Editoria: vivere di nuvole

8 Novembre 2013

La persistenza tenace di un’organizzazione del mercato basata sulla filiera lunga e sulle concentrazioni funzionali dei grandi gruppi, che di questa lunga filiera controllano ogni passaggio, dalla produzione alla distribuzione, rende il sistema editoriale italiano simile a una specie di goffo lucertolone giurassico votato a una rapida estinzione in un mondo dove i meteoriti fatali si chiamano immaterialità, commons, condivisione dei saperi, intelligenza collettiva, post-scarsità, accesso, disintermediazione.

 

Refrattario alla sperimentazione di modelli diversi, nel suo inesorabile declino questo sistema sta trascinando con sé anche molti soggetti antagonisti, piccole librerie ed editori indipendenti, ed esasperando la precarizzazione del lavoro editoriale a livelli finora mai sperimentati. Questa causa endogena dell’attuale sfacelo, il discorso ufficiale e istituzionale sulla crisi del libro tende a passarla sotto silenzio. Esplorare alternative è più che mai urgente. Il settore discografico, che negli ultimi anni ha spesso anticipato fenomeni e tendenze dell’editoria, è un buon punto di partenza.

 

All’inizio di ottobre, il colosso editoriale statunitense HarperCollins ha annunciato di aver stretto un accordo con scribd.com per offrire accesso alla sua backlist digitale, cioè a tutti i titoli del catalogo con esclusione delle novità, nell’ambito dell’abbonamento proposto dal sito. Una tariffa di $8,99 al mese, poco più di €6,50, permette dunque agli utenti di leggere sui loro device, a gruppi di dieci alla volta, le migliaia di libri di uno dei marchi editoriali più prolifici e influenti al mondo, insieme a quelli di un gruppo a dire il vero ancora sparuto di editori più piccoli.

 

Questa notizia segue di poche settimane il debutto di oysterbooks.com, start-up newyorchese che per quasi un dollaro in più assicura ai suoi abbonati – al momento solo statunitensi e solo provvisti di device Apple – accesso illimitato a oltre centomila titoli di vari editori, grandi e piccoli. Cominciamo dunque ad avere a che fare con numeri che rendono meno esotiche soluzioni di questo tipo, esplicitamente ispirate ai servizi di streaming video e musicale, anche in ambito editoriale. Qui un’utile panoramica.

In Italia finora la novità non ha avuto grande eco, soprattutto da parte degli editori e degli altri potenziali diretti interessati. Altrove invece i commentatori ne hanno messo in rilievo l’effetto potenzialmente dirompente. A fare giusto i conti della serva, infatti, per gli utenti i vantaggi di un sistema del genere sono molto rilevanti: con una spesa equivalente grosso modo a meno della metà del prezzo di copertina medio di un libro di carta e al doppio circa del prezzo medio di un ebook il lettore italiano avrebbe accesso a un’intera biblioteca di titoli, a decine di migliaia di libri.

 

Certo, si tratterebbe di accesso e non di possesso, il che forse costituisce un deterrente per i lettori più affezionati all’idea di una biblioteca personale intesa come una collezione permanente, ma in fin dei conti è vero anche che una collezione “vintage” nulla ha a che vedere con una cartella piena di file chiusa in un computer che presto sarà troppo vecchio o rotto, e che invece ai vantaggi di una scelta virtualmente illimitata ci si abitua presto.


 

Il modello abbonamento/streaming vive però le prime controversie. A fine giugno, due interventi autorevoli in campo musicale danno luogo a un’accesa polemica sul trattamento economico degli artisti nei nuovi sistemi di diffusione musicale. In una lettera aperta pubblicata da USA Today i Pink Floyd puntano il dito contro la web radio Pandora, che a dispetto di un bilancio florido aveva chiesto al Congresso uno sconto niente meno che dell’85% sulle royalty da versare ai musicisti. Ci sono a dire il vero anche riscontri oggettivi, a distanza di tempo, del fatto che almeno in qualche caso prese di posizione del genere poco hanno a che vedere con la politica militante, e si rivelano piuttosto mosse di un’aggressiva strategia di marketing.

 

I Coldplay, ad esempio, all’uscita del loro album Mylo Xyloto, nel 2011 avevano diramato bellicosi annunci rivendicando l’unità della loro opera, che non andava smembrata in un’indistinta combinazione di streaming dei singoli brani, e che però oggi, esaurite le dinamiche del lancio commerciale, è pacificamente disponibile anche su spotify. Altre volte sembra invece trattarsi di rivendicazioni dalla vista più ampia, come quella di Thom Yorke, leader dei Radiohead e degli Atoms for peace, che annuncia la rescissione degli accordi con spotify.com e rdio.com, adducendo come principale motivazione il fatto che i servizi di streaming sono iniqui non solo e non tanto sul suo personale borderò quanto soprattutto su quello degli artisti meno noti al grande pubblico, soprattutto indipendenti. Ma le statistiche Nielsen SoundScan 2012 per il mercato statunitense sembrano smentire il bardo dell’Oxfordshire, registrando un netto incremento dei proventi originati dal mercato digitale e in particolare dagli streaming proprio per le etichette indipendenti.

