Un posto a Milano

14 Maggio 2012

Officine a Porta Romana (1908) è uno dei più noti quadri del periodo figurativo di Umberto Boccioni. Rappresenta i primi opifici fuori dalla cerchia delle mura spagnole, una grande casa popolare è in costruzione, in mezzo ci sono i prati. Poco più in là, ma forse a fianco, c’era già, dal Settecento, la Cascina Cuccagna. Fino a qualche anno fa parlare di cascine (oltre cinquanta censite nel territorio cittadino) e di agricoltura a Milano era quasi una bestemmia.  Eravamo cresciuti pensando che l’industria, pur inquinando l’aria, avrebbe garantito il benessere di tutti. Poi c’è stata la riconversione al terziario (piazza Affari! Armani e Versace! Il design!). Ora siamo quasi rassegnati all’idea che verremo svegliati non dallo sferragliare dei tram, ma dallo scalpiccio degli asinelli che porteranno i bravi milanesi a coltivare il proprio orticello. D’altra parte qualcuno vuole riaprire la cerchia del Naviglio e introdurre gabelle per chi arriva da fuori.

In attesa della peste o forse dell’Expo, all’interno della Cascina Cuccagna ha cominciato a funzionare da qualche settimana un ristorante. Io ci sono stato ed è molto interessante, non tanto per ora per quel che si mangia (anche se in generale si mangia bene), ma per quel che vorrebbe essere e in parte è già.

 

Entrando nella corte si incontrano molte e diverse persone che prendono un aperitivo: gruppi di amici, coppie giovani e di mezza età, famiglie con bambini, un bel po’ di stranieri. Si potrebbe dire genericamente “di sinistra”, ma è una notazione più stilistica che ideologica. Proseguendo c’è una sala per gli aperitivi - discrete etichette da accoppiare ai mondeghili (polpette nell’idioma locale), al baccalà mantecato, a dell’ottima focaccia e a stuzzichini più tradizionali – in fondo un bancone di una decina di metri che collega i diversi spazi: una grande sala, una più piccola e appartata con camino e i tavoli esterni. C’è infatti la possibilità di mangiar fuori, specie se si è in allegra brigata. L’impressione generale: materiali poveri, molto legno chiaro, sedioline quasi da aula scolastica. Nel complesso un’elegante sobrietà. Sarà lo zeitgeist? Tornano in mente, a parte il solito loden, locali di Berlino o Zurigo visitati anni fa.

 

La proposta parte dagli ingredienti scelti con cura – piccoli fornitori, chilometro zero e la solfa che si conosce – che si traduce in piatti tradizionali o leggermene rivisitati.Volevamo le sarde in saor ma il mare era in tempesta, mentre notizie più rassicuranti giungevano dai pollai: così, tra amici, abbiamo mangiato un buon pollo arrosto, ravioli ripieni di coniglio, baccalà mantecato (again! ma è colpa nostra se ci piace?), un plateau di formaggi di capra piuttosto buoni e un’eccellente spuma di yogurt con fragole. Vino rosé appena sufficiente (qui, lo ammetto, la colpa è nostra se ordiniamo rosé) e vino sfuso della casa. Con invidia abbiamo guardato il tavolo di fianco dove si spartivano una fiorentina fuori menu.

 

Tornerò? Beh per forza, perché ho mangiato nel complesso bene, perché tra i cinque soci (la derivazione è Esterni, un’associazione culturale milanese) ho due cugini e tre cari amici, ma soprattutto perché mi pare che sia l’inizio di qualcosa di nuovo, non ancora ben definibile, ma che a che fare con lo stare insieme in un modo diverso, sapendo da dove viene quel che si mangia. Non riesco per ora a dirlo meglio, ma valga un esempio tratto dal menu: passato di verdura per poppanti a tre euro. C’è forse qualcosa di irritante nel fatto che i figli e nipoti della semidefunta borghesia imprenditoriale utilizzino il proprio capitale sociale per aprire ristoranti e non laboratori di ricerca, ma una forma di ricerca è anche Un posto a Milano.

 

Si spendono sui trenta euro cum vino, ma ci si può sfamare solo con l’aperitivo con una decina di euri (come dicono a Roma).

 

Un posto a Milano, via Cuccagna 2, angolo via Muratori. Tel 025457785, Milano.

Aperto dalle 10 all’una di notte. In questo periodo è in gran voga e la sera conviene prenotare.

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