Cosa succede in Croazia / Zagabria: la cultura fa opposizione

10 Giugno 2016

A pochi passi dal centro di Zagabria, nel bosco di Tuškanac, che ricorda la foresta berlinese in cui si perdeva Walter Benjamin bambino, affiora la casa museo di Bela e Miroslav Krleža (1893-1981). In questa zona residenziale di ville, sommersa dal verde, i rumor della politica non arrivano. Il maggiore scrittore croato del Novecento appare ancora controverso in una tradizione che non riesce a placare il vampiro della storia e sente il bisogno inesorabile di continuare a dividere per poter peggio governare. 

Sono appena uscite le Marginalia di uomini e di città (a cura di Vlaho Bogišić che studia la sua opera da decenni), note saggistiche legate al lavoro lessicografico e al materiale raccolto per le enciclopedie di cui è stato ideatore, oppure testi impressionistici capaci − che si tratti di Danubio, Leopardi, Lord Byron, di personalità intellettuali e politiche croate − di sintetizzare temi letterari e questioni storiografiche. Di rappresentare la memoria culturale di una regione che Krleža chiamerà il mio Brabante: uno spazio immaginario che ritrova nei dipinti di Bruegel e di Bosch dove “sempre qualcuno piscia, sempre qualcuno vomita, e qualcuno pende dalla forca” e dove si impara a conoscere “le belve sanguinarie che si chiamano uomini”. 

 

 

 

La storia di Villa Rein è tutt’uno con l’imprevedibile plot dei rovesciamenti storici. Costruita negli anni trenta per volontà di un barone, progettata in stile Secessione dall’architetto ebreo Rudolf Lubynski, allo scoppio della seconda guerra mondiale viene precipitosamente abbandonata dagli inquilini ebrei tedeschi, ma, colpo di scena, l’ufficiale che ha occupato l’appartamento si scopre loro parente… Krleža vi arriva con la moglie Bela, attrice acclamata, nel 1952, oramai è un personaggio pubblico, anche grazie a un rapporto personale con Tito. Dopo anni di “formule nazionalistiche che portano alla distruzione della ragione”, allo scoppio della seconda guerra mondiale lo scrittore si era rintanato in casa. Per tutta la durata del conflitto vive nel terrore, teme di essere arrestato sia dagli ustascia che dai compagni partigiani che non capivano il suo rifiuto di andare in montagna.

 

  

Tiene un diario nel quale annota, sperimentandolo su se stesso, il modo in cui l’esterno e le notizie diffuse dalla radio penetrano nella sua quotidianità e soprattutto nei suoi sogni: “Le impressioni nel sonno e quelle da sveglio si differenziano nella sostanza. Quelle del sogno sono più decorative, e le cognizioni morali possono risultare incomparabilmente più precise di quelle che si manifestano quando riflettiamo razionalmente sulla realtà. Passavo ieri per la via, pomeriggio di festa in una piccola città, chiasso delle bettole e delle rivendite di acquavite, davanti all’ingresso delle quali giocano a provocarsi servotte e soldati, e tutto appare come una visione ripresa dalla mia prosa degenerata di quella folle prima guerra mondiale”.

 

Allo scoppio della Grande guerra Krleža fu spedito sul fronte della Galizia. Al ritorno scrive Il dio Marte croato, i cui protagonisti sono i contadini soldati mandati a morire in trincea (compagni dei fanti delle poesie di Jahier). Fino alla fine della sua lunga vita, così ricca di avvenimenti da rappresentare a tutti gli effetti un pezzo di storia del Novecento, ritornerà nelle sue pagine alle impressioni sconvolgenti della “guerra cubista”. Dal “folle delirio” della seconda lo salverà l’amico collaborazionista Đuro Vranešić che lo nasconde nel suo ospedale, nei giorni della liberazione Krleža non riesce a salvare lui dalla vendetta partigiana. Del suo senso di colpa non parlerà mai apertamente, ma la villa e i suoi beni vanno al figlio di Vranešić che dona tutto alla città. La casa museo dovrà però attendere la fine dell’era nazionalistica di Tuđman per essere aperta al pubblico nel 2001.

 

 

Le stanze, che fino alla morte dello scrittore accoglieranno personalità politiche e intellettuali − era sempre un onore essere invitati a salire in Villa −, sono testimonianza di un interno tipico di quella parte dell’Europa sospesa tra ovest ed est, emancipazione socialista e nostalgie borghesi. L’ambiente è composto da arredi che all’epoca significavano lusso: mobili Biedermeier, il pianoforte, bicchieri di cristallo praghesi, porcellane di Meissen… L’erudizione di Krleža è racchiusa nei suoi libri, 4.246 per l’esattezza − Matoš, Gide e Baudelaire sempre sul comodino; le passioni nelle pile di dischi di musica classica e nei quadri, dappertutto. Tele che gli sono state regalate da Petar Dobrović, Ivan Lacković, Mersad Berber, tele che lo ritraggono in diverse età della vita (la serie dei ritratti di Krleža sono parte del culto della personalità che lo circondava), riproduzioni, tra cui quella di Michelangelo a cui aveva dedicato un testo teatrale nel 1919, di pittori amati e studiati come Holbein. L’appartamento conserva le fotografie della sua storia d’amore con Bela, lunga come il secolo breve – e l’epistolario pubblicato di recente dice quanto le complicità private siano state rinsaldate dai decenni di marasma pubblico.

