Pasolini, “fulgurazione figurativa”

1 Marzo 2023

La passione, anzi addirittura «la Rivelazione» con la maiuscola, si scatenò a Bologna, nel buio di una piccola aula dell’Università dove Longhi («il mio vero maestro») proiettava immagini fantasmagoriche in bianco-nero, specie durante il celebre corso Fatti di Masolino e Masaccio «nel 1938-39 (o nel 1939-1940?)». Dovette costituirsi quasi un setting analitico, «un’apparizione», in cui «il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie» (così racconta lui stesso recensendo la raccolta longhiana di Contini, nel 1974). Vent’anni più tardi Pier Paolo Pasolini dedica Mamma Roma (1962) proprio «a Roberto Longhi, cui sono debitore della mia “fulgurazione figurativa”». Tutti ricordano la scena in cui una straordinaria Anna Magnani apre la finestra sull’«atroce indifferenza» della città e vede con l’immaginazione, adorante e straziata, il suo Ettore, gettato sul «tavolaccio» di contenzione, nella stessa posa del Cristo morto di Mantegna. E allora sussurra, con amor de lonh: «Pora creatura mia. […] È venuto ar monno e è stato sempre solo. Solo s’è ritrovato come un Cristo passerotto». Quella «pora creatura» è sola come un Cristo crocifisso; è «un Cristo passerotto» che ha la stessa natura patetica e, appunto, creaturale, della rondinella salvata dal Riccetto mentre sta affogando nel Tevere, in una scena celebre di Ragazzi di vita (1955) di cui Silvia De Laude ha ricostruito con grande finezza ermeneutica la «costellazione», ossia il «processo per aggregazione intorno a un’immagine o a un’unità figurativa di base» (La rondine di Pasolini, Mimesis, Milano 2018).

Per Pasolini la «fulgurazione figurativa» è all’incirca ciò che Aby Warburg chiamava dinamogramma: una traccia mnestica ed emozionale, un gesto interiore che, illuminato come da una folgore, dà consistenza di figura patetica alla “realtà” attraverso quello che, a proposito di Accattone (1956), Pasolini stesso definì «uno sguardo sacrale». Non necessariamente “religioso”, ma “sacrale”. La distinzione nel lessico pasoliniano è importante. Sacrale si coniuga con creaturale, lemma che in lui converge dall’antropologia, ma anche da Longhi e da Contini, dalla pittura giottesca e da Francesco d’Assisi. Introducendo le Laudes creaturarum, nei Poeti del Duecento (1960), Contini sottolineava questa nuova dimensione del realismo; e già nel 1956, mentre lavorava con Fellini alle Notti di Cabiria, leggendo Mimesis di Auerbach appena uscito da Einaudi, Pasolini era incappato nella formula, fulminante, di «realismo creaturale», che dava un nome con incredibile precisione al lavoro da lui stesso svolto in quegli anni fra poesia, romanzo, cinema. Nella Confusione degli stili (1957), che raccoglierà in Passione e ideologia, Pasolini ridiscute le possibilità di un «realismo [...] del concreto-sensibile, della vita quotidiana», domandandosi se non sia preferibile «mettere l’accento [...] su una specie di stile “medio”, “creaturale”, al limite basso, “prospettivistico” piuttosto che figurale, al limite alto». Quanto a Longhi, il lessico della «creaturalità» costituisce un etimo spirituale, non incongruo al pensiero di chi aveva “inventato” «Giotto spazioso» e aveva portato alla luce la «profondità “reale”, esistenziale» di quella spazialità pittorica, da connettersi alla «incomprimibile certezza “esistenziale”» delle figure di Masaccio al Carmine.

La categoria di «fulgurazione figurativa» si equilibra dunque per Pasolini tra l’allegorica figura e la patetica creaturalità. Per l’auerbachiano, ma anche demartiniano, Pasolini, il «senso creaturale dell’esistenza» è assai più che l’adesione a una visione e ad una «rappresentazione “naturalistica”, “veristica” o “(neo)realistica”». È invece l’«amalgama» antropologico di tenerezza e crudeltà, di umano e animale, di cosa e creatura, che si riverbera nella rappresentazione artistica attraverso un parallelo «amalgama» di stili: come Pasolini spiegò a Jean Duflot, «l’amalgama non significa [...] che l’insieme sia sprovvisto di unità. L’unità stilistica, l’unità cioè delle diverse tecniche, è cementata da questa ossessione patetica che mi è propria». Attraverso la tempestiva meditazione su Mimesis si chiarisce nella mente di Pasolini l’origine di quello che, fondendo due formule, l’ungarettiana e l’auerbachiana, definirei il suo sentimento della realtà creaturale del mondo.

