Intervista a Luigi Agnati

12 Luglio 2011

Luigi Agnati è ordinario di Fisiologia all’Università di Modena e al Karolinska Institutet di Stoccolma. Nel 1994 e nel 1995 gli è stata assegnata dalla Nobel Assembly la posizione di Nobel Fellow. Si è occupato di trasmissione dei messaggi fra sistema nervoso e cervello e di percezione sensitiva e funzioni cerebrali, pubblicando numerosi libri e articoli su riviste mediche e scientifiche. Lo intervista Alessandra Sarchi.

 

 

Ha senso per uno scienziato parlare di bellezza?

 

“La bellezza? L’amerei volentieri, dea e immortale”.  Rispondo con un frammento di un poemetto in prosa di Baudelaire che riassume quanto ciascun uomo, e dunque anche un ricercatore, avverte come esigenza: ricercare la ‘bellezza’ nella Natura, intesa in senso lato e, quindi, anche in se stesso.

 

Allora egli si chiede: è questa ricerca un compito per me possibile? È possibile comunicare ad altri uomini i risultati della mia ricerca? Ogni uomo è conscio dell’enorme difficoltà del compito, Pessoa nel linguaggio efficace e immaginifico de Il libro dell’inquietudinelo dice efficacemente: “Qualunque cosa desideri o da me scaturisca, io sono sempre qui dentro, circondato dagli alti muri della coscienza di me”.

 

Ben presto sappiamo, infatti, che quanto compare di noi all’esterno sia esso comportamento, oppure prodotto artistico, filosofico, o scientifico, è il flebile messaggio, in codice, che si riesce a far sì che superi gli alti muri della coscienza che ci racchiudono. Messaggi che raccontano come immaginiamo di essere e di come immaginiamo sia il mondo che circonda gli alti muri che ci racchiudono.

 

Lo strumento che permette a ciascun uomo di far filtrare dei messaggi è stato riassunto dal premio Nobel Charles Sherrington in un famoso aforisma: “L’uomo, che sussurri una parola o abbatta un’intera foresta, utilizza il suo apparato muscolare”. In altre parole, tutti i messaggi che filtrano attraverso gli alti muri della coscienza di sé, si fondano sul controllo motorio. Contestualmente a questi messaggi, arrivano continuamente segnali al Sistema Nervoso Centrale (SNC) dall’ambiente esterno e questo interconnessione fra mondo interiore e mondo esterno è stato descritto dal neurofisiologo Vernon Mountcastle in una sua opera, giustamente famosa, dal titolo assai indicativo, The view from within: pathways to the study of perception, nella quale afferma: “il nostro cervello riceve informazioni su quanto è al di fuori di esso solo attraverso alcuni milioni di fibre nervose del calibro di pochi millesimi di millimetro; questi fragili canali sono la sola connessione fra i recettori sensoriali (che rilevano ristrette bande di alcune forme delle energie che permeano l’ambiente) ed il cervello. Le informazioni veicolate da questi canali contribuiscono in misura sostanziale al sussistere del nostro Io pensante poiché è questa eccitazione afferente che mantiene il flusso ordinato del pensiero ed infine la  nostra autocoscienza”.

 

Mountcastle ricorda non solo che il processo di rilevazione degli stimoli ambientali è parziale (ad esempio, dell’intero spettro delle onde elettromagnetiche, l’occhio umano coglie solo quelle con lunghezza d’onda compresa fra i 400 e i 750 nm), ma anche che il processo di decodificazione e di trasmissione dell’informazione dalla periferia al centro la modifica e, infine, che i circuiti cerebrali compiono su questa informazione un’operazione che è descritta mediante un’analogia illuminante: “essi[i circuiti cerebrali] sono come dei cantastorie che dall’informazione che arriva loro attraverso le vie sensoriali creano un racconto plausibile, ma non fedele”.

 

Da qui origina la distanza fra ambiente esterno e rappresentazione che abbiamo di esso; distanza che sarebbe incolmabile se l’attendibilità della rappresentazione che il nostro cervello ha costruito dell’ambiente esterno non fosse continuamente “provata” dall’atto motorio, cioè dall’azione che compiamo sull’ambiente, eseguita utilizzando quella rappresentazione. È attraverso fibre nervose simili a quelle delle afferenze sensoriali che il SNC comunica  con gli effettori muscolari inducendo in questi le risposte motorie che devono esser eseguite. Questi atti motori (articolazione di suoni, movimenti degli arti e delle mani, …) permettono non solo di provare il modello del mondo esterno, ma anche di far filtrare, attraverso gli alti muri della coscienza di sé, i nostri flebili messaggi.

