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Un verso, la poesia su doppiozero / La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

25 Aprile 2017

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

È un verso di Mallarmé, che nella sua lingua suona: La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres. Apre Brise marine (Brezza marina), poesia scritta dal poeta nel 1865, a ventitré anni. Un verso, dunque, della prima stagione del poeta, una stagione ancora tutta segnata dall’entusiasmo per le Fleurs du mal di Baudelaire (la cui seconda edizione era uscita nel 1861). La poesia è infatti in dialogo con alcuni famosi fiori baudelairiani come Parfum exotique, o L’Invitation au voyage , o La Musique

 

 Un primo verso che, accanto ad altri primi versi delle poesie più enigmatiche o complesse di Mallarmé, è diventato memorabile (almeno presso i cultori di poesia). Il primo verso e l’ultimo verso sono per un poeta soglia e congedo di un’avventura nella lingua, con la lingua; ispirazione, azzardo, risonanze e rifrangenze possibili di senso si raccolgono nell’incipit o nell’explicit: come il ventaglio del nostro sentire si fa denso e talvolta impetuoso nell’occasione della partenza e dell’addio. Alcune poesie restano appunto memorabili per il primo verso, altre per l’ultimo. Ma è più spesso nel primo verso che si può avvertire l’energia di una lingua la quale, muovendo dal silenzio, porta con sé la musica del senso, il miracolo della congiunzione inseparabile di senso e suono. È nel primo verso che l’ispirazione mostra quella soglia dove affida l’ebbrezza del sentire, dell’immaginare inatteso e del pensare alla tecnica e alla fatica della composizione. Ispirazione e lavoro, insieme, diceva Baudelaire della poesia.

 

E Valéry, che di Baudelaire e di Mallarmé si sentiva discepolo ed erede, diceva che il primo verso è un dono, tutto il resto è lavoro. 

Una divagazione d’apertura. Per dire che questo primo verso di Brise marine, come altri delle poesie che più affannano i traduttori (per esempio Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui) nella memoria dei lettori si è come staccato dal corpo del poème e ha avuto un suo solitario cammino. L’effetto di sorpresa del verso, al di là del fatto che diventa sorgente delle figurazioni successive, sta nell’aver portato in una contiguità inattesa la riscrittura di una citazione evangelica (Gesù nell’orto del Gethsemani: “Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic et vigilate mecum”, Matteo, 26, 38) e l’affermazione di un sapere esaustivo, compiuto ("e ho letto tutti i libri"), un’affermazione che così come è formulata mostra tuttavia la distanza dalla sapienza. Inoltre nella citazione evangelica c’è un’infrazione, un’opposizione: all’anima, alla sua tristezza, si sostituisce la carne, la sua tristezza. Tristezza che nessun sapere può mitigare, nessun libro consolare. Nel cuore del verso una sorta di pausa o cesura teatrale, un’esclamazione scenica: hélas!

 

Un intervallo che dà al verso una postura declamatoria, una sorta di preventivo diaframma nei confronti del desiderio di fuga e di libertà marina, o marinaresca, di cui diranno i versi seguenti. Il verso è un verso-annuncio, la dichiarazione di uno stato d’animo al quale può seguire l’efflorescenza di immagini convocate a definire il desiderio d’avventura che il mare suggerisce. Desiderio di partenza. È dalla soglia di questo primo verso che prende il via, dunque, una delle poesie di Mallarmé più esplicitamente baudelairiane: la noia e il sogno dell’altrove, la prigionia dei sensi e il viaggio per mare, il cielo interiore chiuso e plumbeo e il cielo esteriore solcato da uccelli ebbri, l’addio e l’ignoto di cui il mare è custode, la partenza e l’abbandono al vento che fa veleggiare verso lontananze ignote.

 

Ma il lettore sente che l’esercizio poetico ai margini delle Fleurs du mal ha già in sé uno slancio che annuncia un singolare e proprio cammino. Ecco i primi versi negli alessandrini del giovane Mallarmé, ai quali seguono i versi di una mia vecchia traduzione in endecasillabi italiani (alla centralità dell’alessandrino nella poesia francese corrisponde la centralità dell’endecasillabo nella nostra poesia, ma i due versi hanno misure e timbri e movimenti ritmici diversi; sicché la scelta dell’endecasillabo italiano privilegia in questo caso non l’equivalenza metrica e ritmica ma un'analogia di tradizione poetica, ed è consapevole di dovere in qualche modo prosciugare la narratività teatrale del verso alessandrino francese):

 

 

La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres.

Fuir! Là-bas fuir! Je sens que les oiseaux sont ivres

D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!

Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux

Ne retiendra ce cœur qui dans la mer se trempe

La carne è triste e ho letto tutti i libri. 

Laggiù fuggire! Ascolto uccelli ebbri

del volo tra la schiuma e i cieli. Niente,

non i giardini negli occhi specchiantisi,

mi tratterrà dall’avvolgente mare

 

Niente, non il chiarore di una lampada notturna che illumina un foglio bianco, né l’immagine di una donna che allatta il figlio può trattenere il poeta dal viaggio, o almeno dal suo impetuoso desiderio: “… Steamer balançant ta mâture, / Lève l’ancre pour une exotique nature!” (… Alberatura che ondeggi / salpa ora verso esotici paesaggi). Eco del “Levons l’encre” che apre l’ultima strofa del Voyage di Baudelaire. Annuncio della sestina che chiuderà Le cimetière marin di Paul Valéry, con il vento che si leva e l’invito ad affrontare la vita, anche lì in una sorta di ebbrezza per un’odissea interiore che la figura del mare sollecita e sempre rappresenta, in quanto, lo aveva scritto ancora Baudelaire, il mare è “un infinito diminutivo”, un “infini diminutif”.

 

Diremmo, pensando al “mare” che chiude L’infinito leopardiano: figura prossima e visibile e dicibile di un infinito altrimenti irrappresentabile e incomprensibile nel pensiero. La poesia di Mallarmé si chiude con l’invito, anche questo tutto baudelairiano, ad ascoltare il canto dei marinai. Una poesia, come lo sono del resto altre coeve quali Soupir o Tristesse d’été – che appartiene a un primo tempo di Mallarmé. Un indugio sul motivo dell’altrove e della lontananza da parte del poeta che poi si sospingerà più di ogni altro sui confini estremi del linguaggio, nel confronto aperto con il suo limite e il suo oltre. 

 

Un verso:

L'amor che move il sole e le altre stelle

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi

Spesso il male di vivere ho incontrato

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