Le “creature”, non le “cose”; la “rappresentazione della realtà”, non il “realismo”, interessano a Pasolini, come ad Auerbach. È dalla loro parte che guarda il mondo: questo è il suo «stile “prospettivistico” piuttosto che figurale»; e in questa dialettica si installa anche la funzione antropologica di «fulgurazione figurativa». Pasolini era già da tempo auerbachiano in potenza. In certa misura Auerbach immaneva da sempre in lui. Con Mimesis fra le mani e Longhi negli occhi il suo auerbachismo trascendentale si storicizza, prende forma e lessico e immagine, di sostanza radicalmente affine alla «qualità umano-reale, esistenzial-sacrificale della [s]ua poesia», che Franco Fortini gli riconoscerà, in una lettera del 1961. Come quel celebre personaggio di Molière che si esprimeva in prosa senza accorgersene, Pasolini parlava Auerbach senza neppure saperlo. E così parlava Longhi: un po’ come Longhi stesso, con formula di Soffici, definiva «scriver pittore» l’ékphrasis critica, la trasposizione in linguaggio verbale del linguaggio pittorico, stile contro stile.

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Sappiamo bene, ormai, quanto la figurazione, la fotografia, siano importanti nell’opera pasoliniana. Ma mai come negli ultimi tempi proprio la figuratività era stata illuminata dalla ricerca critica con prospettive che mi sembrano epocali. Vedere, Pasolini (a cura di Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, Engrammasaggi, Ronzani 2022, pp. 465, € 34) e Prospettiva Pasolini (a cura di S. Casini, C. Pulsoni, R. Rettori, F. Tuscano, catalogo dell’esposizione tenuta a Perugia dal 5 marzo al 30 giugno 2022, Morlacchi, Perugia 2023) sono due regesti intelligenti, molto ricchi originali, del rapporto concreto di Pasolini non solo con l’immagine, ma soprattutto con la sua riproduzione e diffusione mediante la carta stampata, dove testo e immagine si imbricano in un intreccio polifonico. Entrambi i volumi, pur diversi per natura, condensano nel titolo la semantica del punto di vista, dello sguardo, cioè appunto dello «stile “prospettivistico”» pasoliniano.

 

Il ruolo della fotografia cresce nel tempo, maturando dalla «fulgurazione figurativa» longhiana, e si innesta nel cuore del realismo creaturale che Auerbach aveva colto riflettendo anzitutto su Dante, in un dialogo importantissimo con Walter Benjamin, su cui Marco Maggi con grande intelligenza ha di recente richiamato l’attenzione (Walter Benjamin e Dante. Una costellazione nello spazio delle immagini, Donzelli, Roma 2017).

Silvia De Laude, che è fra i migliori conoscitori di Pasolini, in un saggio documentato e innovativo su Una vita violenta, in Vedere, Pasolini suggerisce il senso radicale della «virata verso una narrazione “oggettiva”» nel romanzo del 1959, «con una più accanita documentazione linguistica e sociologica, meno divagazioni, meno frasi “rubate”, meno commosse stilizzazioni dal vero, quasi agguati o trappole che il narratore tende alla realtà per catturarla, o per dichiararle il proprio amore». E non a caso questo nuovo prospettivismo si accompagna a «un interesse crescente per la fotografia, tematizzato in diversi luoghi del romanzo».

Ma anche oltre la soglia di Una vita violenta ci si può domandare se e quanto in questa «fulgurazione figurativa» si innesti anche una pratica del dispositivo fotografico trasformato in creazione poetico-autobiografica. Pasolini non poté leggere la Chambre claire di Barthes (1980), ma ne anticipò, da studioso attento di semiologia, alcune conclusioni: soprattutto quella circa la delusoria componente di realtà dell’esistenza, che nel caso di foto di esseri viventi viene ridotta a «simple rassemblance» dell’«être – et non plus d’une chose». «Puisque la Photographie (c’est là son noème) authentifie l’existence de tel être, je veux le retrouver en entier», scriverà Barthes: ed è qui che «la platitude de la Photo devient plus douloureuse». Lo sguardo vivo, nella foto, cerca «l’air» dell’Assente, ossia «cette chose exorbitante qui induit du corps à l’âme – animula, petite âme individuelle. Peut-être l’air est-il en définitive quelque chose de moral, amenant mystérieusement au visage le reflet d’une valeur de vie?».

Colpisce che le ultime opere di Pasolini, La Divina Mimesis e Petrolio, siano sempre più strettamente connesse con la fotografia. Nel primo, la “riscrittura” della Commedia dantesca, di cui riprendendo un progetto di metà degli anni Sessanta riuscì a correggere le bozze poco prima della morte, inserì alla fine del provocatorio testo verbale 25 fotografie, intitolandole Iconografia ingiallita e così commentandole nella Prefazione: «Queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) “poesia visiva”». Come suggerisce acutamente Marco Antonio Bazzocchi (Sopravvivere per ingiallire. Nota sul colore dell’ultimo Pasolini) in Vedere, Pasolini, «Pasolini come Dante è […] sopravvivente. Si sente un residuo del passato. E infatti può subito individuare nel presente quello che può comunicare con il passato: il cinema dove inizia il viaggio […] è un luogo buio dove però può ancora esistere la luce del passato».