 

Per i visitatori di oggi, studiosi curiosi scolaresche, la visita termina con gli esemplari delle traduzioni stampate in mezzo mondo, e un cartone animato che parla delle imprese di Petrica Kerempuh, la figura più originale uscita dalla penna di Krleža. Per rappresentare il panopticum croaticum, per levare la sua protesta contro un’eterna condizione storica di ineguaglianza sociale, contro i dottori e i signori, i frati e i bani che succhiano da sempre il sangue contadino e portano i poveracci alla morte e alla guerra, Krleža si inventa una lingua composta da termini latini, tedeschi, magiari, italiani e turchi. Il personaggio che racconta tutto questo è Petrica, giullare vagabondo, Till Eulenspiegel croato (Le ballate di Petrica Kerempuh a cura di Silvio Ferrari, Einaudi, 2007). Sulla struttura di questa opera lo scrittore lavorò negli anni trenta: ritroviamo il motivo del sangue che compare e ricompare nelle letterature degli slavi del sud.

“Il sangue, questo sangue salato,/dei servi della gleba del villaggio di Stubica,/questo sangue nero, rosso,/puzzolente, denso,/perché cola questo sordo, grasso, cieco,/tremendamente tiepido sangue?”. È un sangue che mugghia e ringhia, maledice e vomita, “sghignazza come un pazzo furioso”. È un sangue che racchiude anche il fango e la nebbia che avvolgono le vie crucis e le marce funebri della pianura pannonica, dalla guerra dei contadini agli inizi del Novecento a quella inter-jugoslava combattuta da ragazzi in scarpe da ginnastica di fine Novecento. 

 

 

La vetrina delle opere esibisce anche un suo cappello, una parte del vestiario diventata inscindibile dalla persona, oggetto prezioso della sua eredità. In Fino all’ultimo respiro (trad. di D. Badnjević, Zandonai, 2010), racconto di una vita avventurosa, dove ricorda anche quanto Tito tenesse alle messe in scena teatrali delle opere dello scrittore, l’attore Rade Šerbedžija dichiara: il cappello di Krleža copre ora la mia testa. 

Dall’altra parte della città, a Novi Zagreb, insediamento cresciuto intorno al fiume Sava, nel Museo di arte contemporanea − dove la coalizione di sinistra sconfitta per pochi voti nel novembre 2015 aveva festeggiato la vittoria del 2011 – un’altra mostra permette di inseguire il filo della memoria culturale.

 

L’enorme spazio è occupato da Colazione in tipografia, 150 manifesti giganteschi (due metri per due) di Boris Bućan, pittore e artista visivo che con tecniche diverse rappresenta quello che oggi si direbbe un evento. Nati per pubblicizzare spettacoli teatrali, mostre, festival, accompagnare le stagioni dell’orchestra sinfonica e della radio erano parte dell’arredo urbano − un filmato mostra i passanti che si fermavano e polemizzavano. Allora erano in strada, ora sono finiti in un museo, quadri di un viaggio nel tempo della Jugoslavia socialista e modernista dagli sessanta agli anni novanta del secolo scorso (l’ultimo manifesto di Bućan è quello di un’orchestra… in guerra). Erano tempi in cui i “lavoratori della cultura” sentivano il dovere di partecipare da protagonisti, tanto che nelle piroette della politica la cultura si trovava spesso all’opposizione.

 

 

 

Eppure, qualcosa di simile accade anche oggi. È partita dagli attori la raccolta firme contro il ministro della cultura del nuovo governo di destra, Zlatko Hasanbegović, storico quarantenne che non nasconde il suo orientamento ustascia. E, mentre la libertà dei media è di nuovo sotto attacco, proprio a teatro va in scena tutto quello di cui il discorso pubblico non vuole parlare. 

Così, gran clamore per la prima zagabrese di La caduta di Miran Kurspahić che affronta il tema tabù dell’assedio di Vukovar (agosto-novembre 1991). In un allestimento dove gli spettatori sono divisi in settori e dunque osservano da diversi punti di vista il ping pong di telefonate e dispacci tra i politici della metropoli e le disperate invocazioni di aiuto dei comandi locali (che saranno poi accusati di non aver saputo difendere la città). Ma già dal titolo è evidente l’allusione al crollo epocale di valori e speranze. 

Altra prima che appassiona il pubblico e fa discutere: Tre inverni di Tena Štivičić, storia di quattro generazioni di donne legate a una stessa casa – e l’ultima guerra è stata definita anche “una guerra per la casa”.

 

Dal regno jugoslavo al 1945, dal 1990 fino al 2011, vecchie polemiche e divisioni, eredità ideologiche e mentali di un sistema politico si riflettono nelle vicende di una stessa famiglia. E grazie all’intelligenza del cuore femminile qualche capitolo riesce a chiudersi, qualche ferita a risanarsi.

Il ministro della cultura questi spettacoli non li ha visti, ha invece tagliato i fondi al teatro che a Rijeka dirige con gran successo Oliver Frljić. La sua Trilogia croata chiama gli spettatori a riflettere sui crimini, a elaborare lutti personali e collettivi. Lo spettacolo politicamente più significativo è Aleksandra Zec, storia di una dodicenne trucidata insieme alla madre, il padre era già stato ucciso davanti all’uscio, i colpevoli rilasciati e premiati. La colpa della famiglia Zec era solo quella di essere serbi in una Zagabria nazionalisticamente eccitata del dicembre 1991. La critica, unanime, commenta: il teatro è di nuovo quello di Una notte ubriaca del 1918 di Krleža. 

 

Intanto, tra queste date della Grande storia, si aggira l’individuo alla ricerca di un tempo dove collocare l’io singolare.

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