Torna il teatro di Brecht

6 Febbraio 2012

Un boom che pare garantire benessere a tempo indeterminato, seguito da livelli d’inflazione a dir poco storici; l’investimento in azioni che sembrano destinate a crescere a dismisura e la speculazione malcelata delle lobby bancarie; i piccoli risparmiatori prima preoccupati poi in lacrime che si radunano rumorosi davanti a Wall Street, tempio dichiarato del progresso occidentale. Sembrano resoconti dell’altro ieri, mentre sono storie di quasi cent’anni fa, di quel venerdì nero che gettò gli Stati Uniti e il mondo nella Grande Depressione. Sia ben chiaro, il paragone è di comodo: parliamo del 1929 per incontrare il lavoro di Brecht, un artista e intellettuale la cui esistenza ha singolarmente coinciso con le trasformazioni cruciali del ‘900 e pare essere ancora destinata ad accompagnarne gli esiti. L’occasione è d’eccezione: dopo un lungo oblio, l’opera brechtiana sembra essere tornata all’ordine del giorno teatrale proprio in questi ultimi anni, guarda caso anche grazie a testi scritti proprio a ridosso della crisi, da La resistibile ascesa di Arturo Ui di Claudio Longhi a Orazi e Curiazi dell’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri fino all’imminente Santa Giovanna dei macelli di Ronconi, che nella sua lunga carriera ancora non aveva incontrato Brecht.

 

 

1929, sono gli anni della Germania di Weimar, unico tempo di pace di cui Brecht ebbe l’occasione di godere. Di lì a poco dovrà fuggire: radicato con forza nella cultura e nella società tedesca, fu per un terzo della sua vita un uomo di confine, costretto per quindici anni ad arretrare di fronte all’avanzata del nazismo. È in questi anni che, conoscendo il boom capitalista, si avvicinò alla teoria marxiana tanto da diventare l’artista comunista per eccellenza; ma praticò un marxismo così poco ortodosso da conquistarsi le critiche di materialisti come Adorno e Lukacs e da scegliere come rifugio le spiagge di Santa Monica piuttosto che la Russia, dove i suoi amici cominciavano a cadere (letteralmente) sotto i colpi della censura. Mai iscritto al partito, fu sorvegliato speciale della Ddr e interrogato dalla Commissione McCarthy. Di ambiguità in ambiguità, si potrebbe andare avanti, in una dispersione estetica e politica senza pari. Ma ad un certo punto, l’opera di Brecht appare nella propria unitarietà; il passaggio è nel suo rapporto con l’epoca in cui viene rappresentata – nel nostro caso con l’Arturo Ui di Longhi e Orazi e Curiazi degli Artefatti.

 

Molto si potrebbe dire di quanto questi allestimenti condividano, nonostante le enormi diversità che distinguono le compagnie e il loro lavoro: opere che parlano di modernità e di regimi autoritari, di guerre piccole e grandi, di concorrenza, sopraffazione e connivenza, si esprimono con una vertiginosa molteplicità di linguaggi (musica live, danza, videoproiezioni...), accarezzano vertici di dissacrante comicità e dimostrano un incondizionato gusto per la più vivace spettacolarità, con l’Arturo Ui che strizza l’occhio al kabarett e alla rivista e il lavoro degli Artefatti che si appropria di tutta l’estetica dei mass-media contemporanei, dai talk show a YouTube. Ma, fra prossimità più o meno forzate e differenze evidenti, un tratto particolare che segna entrambi gli allestimenti si trova nel rapporto fra il testo rappresentato e la contemporaneità. L’Arturo Ui tratta dell’avvento (appunto contrastabile) del nazismo, traslato nei trust della Chicago del ‘29; il secondo è un dramma didattico sulla celebre guerra per il dominio di Roma. I criminali americani zittiscono i testimoni dei processi e i guerrieri classici comprano l’arbitro con piogge di quattrini; il paragone fra le vicende dell’Ui e la politica attuale è inevitabile, così come il gioco delle parti fra Orazi e Curiazi non può non far pensare al caos fra i partiti che conosciamo bene. Avvicinare situazioni simili alla politica contemporanea sarebbe stato facilissimo, ma entrambi gli spettacoli vanno nella direzione opposta, scegliendo di non attualizzare in nulla il testo rappresentato; così entrambi esplodono in un rigore filologico da far venire la pelle d’oca, che provoca spontaneamente cortocircuiti con il presente.

 

 

Non che questo ritorno a Brecht coinvolga solo l’Italia, ma il nostro paese può essere in questo caso un osservatorio privilegiato. Da noi, negli anni ‘60 – momento in cui l’estremo confine italiano possedeva il più grande partito comunista del blocco occidentale – è stato immediatamente canonizzato in senso anche ideologico dagli allestimenti del Piccolo di Milano di Strehler-Grassi in giù; poi, col crollo del muro di Berlino cadde in disuso: era il momento dell’affermazione della cultura postmoderna, che pretese di sancire la fine della storia e l’abbattimento delle classi sociali in un’unica grande borghesia dei consumi, destinata ad accrescere senza limiti il suo benessere. E ora, che non siamo più tanto convinti di andare in quella direzione, Brecht torna protagonista dei palcoscenici nostrani – staremo a vedere se, ancora una volta, è indizio di ben altro.

 

Tanti – per ultimo Fredric Jameson, in Brecht e il metodo – si sono chiesti se non ci sia qualcosa di “profondamente non-brechtiano” in tutti i tentativi di riportarne in scena l’opera, di farla parlare a noi oggi. Abbiamo visto, seppur velocemente, come alcuni artisti ci stiano provando: il tratto distintivo consiste nel non infarcire i lavori di ganci e ammiccamenti all’attualità... Come diceva Brecht, le cose si vedono meglio da lontano: sono più evidenti, storicizzabili. E quindi trasformabili. Qualcuno potrebbe dire (e l’ha fatto) che così non si parla dell’oggi, che si tratta di allestimenti parziali, opere d’arte che non si schierano o che raccontano solo una parte di quella contemporaneità che sembrano allo stesso tempo evocare e rifuggire. Simili critiche sono state mosse anche a Brecht stesso: il punto è che “gli basta afferrare la realtà per un lembo della veste” (Furio Jesi) – e oggi, che (non solo) la tv l’ha uccisa, potrebbe essere già qualcosa.

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