Speciale

Tempo di libri - maestri / Alice

28 Febbraio 2018

Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, non abbiamo solo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera, ma abbiamo pensato di organizzare dieci incontri: maestri che parlano di maestri. Venerdì 9 marzo alle ore 18.00, Franco Arminio parlerà di Gianni Celati.

 

Alice è la bambina protagonista di un libro fiabesco di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, scritto nel 1865 e tradotto in film almeno cinque o sei volte. L’ultima versione americana risale al 1951, con attori famosi come Gary Cooper e Cary Grant. Ed è probabile che dipenda dalle reminiscenze di questo film se, vent’anni dopo, il nome e l’immagine di Alice ricorrono in varie produzioni della controcultura americana, associati a un’idea di uscita dalla famiglia verso nuovi modi di stare al mondo.

Una canzone di Arlo Guthrie, intitolata Alice’s Restaurant, in quegli anni diventa un film di culto, distribuito nel 1970, che allude a una forma di vita comunitaria sostitutiva di quella familiare. Nello stesso periodo ha un certo successo, negli spazi della cultura giovanile, un disco rock di Grace Slick e i Jefferson Airplane, che comprende una canzone in cui la bambina Alice viene presentata come un prototipo dei dropout dell’epoca, e la sua avventura fantastica come un trip da acido lisergico. Poi, nel 1971, il gruppo rock californiano più inventivo e stravagante di quegli anni, Captain Beefheart & His Magic Band, presenta una canzone bizzarra intitolata Alice in Blunderland, dove i continui sbagli di Alice diventano l’esempio d’un modo di stare al mondo irrecuperabile al buon senso familiare.

Sono tracce di fermenti più vasti, nomi imparati al mio arrivo negli Stati Uniti nell’autunno del 1972. Tra gli studenti della casa dove abitavo, ce n’era uno appassionato di Arlo Guthrie, un altro che ascoltava il disco di Grace Slick e i Jefferson Airplane, un altro che parlava in gergo hippy, e un altro ancora che mi consigliava di leggere Pesca alla trota in America di Richard Brautigan − autore di libri stravaganti quanto le canzoni di Captain Beefheart. Tra i moltissimi fermenti dell’epoca, c’era anche questa moda d’una stravaganza “creativa” di tipo surrealista (il disco di Grace Slick e i Jefferson Airplane si intitolava, appunto, Surrealistic Pillow); ed era una stravaganza programmatica, nella quale si annidava il miraggio d’un modo di vivere liberato dalle rigidezze dell’establishment e del conservatorismo familiare.

L’esempio più insigne di queste tendenze, a cavallo tra anni Sessanta e anni Settanta, sono le canzoni di Bob Dylan, insieme al suo libro Tarantula. Qui si vede bene l’aggancio al surrealismo europeo, e specialmente a quel metodo surrealista chiamato “scrittura automatica”. Molte canzoni di Dylan coniugano il metodo surrealista delle libere associazione a una visione apocalittica dell’ordine politico-militare-commerciale americano. E sono testi in grande stile profetico-biblico, come Gates of Eden e It’s Alright, rivolti a un nuovo popolo americano giovanile, che idealmente ha rotto tutti i ponti con le istituzioni pubbliche, con la violenza incontrollata del potere politico e con la vita stagnante delle famiglie.

 

A quei tempi, il ruolo di oppositori delle tribù della controcultura era assegnato agli “uomini quadrati” (squared), gli uomini d’ordine, i rappresentanti della vita sedentaria. Questa è una cosa che ho imparato presto, perché in molti luoghi c’era gente che non sopportava hippy e dropout e ti interrogava per sapere da che parte stavi − soprattutto in quanto straniero. In realtà, si trattava della maggioranza assoluta degli adulti di razza bianca sul suolo USA: la formidabile barriera del conservatorismo americano, con fobie incontenibili verso omosessuali, comunisti, vagabondi, neri non ossequienti, artisti e stravaganti in genere. Tale maggioranza si era già molto ammorbidita rispetto ai vertici selvaggi toccati dal conservatorismo tra le due guerre, ed ora si presentava come un panorama di famiglie di classe media, di cui erano pieni i suburbs cresciuti con il generale arricchimento postbellico. La scena del conflitto tra generazioni era diventata quella: la casa nel suburb munita di tutti i comfort, con la famiglia aggrappata al vecchio principio del decoro e i genitori destinati a incarnare il cliché della vita stagnante − i cosiddetti “Mister Jones”, gli uomini qualsiasi delle “folle solitarie” (lonely crowds), come dicevano i sociologi.

