L'uomo che visse due volte

9 Gennaio 2014

– “Tutti i giorni sparisce qualcuno”
– “Ogni volta che uno esce da una stanza”
(da Michelangelo Antonioni, Professione Reporter)



8
Ottobre 2013. Queste righe trattano di una mostra che ha già chiuso i battenti. E’ una pratica poco corretta, lo so. Il lettore deve essere nelle condizioni di metter alla prova quanto scrive un critico: non è questo uno dei lasciti fondamentali, quanto poco rivendicati, del modernismo? Almeno da quando Clement Greenberg, alla metà degli anni quaranta, invitava i lettori di “The Nation” a verificare di persona quanto scriveva sulle primissime mostre di un pittore sconosciuto, Jackson Pollock.

 

Ma il caso presente è singolare. Perché la mostra in questione ha chiuso non da qualche giorno bensì da quasi dieci anni. Eppure solo adesso mi sembra giunto il momento propizio per parlarne – o forse solo il più intempestivo per un blog.

 



2004, Maison de la Photographie di Parigi. Visito Un état des lieux, mostra del fotografo Bruno Rosier. Chissà cosa avevo in mente di così importante da scrivere di getto, ai margini del comunicato stampa, alcuni appunti praticamente illeggibili – la maledizione dei mancini.

 

 

1992, Porte de Clignancourt. Bruno Rosier visita quel Merzbau contemporaneo che è il mercato delle pulci di Parigi. Si ritrova tra le mani un pacchetto di fotografie color sabbia che ritraggono un signore distinto. L’unica indicazione della sua identità è nelle iniziali riportate sul retro: R.T.

 

1935-1954, mondo. Sono foto di viaggio scattate tra il 1935 e il 1954, quando si afferma un nuovo sguardo turistico che ridisegna tra l’altro i rapporti tra memoria e tecnologia. Foto delle vacanze di un francese prima e dopo la seconda guerra mondiale. Emblematici i luoghi, dalle piramidi di Luxor ai grattacieli di Manhattan.

 

 

 

La cartografia completa: Algeria, Argentina, Brasile, Canada, Egitto, Grecia, Haiti, Islanda, Perù, Portogallo, Stati Uniti, Uruguay. All’interno del pacchetto di foto si trovano inoltre fatture di hotel e pochette turistiche di Londra, Angkor, Tokyo, Machu Pichu, New Orleans, non documentate da alcuno scatto. Classica la loro composizione: R.T. in primo piano, con un monumento o un paesaggio sullo sfondo; in altri scatti senza sfondo è la didascalia a indicarci che siamo, ad esempio, sull’isola Spitzberg in Norvegia.

 

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2013. Percorrendo un corridoio sotterraneo del lager nazista di Fort Breendonk in Belgio, W.G. Sebald sente l’oscurità infittirsi al pensiero “di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno” (Austerlitz).

 

2004. Chissà se a scattare queste foto senza pretese estetiche sia sempre la stessa mano, quella di una compagna o un compagno di viaggio che non amava farsi riprendere o che ha tenuto per sé tutti i ritratti di coppia. O forse R.T. è un esploratore solitario e le foto sono prese da passanti accondiscendenti, cui viene data come unica indicazione quella di riprendere lo sfondo assieme al soggetto dopo aver contato fino a tre.

 

 

1992. Come è possibile che qualcuno sia così spietato da sbarazzarsi di un album di famiglia – la forma più intima di archivio fotografico – e venderlo a un robivecchi? Che si tratti di un nipote che ha fretta di svuotare i fondi di magazzino di una residenza familiare? Di una compagnia di trasloco che rivende alle bancarelle quanto dimenticato in un cassetto – per loro nient’altro che immagini impresse su fogli di carta non diversamente da un’affiche pubblicitaria? Queste foto facevano tutt’uno con una trama di voci narranti fuori campo e di salaci aneddoti.

 

Ora sono immagini mute che non mostrano altro che quello che si dà a vedere. Una lacuna che ha tuttavia un risvolto positivo: queste foto diventano di nuovo disponibili, aperte a successivi investimenti di senso, a un progetto artistico dall’ambizione smisurata come quello di Bruno Rosier.

