Michela Marzano risponde ad Anna Stefi

3 Ottobre 2011

Anna Stefi ha ragione. Se ho scritto questo libro, non è stato certo per fare i conti con la mia vita. Quelli, li ho fatti già da tempo. Anche se poi, come spesso in questo genere di cose, i conti con la vita non tornano mai completamente… Forse è proprio questo che volevo raccontare quando ho cominciato a scrivere Volevo essere una farfalla. Perché la vita è fatta sempre e solo di parole balbettate e di discorsi lasciati a metà. Perché quando si cerca di far rientrare tutto all’interno di un sistema perfettamente coerente e logicamente impeccabile, ci si incastra e si vacilla. Allora sì, il “perché” di questo libro è la necessità di riconoscere, accettare e, perché no?, rivendicare la fragilità e la vulnerabilità dell’esistenza umana. Quel dolore di vivere che conosciamo tutti, anche se non tutti, per fortuna, passano per il calvario dell’anoressia. Anche perché, in fondo, l’anoressia è solo un sintomo. Un sintomo drammatico da cui tante persone non riescono ad uscire. Ma pur sempre un sintomo tra gli altri, più o meno visibile. Che strazia il corpo quando non si riesce a trovare un altro modo per “dire” quello che non va, quello che manca, quello che ci perseguita. Che lascia a bocca aperta perché “incomprensibile”, quando lo incrocia per strada nello sguardo perso di chi ne soffre. Che fa morire… E che rinvia sempre a questa terribile incapacità di accettare le debolezze…

 

La farfalla che volevo essere, oggi vola. Forse proprio perché quelle famose debolezze ho imparato ad accettarle. E da quando non mi vergogno più di dire “non ce la faccio” o “non lo so”, tutto è diventato più facile e più leggero.

Come rispondere allora alle obiezioni che Anna Stefi mi fa nel suo bellissimo articolo? Non so se ne sono veramente capace. Non so se questa mia nuova libertà dipenda o meno dal “luogo” da cui oggi provengono le mie parole. Forse. Anche. In parte. Ma forse no… Perché per anni i libri che ho scritto sono stati solo una riga in più che aggiungevo al mio CV. Un “va bene, questo è fatto. Ed ora?”. Non perché il mio lavoro non fosse importante. Era importantissimo. Ma non ero capace di contemplarne i frutti, come direbbe Hannah Arendt. Niente poteva colmare il vuoto che avevo dentro. Perché non ero capace di accettare il fatto che quel vuoto, proprio perché vuoto, non può mai essere colmato. Nemmeno da un uomo che ti ama. Soprattutto se aspetti che sia lui a darti il permesso di vivere.

 

È solo quando ho smesso di pensare ossessivamente che dovevo essere all’altezza del mio proprio ideale, che ho fatto pace con me stessa. Allora che il mio libro sia “potente” o no, in fondo, conta poco. Volevo solo testimoniare che, della propria sofferenza, si può fare qualcosa… anche se la sofferenza è sempre senza senso… anche se vorrei non averla mai attraversata… Ma questa è un’altra storia…

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