Le mitologie degli anni Settanta ruotano tutte intorno all’abbandono di questo regime familiare da parte dei figli con nuove idee e nuovi orizzonti. Ma è un abbandono che non serve tanto a sgravarsi dai legami parentali quanto a trovare un nuovo codice dell’individualismo, nel cammino verso l’epoca ultramoderna. Codice che si elaborerà e si diffonderà negli anni Settanta con la nuova musica, con il culto delle droghe e del sesso ma anche con le nuove imprese commerciali o le avventure tecnologiche, come quella, per esempio, di Bill Gates. Ma, per potersi affermare, il nuovo individualismo doveva liberarsi di quello vecchio, dove erano rimaste troppe tracce del regime patriarcale di frontiera e delle sue fobie paralizzanti.

 

Questa evasione dai regimi domestici sembra riflettersi nell’avventura di Alice narrata da Lewis Carroll. Nel libro, Alice si infila in un buco per terra; poi vaga per cunicoli oscuri, che non si sa dove portino ma che sono teatro di incontri meravigliosi. La sua diventa così un’avventura sotterranea, underground − un’avventura, dunque, per certi versi clandestina − in uno spazio non istituzionale, ancora non codificato, come lo spazio verso cui s’orientano tutti i movimenti giovanili del tempo. Inoltre, nella figura di Alice sembra riflettersi una nuova direzione, dopo un decennio di duri scontri con l’establishment: dalle manifestazioni antirazziste nel Sud a quelle contro la guerra in Vietnam, fino alle tragedie massime dell’assassinio di Martin Luther King e Bob Kennedy, ultima testimonianza dell’insuperabile barriera del conservatorismo.

Questo è il mutamento che Alice incarna come una figurina nomade, scolara fuori dalla famiglia, ma anche bambina giudiziosa che parla a se stessa per sgridarsi. Mentre mantiene il senso d’una evasione dai muri casalinghi, Alice è l’immagine di uno stile di vita senza più scontri diretti, orientato verso una fuga laterale in terreni inesplorati. È un riorientamento tipico della controcultura degli anni Settanta, dove la bambina diventa una figura di mediazione nei conflitti perché estranea alla conflittualità tra adulti. Simbolismo che compare in vari film di quegli anni, film che pongono la bambina nel ruolo di guida e di mediazione: da Paper Moon di Bogdanovich, del 1973, ad Alice nelle città di Wenders, del 1974, al Fantasma della libertà di Bunũel, sempre del 1974; a Black Moon di Luis Malle, del 1975, e forse altri.

L’epoca dei grandi scontri termina con gli assassini comandati di Martin Luther King e Bob Kennedy, gettando su tutto il sistema politico americano un’ombra che non si è mai diradata. Dopo i discorsi di Bob Kennedy, che lanciavano un appello per la riforma dell’americanismo, e la sparatoria terroristica con cui essi si concludono, quasi come in un film western, nell’immaginario riformista americano crolla qualcosa. Ed è qui, credo, che comincia a elaborarsi il bisogno d’un nuovo codice dell’individualismo, senza più impulsi insurrezionali ma con orientamenti altrettanto “rivoluzionari”, applicati però a settori diversi dalla politica: costumi sessuali, gestione della soggettività, salvaguardia dell’ambiente, studi sul clima, teorie del caos, musica, microchip, software e spettacoli di viaggi spaziali.