 

1935-54. I vestiti, la cravatta, il cappello: R.T. è decisamente un borghese agiato. Disinteressato allo spirito da reportage, i luoghi visitati si risolvono per lui nell’attrazione principale, da immortalare in foto-cartoline.

 

21
2013. Al di là dell’archivio-trouvé c’è la nostra storia, quella dei nostri viaggi. Molti dei luoghi fotografati sono così familiari che presto ci si chiede se a casa nostra giacciono da qualche parte scatti simili. E chi non si sente interrogato da queste foto si sbaglia; “L’histoire du premier personnage était la sienne, celle des deux est la nôtre”, scrive Emmanuel Kraft pensando a R.T. e a Rosier.

 

2004. Piccolo esercizio sterile: visitare la mostra pensando al prossimo viaggiatore che riprenderà il periplo compiuto da R.T. e da Bruno Rosier. Quanto dovrebbe prodursi dal 2035 al 2050. I nati negli anni novanta del secolo scorso sono i migliori candidati.

 

 

1992. Dimenticavo un particolare: Bruno Rosier si accorge di somigliare molto a R.T. Acquistato il pacchetto di fotografie è attraversato da un’idea balzana, una di quelle che in genere si esauriscono con una risata: rendersi fisicamente in tutti i luoghi visitati da R.T., reperendo di volta in volta il punto esatto degli scatti. Doppiare il periplo di R.T. cinquant’anni dopo. Rosier indosserà gli stessi vestiti e assumerà le stesse pose del suo doppelgänger, certo che, una volta esposte una accanto all’altra, sarà difficile distinguerle. Per completare questo progetto artistico gli saranno necessari una quindicina d’anni. Solo l’ordine delle tappe non seguirà scrupolosamente l’originale, per l’esigenza economica di accorparne quante più possibili.

 

1935-54. La storia – non una come tante bensì quella che ruota attorno alla seconda guerra mondiale – e la memoria personale di R.T. s’imbrigliano in modo impercettibile in questi scatti. Nei limiti del possibile, R.T. viaggia e  schiva vicende storiche più grandi di lui. Non a caso mancano le foto tra il 1940 e il 1945.

 

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2013. Visitiamo un luogo per la prima volta, finché i nostri genitori ci dicono che in realtà ci siamo già stati ma eravamo troppo piccoli per ricordarcelo. A volte sono loro a non ricordarsi più dove siamo stati, oppure non sono più tra noi per ricordarcelo. Insomma bisogna accettare il fatto che, in linea di principio, in età infantile, potremmo esser stati dappertutto. Il mondo è pieno di gente che si sposta freneticamente senza sapere se è già stata qui e là, senza sapere a cosa attribuire un’improvvisa sensazione di familiarità o estraneità. Dove spingersi per esser sicuri di visitare un posto per la primissima volta?

 

 

 

2004. Le fotografie sono esposte in forma di dittici. Il nostro sguardo oscilla tra destra e sinistra, preso a scovare le differenze tra le due come in un gioco da settimana enigmistica. A volte sono appena pronunciate: le strisce pedonali che segnano una piazza, un cordone di recinzione a protezione dei monumenti, un pavimento prima accidentato ora spianato; altre volte sono drastiche, come l’avanzamento della conurbazione.

 

Il numero delle differenze resta in finale ignoto, lo scarto tra le due foto indeterminato. Non è difficile riconoscere il colore seppia della stampa, lo stato di conservazione dell’impressione, i bordi leggermente consumati, i punti di vista diversi. Altra storia è sapere in cosa esattamente le foto siano dissimili: cosa è in ballo in questa oscillazione dello sguardo? Il loro simultaneo offrirsi allo sguardo è una falsa diplopia, o una diplopia che si gioca nella durata piuttosto che nell’atto immediato della percezione, e che confonde vecchie nozioni quali l’originale e la copia, la verità e la sua falsificazione e così via.

