Addii all’ombra delle magnolie

20 Aprile 2014

Dobbiamo alle magnolie orientali, caducifoglie e arbustive, le prime sontuose fioriture primaverili. Tra marzo e aprile i rami ancora nudi si ricoprono, a seconda delle varietà, di nuvolose, sfarfallanti corolle bianche, crema, rosa o viola-porpora. Solo a petali caduti compaiono le foglie poi, in autunno, sul finire del ciclo vegetativo, i frutti attraenti quando scoprono i semi scarlatti.

 


Il genere, antichissimo (abbiamo fossili risalenti a cinque milioni di anni fa), venne così battezzato in onore di Pierre Magnol (1638-1715) che introdusse in botanica il concetto di famiglia. Alla fine del Seicento gli inglesi scoprirono le specie arboree, sempreverdi e fragranti, d’origine americana: la virginiana prima (1688), poi la più diffusa grandiflora.

 


Tra le asiatiche, la prima a giungere in Europa fu la Magnolia denudata, introdotta dalla Cina in Inghilterra nel 1789 da Sir Joseph Banks. La seguirono le più piccole della specie: la liliflora, con foglie appuntite e lunghi petali porpora, variamente sfumati di chiaro, più tardi la nipponica stellata, amatissima per le trine dei fiori dai petali ricadenti. Tutte hanno le loro esigenze: terreni ricchi e ben drenati, esposizione soleggiata ma riparata dagli eccessi di luce e di vento.

 


Nell’arboreto montaliano la magnolia è una presenza frequente, non generica né casuale. Tutti sanno che il fiore consacrato a Clizia è l’eliotropo; può, invece, sfuggire che al cospetto delle magnolie si celebrino gli addii con l’amata (La bufera, 1956). Il passaggio dal mito angelico, celeste e salvifico di Clizia a quello terrigeno, fulvo e boschivo di Volpe si consuma là, al margine delle Silvae (V parte), sotto L’ombra della magnolia:

L’ombra della magnolia giapponese
si sfoltisce or che i bocci paonazzi
sono caduti. Vibra intermittente
in vetta una cicala. Non è più
il tempo dell’unìsono vocale,
Clizia, il tempo del nume illimitato
che divora e rinsangua i suoi fedeli.

[…]

è l’autunno, è l’inverno, è l’oltrecielo
che ti conduce e in cui mi getto, cèfalo
saltato in secco al novilunio.
                                                     Addio.

Doveva essere una liliflora (cinese d’origine ma a lungo conosciuta come “magnolia giapponese” perché da lì importata), o l’ibrida soulangeana, per quei «bocci paonazzi».
L’americana grandiflora (eletta, secondo alcuni interpreti, a simbolo della civiltà dell’uomo travolta dalla bufera bellica) si accampa, invece, in esordio di raccolta a rievocare l’ultimo, indimenticabile e fotografico, gesto di saluto di Clizia:

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

[…]

                                                 Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entrar nel buio.

L’aggettivo «dure» rilevato in enjambement lascia pochi dubbi indentificativi. Inconfondibili nel coriaceo persistente double-face, le foglie «verdibrune» (come dice altrove il poeta), lucide nel recto pubescenti nel verso, fanno corona ai bianchi fiori carnosi, porcellanati, profumati d’agrume che s’aprono estivi a vertice dei rami: commoventi quando un poco sfatti accolgono a coppa gli stami caduchi.

 


Chissà quanto consapevolmente Montale ha legato alle magnolie la figura di Clizia. Certo, l’albero e la donna si ornano dei medesimi gioielli: in autunno le pigne della grandiflora sfoggiano frutti laccati di rosso. Rossi come i coralli di Clizia («le tue pietre, i coralli»), penduli come quei suoi orecchini fermati ai lobi da «squallide» mani, e «travolte» dalla stessa bufera che sgrondava quel giorno dalle foglie della magnolia. 

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