 

All’inizio degli anni Settanta tira un’aria nuova, orientata verso la sensibilità, il sesso e la musica più che verso la politica. E non è un caso che proprio ora venga al pettine la questione dell’omosessualità, con la prima condanna ufficiale dei decreti di discriminazione, nel 1972, e la decisione della American Psychiatric Association di togliere l’omosessualità dalla lista dei disturbi psichiatrici, nel 1973. Nello stesso giro d’anni, mentre si avvertono sempre più le esigenze commerciali dell’industria discografica, tre morti violente tolgono di mezzo tre delle maggiori figure della musica rock americana: Janis Joplin (overdose di eroina), 1970; Jimi Hendrix (sonniferi, asfissia), 1970; Jim Morrison (apoplessia da stress), 1971.

 

La loro scomparsa cambia l’orizzonte del rock. Dopo le band anarchiche degli anni Sessanta, è la volta di gruppi che introducono sulla scena una musica convenzionale ma mirata, a seconda della fascia di pubblico a cui è destinata. Si impongono forme musicali che non richiedono più nessun ascolto, nessuna attenzione, e che servono soltanto da stimolazioni nervose, nel quadro di apparati spettacolari fantasmagorici. È un salto enorme per l’industria rock, un salto avvenuto nel giro di pochissimi anni, tra il 1970-71 e il 1974-75.

Parallelamente, assistiamo a un mutamento decisivo nell’uso delle droghe: da quelle tipiche degli anni Sessanta, come la marijuana, l’hashish e l’LSD, si passa alle droghe entrate in uso nelle cattedrali psichedeliche della musica disco (1975-79). In tutto questo, emergono modi sempre più differenziati di gestione della soggettività, che trapasseranno in altri campi − ad esempio, nel campo degli affari − con altre droghe, presto sostituite da pratiche come quelle mistiche e infine dalle palestre (alla fine degli anni Settanta, direi).

 

A parte questo, anche l’abitudine di drogarsi trova un’eco interessante nella storia di Alice. Nel libro di Carroll, infatti, Alice rimpicciolisce e ingrandisce a seconda dei morsi che dà a un fungo nel quale si è imbattuta; trasformazioni, queste, che sono state paragonate all’esperienza d’instabilità prodotta dall’LSD. La canzone di Grace Slick sopra citata diceva: “Una pillola ti ingrandisce, / una pillola rimpiccolisce, / ma quelle che ti dà la mamma / non ti fanno un bel niente. / Vai a chiederlo a Alice / quando è alta due metri”. È una concezione della droga che trova un riscontro nel racconto di Carroll, dal momento che gli episodi in cui Alice ingrandisce e rimpicciolisce sono narrati come fenomeni di autopercezione; anzi, come quelle alterazioni della propria immagine corporea, chiamate dismorfie (body dysmorphic disorders), in cui ci vediamo con una parte del corpo troppo grande, troppo piccola, deforme o difettosa.

Ancora all’epoca del mio arrivo negli Stati Uniti, le droghe come l’hashish o l’LSD erano intese come modi per prendere coscienza di sé, mediante l’attivazione del fenomeno dell’autopercezione, con la sua caratteristica instabilità emotiva. Il che seguiva una tendenza di fondo della vita moderna: quella dell’autocoscienza esasperata, dell’immagine di se stessi soggetta a continue alterazioni − da qui, il bisogno d’un controllo costante attraverso gli specchi, i riflessi nelle vetrine ecc. L’accentuarsi del controllo della propria immagine influenza poi l’abbigliamento e gli atteggiamenti tipici della musica rock degli anni Settanta, dal momento che, più l’autocoscienza è esasperata, più bisogna esteriorizzarla con atteggiamenti estremi, al fine di bloccare le falle nell’autopercezione.