 

1992. Riappropriandosi dell’identità e della memoria di R.T., Bruno Rosier la cannibalizza. Si accorge presto che è difficile tenerle separate dalle sua identità e dalla sua memoria. Un caso di mimetismo? La domanda non è innocente. Nel mondo animale, la posa d’immobilità è stata a lungo considerata come uno stratagemma per passare indifferenti davanti al nemico, come una reazione di difesa. Tuttavia a volte il mimetismo è così riuscito da diventare controproducente: gli orticoltori tagliano colle cesoie i bruchi geometridi che imitano gli arbusti; i filli o insetti-foglia si brucano reciprocamente prendendosi per delle vere foglie.

 

 

 

Come ha dimostrato Roger Caillois da cui provengono questi due esempi, il mimetismo produce l’effetto contrario: non quello di difendere l’animale ma quello di esporlo alla propria estinzione. Nella capacità dell’animale di farsi vegetale, di scomparire assimilandosi all’ambiente, di regredire a uno stato inanimato, è all’opera non un istinto di sopravvivenza ma una pulsione di morte.

 

1935-54. Dell’allucinosi spaziale e temporale di Un état des lieux, Bruno Rosier non è colpevole. Forse neppure R.T., che non ha fatto altro che scattare la stessa foto per vent’anni, assumendo la stessa posa, indipendentemente dalla latitudine terrestre in cui si trovava. Cambia il cappello, il taglio del vestito, ma l’espressione è sempre quella, non scossa dai luoghi. Questi scorrono alle sue spalle quasi a sua insaputa, come una quinta teatrale, persuasi come siamo della loro presenza, della loro perennità. R.T. reinventa così un vecchio dispositivo quale il panorama, in cui davanti allo sguardo dell’osservatore immobile scorrevano ampie viste di località celebri, uno spettacolo per viaggiatori troppo pigri per vivere altrimenti la loro voglia di esotico.

 

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2013. In Vertigini il narratore o lo stesso Sebald viaggia in Veneto a bordo di un pullman, dove tenta goffamente di ottenere una foto di due giovani gemelli che sembrano la reincarnazione di Kafka, attirandosi la diffidenza dei genitori sulle sue vere intenzioni. Viene così preso da “una collera impotente perché non avrei potuto addurre alcuna prova di quell’incontro inverosimile”. Nel bagno della deserta stazione di Desenzano si chiede se Kafka, di passaggio da quelle parti nel 1913, “non si fosse per caso guardato anche lui lì, nel medesimo vetro”. Tornando a W., suo paese natale nel cuore della Selva bavarese, Sebald doppia il viaggio di Tiepolo del 1750, da Venezia a Würzburg. In un’altra occasione percorre l’Italia col diario di viaggio di Grillparzer (autore caro anche a K.) fra le mani.

 

2004. Diversi progetti artistici contemporanei, e Un état des lieux fa parte di questi, esibiscono quella felice convergenza tra fotografia, architettura e temporalità che Pamela Lee ha denominato “effetto Austerlitz” in riferimento all’omonimo romanzo di Sebald, pensando in particolare alle pratiche concettuali della fotografia sin dagli anni sessanta. Un effetto causato da uno spostamento geografico, come nel caso di Austerlitz o dello stesso Sebald, tedesco trasferitosi in Inghilterra che insegnava in inglese e continuava a scrivere, nella sua lingua materna, di esplorazioni fisiche e mentali in paesi quali la Francia o l’Italia.

 

 

1992/1935-54. Anche le rovine evolvono, continuano a rovinarsi – “ruina ruinans”, si j’ose dire. Il Wawanna Big Tree o, secondo la cartolina, il Fallen Tunnel Tree, è caduto dopo 3000 anni; il palazzo di Dar-el-Kebir ha un piano in più; San Paolo è irriconoscibile.

 

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Essere già qui. “Spesso, in giardino, Linnaeus vedeva ‘il suo altro sé’ che camminava parallelamente a lui, e il fantasma imitava i suoi movimenti, per esempio si chinava per esaminare una pianta o per cogliere un fiore. A volte, in biblioteca, l’alter ego occupava il suo posto allo scrittoio. Una volta, durante una dimostrazione per i suoi allievi, Linnaeus decise di andare a prendere un esemplare dalla sua stanza. Aprì rapidamente la porta per entrare, ma subito si fermò dicendo: ‘Oh! Sono già qui’” (così Macdonald Critchley in una storia dell’emicrania citata da Oliver Sacks nel suo recente Allucinazioni).

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