 

Sulla base di queste assunzioni, possiamo suggerire una risposta, seppure non risolutiva, alle domande su poste: forse la sola comunicazione possibile dei risultati della ricerca che ciascuno compie nel suo mondo interiore e del suo essere nel mondo si attua attraverso quei particolari prodotti dell’attività motoria che definiamo ‘arte’.

 

Dunque la bellezza troverebbe espressione nell’arte e l’arte sarebbe a sua volta una forma molto efficace di comunicazione fra interno ed esterno?

 

Quest’affermazione non è che un’estensione di quanto il grande biologo Young ha scritto: “Talento straordinario e unico della nostra specie è il trasferimento dell’informazione e questo contribuisce enormemente alla sua fitness. In particolare, la comunicazione mediante simboli, e quindi mediante l’arte e la letteratura, lungi da essere attività priva di rilevanza pratica, è di fondamentale importanza per la sua omeostasi”.[1]

 

In questo brano Young si richiama sia all’omeostasi del mezzo interno, sia a quella psichica che sono strettamente interconnesse.[2]

 

Così arriviamo alla domanda cruciale: perché il trasferimento d’informazione che avviene mediante l’opera d’arte, ci appare del tutto diverso da quello attuato, ad esempio, da un bollettino di borsa?

 

Un grande letterato, Marcel Proust, e un grande matematico, Godfrey Hardy, concordano nell’affermare che l’informazione che fa emergere la bellezza dell’opera d’arte o di un teorema ha qualcosa di assoluto che, nel primo caso riguarda l’essenza del mondo interiore dell’uomo, nel secondo caso una verità che, forse, è posta di là dell’uomo e quindi anche della Natura.

 

Scrive Proust nel Tempo ritrovato: “L’impressione è per lo scrittore ciò che è l’esperimento per lo scienziato: con questa differenza tuttavia, che nello scienziato il lavoro dell’intelligenza precede, nello scrittore segue. Quel che noi non abbiamo dovuto decifrare, chiarire con il nostro sforzo personale, quel che era chiaro prima del nostro intervento, non è cosa nostra. Proviene da noi solo ciò che noi medesimi traiamo dall’oscurità che è in noi e che gli altri non conoscono.

 

Così che non siamo liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un tempo necessaria e nascosta e, come faremmo per una legge di natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di farci fare non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso ce ne reca il ricordo vero?”

 

Confrontiamo queste affermazioni con quanto scrive Hardy nell’Apologia di un matematico: “Credo che la realtà matematica sia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre ‘creazioni’, siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni”.

 

Vi è, però, una connessione fra ‘bellezza’ e matematica poiché: “L’importanza di un risultato matematico dipende dal suo valore estetico poiché al mondo non c’è un posto perenne per la brutta matematica”. E più avanti puntualizza: “È senza dubbio difficile definire la bellezza della matematica, ma questo è altrettanto vero per qualsiasi genere di bellezza”. Inoltre, questa ‘bellezza’ non coincide necessariamente con quella dell’opera d’arte poiché: “Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme. Se le forme che crea sono più durature delle loro è perché le sue sono fatte di idee”.

 

Hardy attenua poi quest’affermazione di preminenza della bellezza della matematica confrontando versi di Shakespeare che, in un caso ci commuovono perché sono belli, nell’altro caso ci commuovono sia per la loro bellezza sia per i molteplici echi che suscitano in noi:

 

Not all the water in the rough rude sea/ Can wash the balm from an anointed King

Nemmeno tutta l’acqua del mare tempestoso e indomito/ Può cancellare il crisma di un re consacrato.

Shakespeare, Riccardo II, Atto III

 

Commenta Hardy: “Potrebbero essere più belli questi versi, nonostante la banalità e la falsità delle idee che esprimono?”

 

Riporta, poi, dei versi dal Macbeth Atto III:

After life’s fitful fever he sleeps well

Dopo il febbrile spasimo della vita dorme tranquillo

 

Commenta Hardy: “La forma è altrettanto bella di quella dei precedenti versi, ma in questo caso le idee le avvertiamo vere, e suscitano in noi un’emozione diversa, molto più profonda”.