 

E non è un caso se, nel folklore verbale di quegli anni, il consumo di droga viene chiamato trip, e cioè viaggio. Qui, il viaggio non ha più niente a che fare con i trasferimenti per necessità, né con gli spostamenti nomadici o il viaggio educativo, il tour europeo dei primi turisti americani. Il nuovo viaggio è come quello di Alice: un tragitto di autopercezione, ossia di percezione di se stessi in viaggio. È questa la nuova avventura che Carroll ha intravisto attraverso i discorsi che Alice fa a se stessa, benché mai del tutto sicura d’essere se stessa. È un altro modo di gestione della soggettività, simile e parallelo a quello della droga; ed è il succo del turismo attuale, che segna l’espansione planetaria del nuovo individualismo.

Per le famiglie medie americane, l’inizio degli anni Settanta coincide infatti con l’adesione a un’idea del mondo che è quella delle package holidays. Tutto ciò che ora chiamiamo turismo risale all’invenzione delle package holidays: offerte di viaggi organizzati, con comfort assicurato e una varietà di options che dà all’offerta un sapore assolutamente democratico. Se la trasformazione programmata dell’Homo sapiens in uomo consumatore è nata dalla grande idea americana degli anni Trenta, la democratizzazione turistica delle package holidays è stata il suo coronamento planetario. In questi viaggi, il turista può visitare a gran velocità una serie di paesi, guidato verso tutto ciò che c’è da vedere e senza mai il rischio di perdersi per strada − immune, dunque, a tutte le normali difficoltà di ambientazione in un luogo sconosciuto.

 

 

Comincia quindi un viaggiare che ha senso soltanto perché richiama alla mente l’esperienza del vecchio viaggiare esponendosi al mondo, ma senza più quell’esperienza, poiché questo è un viaggiare del tutto immunizzato. Lo stesso vale per il nuovo viaggiare on the road, che ha senso solo perché richiama alla mente il vecchio nomadismo americano, ma senza più la possibilità del nomadismo. Il nomadismo americano ha rappresentato una forma di vita giunta fino alle soglie degli anni Settanta, attraverso hobos, bluesmen, folk singers, viaggiatori di commercio, lavoratori stagionali. Stranamente, gli hippy o la gente come Kerouac non hanno percepito la differenza tra una forma di vita e una forma di vacanza. Perché il viaggio on the road di Kerouac è solo una sospensione delle abitudini di vita stanziale, ossia una vacanza nel senso proprio del nuovo viaggiare. Mentre nessun nomade ha mai sentito prima il bisogno di andare in vacanza.

La controcultura americana avrà un certo influsso in Europa: nell’abbigliamento, nella pratica delle droghe, nell’abbandono della vecchia nozione di decoro, nella nuova musica, negli atteggiamenti e negli stili di vita casual. Verrà un momento in cui il nome di Alice sarà anche in Italia un riferimento per quell’aggregazione sparsa e antistituzionale chiamata negli Stati Uniti The Movement. Nel 1977, a Bologna, Radio Alice diventerà il punto d’orientamento per altre tribù giovanili, con cortei, scontri con la polizia e nuovi spettacoli di stravaganza surrealista. I più ostili a tale ondata giovanile saranno i comunisti, non soltanto per questioni strategiche e di rifiuto dell’anarchia, ma anche, direi, perché fiuteranno da lontano l’apparizione d’un nuovo individualismo destinato a diventare la tomba del loro partito.

Come nei gruppi hippy, dropout o d’altro tipo che si incontravano nei concerti rock negli Stati Uniti, così, nel movimento giovanile italiano del ’77, il legame con gli altri non è dato da idee politiche o visioni utopiche, ma da questo sguardo d’ognuno su se stesso, sul proprio vestiario, sui propri gesti. È una comunanza basata su abitudini ormai interiorizzate, come il bisogno continuo di controllare la propria immagine e l’autopercezione necessaria a gestire l’instabile altalena della nostra soggettività. Tutto questo, in Europa, passa nell’ordine delle cose che si danno per scontate e sembrano a tutti naturali soltanto nel decennio successivo. Con l’affermarsi dell’ideologia economica thatcheriana, il nuovo individualismo viene infine recuperato come stile adatto ad una “libera economia di mercato”. 

 

Questo testo è già apparso in Anni Settanta, a cura di Marco Belpoliti, Gianni Canova, Stefano Chiodi, Skira.

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