 

 

Queste polemiche sembrano finora limitarsi all’ambito discografico, benché anche in ambito editoriale qualche malumore si sia già registrato per la poca chiarezza in materia di royalty da parte di Oyster. La trasparenza a questo proposito sembra invece un vero e proprio cavallo di battaglia della spagnola 24symbols.com, che ai suoi utenti offre l’accesso a 15.000 titoli con un abbonamento mensile di €5 (ma anche l’accesso gratuito a molti libri, con pubblicità).

 

La compagnia ha reso pubblica un’esposizione colloquiale del suo business model, ma in rete si trova un documento ancora più istruttivo, da cui si ricava che agli autori sono garantite royalty pari al 70%, calcolate secondo un computo basato non sulle copie, come nel sistema tradizionale, bensì sull’unità di misura (non meglio specificata) delle pagine lette dagli utenti. Sia detto per inciso, nell’ambito della non-fiction e dei periodici scientifici la vendita di singoli capitoli o singoli articoli di riviste o raccolte, com’è noto, è stata sperimentata da tempo con successo, e tuttaviaia qui siamo di fronte alla possibilità di un vero e proprio mutamento di paradigma, che potrebbe influire sui processi creativi in modo per certi aspetti analogo alla crescente preminenza del brano rispetto all’album nel campo della musica digitale, ma con esiti imprevedibili.

 

La recente presa di posizione di David Byrne in un lungo e articolato ragionamento pubblicato dal Guardian ha il merito di focalizzare la questione del conflitto su un altro piano, a mio avviso decisivo. Sempre facendosi araldo degli artisti emergenti, Byrne si chiede con toni preoccupati se in una situazione di monopolio dello streaming come forma della fruizione dei contenuti culturali – non solo musica, ma anche «TV, film, giochi, arte, porno» e, aggiungiamo, libri – il tenore delle retribuzioni che provengono da questo sistema alle condizioni attualmente proposte da spotify possa verosimilmente garantire ai giovani creatori una fonte di guadagno stabile e affidabile.

 

Ora, la questione del reddito è senza dubbio il punto centrale, ma è corretto porla in questi termini, opponendosi a un modello nuovo perché non ha i numeri per costituirsi come fonte principale dei proventi di un autore? Questa impostazione del problema non solo pare fuori luogo rispetto alla ricchezza e alla complessità dei canali che oggi veicolano l'offerta culturale, ma sembra anche non tener conto del fatto che a essere inadeguato come fonte principale di reddito per gli autori è piuttosto il sistema del copyright in sé, prima ancora delle sue declinazioni, tradizionali o innovative che siano.

 

Per quanto possa sembrare amara e disillusa, la constatazione che chi basa sulle royalty il proprio reddito si colloca per lo più al di sotto della soglia di povertà relativa europea proviene non dalle frange estreme dell'attivismo hacker ma dalla più alta sfera istituzionale, espressa e ribadita dalla vice-presidente della Commissione europea e responsabile dell'Agenda digitale europea Neelie Kroes.

Molti dei musicisti che riguardo a spotify sono infastiditi dalla invadente presenza delle major o insoddisfatti delle royalty optano per un profilo su bandcamp.

 

Su questa piattaforma, espressamente dedicata ai musicisti indipendenti, è possibile ascoltare i brani gratuitamente, senza limitazioni, ma si ha anche la possibilità di sostenere un artista versando un importo superiore al prezzo che ha fissato per il download. E le condizioni per gli autori sono molto vantaggiose, perché oltre a molti strumenti di gestione e marketing che altrove sono disponibili soltanto a pagamento, le royalty versate ammontano all’85%, e per di più il 15% trattenuto dalla piattaforma viene addebbitato con un interessante sistema scalare proporzionale tarato sul volume d’affari medio, che permette a ciascun artista di trovare il suo ritmo prima che vengano addebbitate le quote dovute.


 

Quali ispirazioni dunque può trarre il mondo del libro da queste esperienze del settore musicale? In attesa di una buona riforma delle leggi europee sul copyright, non sarebbe affatto male se la piattaforma che porterà i libri nella nuvola assomigliasse più a bandcamp che a spotify, cioè che fosse uno spazio indipendente dedicato a editori e autori indipendenti, con un sistema di retribuzione equo, dinamico e aperto al crowdfunding, senza restrizioni di accesso ai contenuti, per una nuova alleanza tra creatori e fruitori basata sul reciproco rispetto.

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