Gli anni di Beppe Viola

9 Gennaio 2016

Beppe Viola è morto nell’ottobre 1982. Avrebbe compiuto 43 anni da lì a pochi giorni e da allora è molto rimpianto da un gruppo ristretto, ma non troppo, di fedelissimi. Erano passati tre mesi dall’incredibile vittoria nel Mundial spagnolo che aveva spazzato via gli anni neri della prima Repubblica e inaugurato i nostri anni Ottanta. Ora che torna in libreria Vite vere compresa la mia (Quodlibet, 17 euro), con la copertina originale di Altan, una simpatetica introduzione di Stefano Bartezzaghi e la scrupolosa curatela di Gino Cervi, ci si può chiedere le ragioni per cui resiste il mito di un giornalista sportivo diverso dagli altri, ma che ormai ricorda solo chi ha passato i 40 e anche da un po’. Il libro raccoglie e integra la rubrica che Viola teneva su «Linus», rivista allora diretta da Oreste Del Buono (poi da Fulvia Serra) che l’aveva resa più politicizzata rispetto alla direzione del fondatore Giovanni Gandini. Viola, con i suoi pezzi surreali e divaganti, è in realtà più vicino a Gandini che a OdB e la politica entra soprattutto come costume. Ad esempio quando gli fanno l’esame per entrare in RAI, alla domanda se Fanfani appartenesse alla destra o alla sinistra DC, risponde pronto: “Dipende dai giorni”. La RAI è croce e delizia della sua vita. Nella sede di Milano percorre una lunga carriera senza promozioni e in una Lettera al direttore, dopo aver sciorinato il suo curriculum, conclude: “Ho quarant’anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo”. Viola passa più di vent’anni nella sede RAI di corso Sempione a Milano senza promozioni, anche se diventa conduttore della ‘Domenica Sportiva’, spezia i suoi servizi con trovate memorabili (un’intervista in tram a Rivera). Insomma non è mai banale in un ambiente dove il conformismo regna sovrano. Allora si sfoga collaborando ai testi delle canzoni di Enzo Jannacci, il vero capoclan di un gruppo che si ritrovava al bar Gattullo, e comprendeva Cochi e Renato, Massimo Boldi, Teo Teocoli, i più giovani Diego Abatantuono e Giorgio Faletti. Gli stessi che la sera si esibivano al Derby, il cabaret di viale Monterosa che fu il trampolino di lancio di molte carriere televisive, a partire da Quelli della domenica, uno show della domenica pomeriggio di fine anni Sessanta che fece scoprire anche (e soprattutto) Paolo Villaggio.

 

Perché ritornare a un autore che scrive frasi come: “Felicino Riva da troppo tempo lontano da Vergottini” per la quale l’alternativa è: o ridere subito oppure approntare una nota al testo di 15 righe ? Sono due i motivi di interesse del libro che suscita la risata solitaria (ed è cosa rara) nei pezzi autobiografici ed è un po’ più faticoso nei raccontini scritti “a la maniera di”. La prima è che il libro raccoglie un’involontaria mitologia delle aspirazioni del ceto medio di quegli anni. Intanto, lo stesso ceto medio, identificato in quegli anni dalle ricerche di Paolo Sylos Labini, e di cui Fantozzi è l’eroe eponimo. Il popolo di Fantozzi aspira alla vacanza al mare o in montagna, sogna la Costa Smeralda, cerca di imparare le lingue e di passare dall’utilitaria alla media cilindrata (“Mi hanno rubato l’automobile, modestamente”, chiosa Viola), si attrezza per giocare a tennis sulle orme di Borg e Panatta e segue in tv (il tinello diventa il centro della casa) le gesta di Rivera, Pannella, i campioni di una società dello spettacolo allora agli esordi, sogna di imitare lo stile di Gianni Agnelli (mentre già si affaccia Luca di Montezemolo) e partecipa alle feste dell’Unità dove ascolta gli Inti-Illimani. Viola è irridente e dissacrante, seppur sempre affettuoso, anche verso i radical chic che si aggiornano leggendo «L’Espresso» e propone le ‘vacanze deficienti’ invece che ‘intelligenti’ (ma qui bisogna per forza rimandare alla visita di Alberto Sordi alla Biennale di Venezia del 1978 in Dove vai in vacanza?). Un secondo motivo di interesse è la fotografia di quella Milano (Cervi la illustra puntualmente) che viene fuori da queste pagine e dove la nostalgia è già nelle parole di chi scrive. La modernizzazione è stata raggiunta, le periferie finite di costruire, ma c’è ancora spazio per un irregolare come Viola tra latterie e sale corse, retrobottega di bar che ospitano infinite partite a carte e cinema di seconda e terza visione, ma anche American bar e supermercati nei quali la città diventa una piccola New York e l’autore può concedersi un romanticismo “alla Humphrey Bogart” e provare a creare un gergo – ne dà conto un piccolo dizionario dove si capisce che la fresca è il contante, la rebonza è il malloppo e così via – sull’esempio di Damon Runyon o di un Bianciardi meno agro. Dopo la morte di Viola tutto cambia: l’erede del Derby è Drive In, il calcio diventa uno sport per signorine e l’epica quotidiana e del quotidiano va cercata altrove, ammesso che da qualche parte ancora esista.

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