Credo che il «sopravvivente» Pasolini vada riconosciuto nella sacrale «Rivelazione» del rappresentare la realtà attraverso la «fulgurazione figurativa» degli anni longhiani di Bologna e nella scoperta del realismo creaturale fra Auerbach e Contini (una foto del grande filologo è inserita nel magma iconografico delle 25 immagini). Infatti, propone ancora Bazzocchi, «Pasolini elabora un progetto in cui la parola viene illuminata da una luce del passato che è diventata immagine, o meglio simulacro di immagine», iconografia ingiallita. Avrà potuto conoscere, Pasolini, la Piccola storia della fotografia di Walter Benjamin, che Enrico Filippini tradusse insieme con L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica nel 1966? Bazzocchi stesso avanza la proposta, pur senza prove documentarie, che andranno cercate con cura. L’aura benjaminiana riesce a dare agli oggetti «un valore magico che un dipinto per noi non possiede più», e per questo chi guarda una fotografia cerca ciò che Barthes chiamava non a caso «l’air»: “l’aria”: «quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc», scriveva Benjamin, «con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine». Se si riuscirà a dimostrare la presenza di Benjamin nella costellazione pasoliniana Longhi-Auerbach-Contini anche questo nuovo orizzonte si illuminerà mirabilmente.

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Intanto si ricorra, come documento prezioso e finora mai offerto con tanta puntigliosa filologia dell’immagine, alla bellissima collezione di fotografie (Prospettiva Pasolini) raccolta da S. Casini, C. Pulsoni, R. Rettori e F. Tuscano, e accompagnata da saggi di grande qualità: per tutti ricordo almeno Pasolini e i classici di Lorenzo Calafiore e Pasolini e Assisi di Francesca Tuscano, con documenti preziosi sul rapporto con padre Giovanni Rossi e Lucio Caruso nella preparazione del Vangelo secondo Matteo, per il quale la Cittadella aprì al regista «le porte della sua sezione fotografica (dove Pasolini studierà i volti di Cristo di Rouault) e della fonoteca (dove troverà buona parte della colonna sonora che comporrà lui stesso, con Elsa Morante, assemblando Mozart, Bach, Prokof’ev e musica popolare, dagli spiritual ai canti russi)».

Prospettiva Pasolini permette di cogliere, con vastissima documentazione originale, l’avvio dello «stile “prospettivistico”» cercato in quella svolta fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Per la prima volta si può accedere al dattiloscritto con la sceneggiatura del Vangelo inviato alla Pro civitate christiana, e postillato da don Andrea Carraro e di Lucio Caruso: siamo così nell’officina preparatoria di quel capolavoro. E poi, accanto alle immagini di cronaca sulla Settimana di poesia a Spoleto nel 1965 (a cui Carlo Pulsoni e Francesca Tuscano dedicano uno studio attentissimo e di alto valore documentario: fra l’altro Pasolini vi incontrò Pound), abbiamo a disposizione decine di fotografie dei giornali a cui Pasolini collaborò: Corriere della Sera, Tempo, Rinascita, Il Mondo; la sezione Pasolini editorialista è una cornucopia, un tesoro imperdibile.

Ma fra tutte le immagini ritrovate ce n’è una tragica, davvero atrocissima, quella della copertina di Gente del 17 novembre 1975: un orrore che non si può metter in oblio, costruito con Pathosformel necrofila da una testata sentimental-populistica che aveva in odio l’anticonformismo dello scrittore. Campeggia, sulla sinistra, incorniciato in un giallo acceso che è il contrario dell’ingiallito pasoliniano, il volto tirato, sotto il titolo a caratteri cubitali: PASOLINI: TRAGEDIA DI UN CORRUTTORE. E sotto, la “scaletta” delle pagine 25 e seguenti: Parlano i ragazzi di vita: “Ci umiliava e l’odiavamo”Le sue folli notti romane1949: il primo processo per atti osceniDocumento eccezionale: il suo testamento. Sulla destra, a occupare più della metà della copertina, una foto di Rossana Podestà sorridente, in assai generoso bikini rosa, con il titolo Le accuse di Marco Vicario – Rossana Podestà in tribunale, e tre righe sul processo per separazione che doveva appassionare il pubblico di Gente.

L’orrore nasce dall’accostamento violento e radicale di due universi, dei quali non si sa dire quale sia il più spaventoso. Quindi giorni dopo l’omicidio, un’immagine fa leva sull’ambiguità di fondo di ogni riproduzione del reale, e getta solo fango, tenebra, e nessun fascio di luce, provando a uccidere un’altra volta il Sopravvivente.

Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l'immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture. 

L’incontro di giovedì 2 marzo sarà con Dacia Maraini, presso la Biblioteca Flaminia di Roma alle ore 11. Qui il programma completo.

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