 

 

Dunque la bellezza si collocherebbe in un territorio intermedio fra necessità, verità esistenziale e capacità di dare forma al mondo emotivo-percettivo?

 

Rispondo in maniera problematica: esiste il ‘bello’? Certo ci sono reti nervose attivate dalla rappresentazione pittorica di un paesaggio e non dalla fotografia dello stesso[3]. Solo nel primo caso c’è un’emozione che ci investe e consola dell’essere nel mondo. È possibile dare una definizione operazionale del ‘bello’ su questa base? Non credo poiché diviene fondamentale caratterizzare in modo inequivocabile l’emozione che si prova, il che è impossibile.

 

Dato per risolto il punto precedente, il che non è, si può rispondere alla domanda: le forme viventi sono belle? Ovvero la Natura è bella? Credo che come abbia descritto con freddo accoramento Leopardi nel Dialogo della Natura e un Islandese[4], la Natura non è bella né brutta ed è indifferente all’evento Uomo, evento effimero e sostanzialmente a essa estraneo come tutte le altre forme di vita[5]. La vita come la osserviamo è evento casuale, seppure forse come dice Kauffman vi è non solo la selezione naturale, ma anche l’emergere di un ordine gratuito, che porta allo scenario immenso della Biosfera. Il che, però, non comporta né un disegno e quindi neppure un fine[6].

 

 

Allora non esiste il mondo delle forme e quindi l’idea del ‘bello’, come valore assoluto, ma solo casuale?

 

Se si concorda con Godfrey Hardy si deve credere che esiste e che si coglie solo con la matematica pura. Certo questa è un’assunzione triste che sancisce un’ingiustizia per la stragrande maggioranza degli uomini, ma sempre secondo Leopardi la Natura non si cura della felicità dell’uomo e quindi non sorprenderebbe. Leggendo, però, le pagine che Thomas Mann nel Doctor Faustus dedica alla musica ci si convince che anche ascoltando musica si attinge alla bellezza. È da credere, quindi, che forse ogni prodotto artistico doni la sua bellezza a chi veramente ama la bellezza, dea e immortale.

 

 

L’arte, e la sensazione di bellezza che l’accompagna, sarebbero dunque essenzialmente terapeutiche all’esistenza dell’uomo sul pianeta?

 

L’Arte ci consola e accompagna in questo pellegrinaggio e codesta consapevolezza è qualcosa che ognuno, con intensità diversa, sente. Leopardi, con amarezza e lucidità, nota nel Dialogo della Natura e di un’anima che la profondità del sentire è anche condanna all’infelicità[7]. Forse, l’Arte è l’unico momento nella vita dell’Uomo che sente con intensità e non soffre, anzi come tu affermi può avere valenze ‘terapeutiche’[8].

 



[1]Young J. Z., An Introduction to the Study of Man, Oxford University Press, London 1974.

[2]Per i Greci antichi: eudemonia; se ne parla in Agnati, Guidolin, Fuxe L’anima fra cuore e cervello, Atti dell’Istituto Lombardo di Lettere, Scienze e Arti, in corso di stampa.

[3]Cela-Code CJ. et al., Proceedings of the National Academy of Sciences USA, 101, 6321–6325.

[4]“La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serva continuamente all’altra… quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente”.

[5]Raup stima che dal 99 al 99.9% di tutte le specie comparse sulla terra siano ora estinte. Ne sono attualmente presenti dai 10 ai 100 milioni. La storia della vita ha visto andare e venire dai 10 ai 100 miliardi di specie.

[6]Kauffman SA, The Origin of Order, Oxford University Press, New York 1993.

[7]Leopardi nel Dialogo della Natura e un’anima c’invita a riflettere su quest’aspetto affermando che anche questa consolazione si paga: […] l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell’infelicità propria.

[8]Art can influence humans evoking feelings, distracting attention, giving new insights. These functions can be used in Medicine, but also making art can be used as a tool in Medicine. Art therapy is the use of art expression and imagery to treat psychic disturbances or with individuals who are undergoing aggressive medical treatments such as chemotherapy (Malchiodi Int J Arts Med, 1993).

 

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