere le regole ufficiali su come comportarsi e come apparire, regole formulate da altri; invece ognuno si può creare una personalità e un’identità come vuole al di là degli interessi commerciali.

 

Wolfgang Tillmans, Paul, New York, 1994. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


(L’«i-D» degli anni Ottanta e dei primi Novanta era molto diverso da quello di oggi, che punta strategicamente all’avanguardia dell’industria della moda.) Per i suoi ritratti Tillmans cerca persone che mostrano l’instabilità e la vulnerabilità che sono sempre un aspetto della bellezza individuale. Queste fotografie sono radicalmente diverse dai ritratti distaccati e neutri per esempio della Scuola di Düsseldorf. Il mondo della classificazione e della tassonomia interessa poco a Tillmans. Fondamentalmente le sue immagini sono basate su coinvolgimento e affezione, e amore.

Essere insieme può talvolta generare stati mentali che liberano l’individuo dall’esperienza di essere confinato e bloccato nella finitudine. “Il Paradiso è forse quando dissolvi il tuo ego – perdita di sé, essere in un fascio di altri corpi”, dice Tillmans. Questa dissoluzione può avvenire in momenti di euforia, di estasi. Esistono certamente istanti esaltanti nell’opera di Tillmans: danza, sesso, gioia collettiva. Talvolta questi momenti eccezionali non riguardano l’essere in molti: il dj Mike Pickering da solo con la sua musica, 1989, o Paul sul tetto con le luci di Manhattan in Paul, New York, del 1994. Alcune immagini di Tillmans rappresentano uno stato di beatitudine che è difficile da descrivere, istanti in cui un diverso tipo di luce sembra attraversare e far brillare il mondo in colori completamente nuovi. Benché i fari degli elicotteri che si librano sullo skyline normalmente produrrebbero associazioni sinistre, Elicotteri della polizia, del 1995, mi dà piuttosto una sensazione di vita intensa. Non c’è nessuno in particolare da guardare, la città stessa irradia uno splendore cosmico. Questa strana illuminazione ricorre in altre immagini, producendo talvolta una sorta di ipertranquillità, una calma che confina con l’estatico. Il sottile ma drastico spostamento può accadere in immagini apparentemente semplici che rappresentano gli oggetti più ordinari: fiori in bottiglie di plastica, frutta o verdura. (Tillmans ha significativamente contribuito al genere classico della natura morta.)

 

 

 

L’astronomia è stata la sua prima ossessione e le “meccaniche dei cieli” rimangono una sfera importante di riferimento anche se la curiosità scientifica non è più la prima forza motrice. Un’eclisse solare totale senza dubbio comporta forme singolari di irradiazione luminosa, come fa l’immacolata superficie d’oro quando è illuminata in modo da produrre nuovi effetti “alchemici”. In Tempesta di ghiaccio, del 2001, per me la più estatica delle immagini, la luce soprannaturale non è necessariamente benigna. Tra tutti i suoi piaceri visivi anche questa “intervention piece” trasmette qualcosa di veramente ambivalente. È pericolosa. Il paesaggio è interrotto da macchie di colore e segni che producono un’atmosfera di artificialità in cui la nozione stessa di qualcosa di naturale sembra rapidamente svanire. Che genere di tempesta sta spazzando la foresta radiosa? Ardenti esplosioni rosse riempiono il cielo velenoso.

 

Daniel Birnbaum, A New Visual Register for Our Perceptual Apparatus, in Wolfgang Tillmans, Hammer Museum, Los Angeles e Museum of Contemporary Art, Chicago 2007. Traduzione dall’inglese di Elio Grazioli. Questo articolo è presente nel nuovo numero di IMM Intensità, intermittenza, registrazione, a cura di Elio Grazioli, Riccardo Panattoni.

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