Le stagioni dell'Expo

8 Aprile 2011

Nei giorni scorsi la Consulta architettonica per l’Expo di Milano 2015, composta da Stefano Boeri, Ricky Burdett, Jacques Herzog, William McDonough e Joan Busquets, ha presentato alla stampa il Conceptual Master Plan. Al di là dei toni quasi obbligatoriamente trionfalistici (“un’Expo visionaria”, “un’Expo memorabile”, “una concezione rivoluzionaria delle esposizioni universali”), la versione più aggiornata del Master Plan sembra fare i conti con un’idea meno vuota e pretestuosa di manifestazione espositiva, accogliendo le sollecitazioni giunte da più parti per una maggiore integrazione con il territorio milanese e per un più virtuoso contenimento dei costi.

 

Ciò che il nuovo Master Plan propone è “un grande Parco agroalimentare strutturato su una griglia di tracciati ortogonali, circondato da canali d’acqua e punteggiato da grandi architetture paesaggistiche”. Le “campiture di terreno” (rigorosamente uguali per tutte le nazioni) in cui il Parco sarà suddiviso “ospiteranno le coltivazioni esemplari della propria sovranità alimentare e quelle che ogni Paese sviluppa per affrontare le problematiche dell’alimentazione: campi agricoli sperimentali, orti, giardini, serre, padiglioni di trasformazione del cibo, dove i visitatori potranno assistere dal vivo (fino a nutrirsene) all’intero ciclo vitale dei prodotti alimentari”.

 

In realtà non si tratta di un’idea esattamente “rivoluzionaria”, dal momento che è una palese riedizione del progetto di Rem Koolhaas per il Parc de la Villette (1982) a Parigi: le cui molteplici “fasce” (bands, strips) di differenti paesaggi “naturali” sono sostituite – nel caso del Master Plan per l’Expo – da “lotti” rettangolari (blocks newyorkesi, o insulae romane, volendo proseguire la metafora formulata dagli stessi autori) che dovrebbero variamente ospitare “la foresta tropicale, la tundra, il paesaggio mediterraneo, i climi estremi dei Poli, il deserto…”.

 

Realizzabile o meno che sia in questi termini, il “grande Parco Botanico Planetario” ha l’indubbio vantaggio di coniugare esigenze di risparmio e problemi di ritardi, e costituisce “un’esperienza diretta e immediata del grande tema dell’alimentazione”. A questo si aggiungeranno un anfiteatro all’aperto, i Padiglioni Tematici, un auditorium e altri edifici di servizio, per i quali, a partire dall’anno prossimo – secondo quanto annunciato –, verrà bandita “una serie di grandi concorsi di progettazione”.

 

A loro riguardo – e proprio in relazione al tema-guida dell’esposizione (“Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”) – c’è da auspicare che una manifestazione che si propone come ambientalmente sostenibile, ecocompatibile, riciclabile, biodegradabile ecc., segni anche l’inizio della stagione dell’architettura commestibile, togliendo così dall’imbarazzo su come riutilizzarne le strutture dopo il 2015.

 

(M. Biraghi, Milano 2015: un’Expo da gustare, settembre 2009).

 

Era la tarda estate del 2009. La “gioiosa macchina” dell’Expo stava incominciando a produrre i suoi primi frutti, a un anno e mezzo di distanza dall’assegnazione della manifestazione a Milano – un anno e mezzo per il resto alquanto sterile sotto il profilo dei suoi avanzamenti.

 

Il tempo passa, le stagioni cambiano. Di avanzamenti nel frattempo non ce ne sono stati molti. In compenso il “giardino planetario” previsto dal piano sembra miseramente appassito: il “green concept”, emblema di una “green economy”, radicale nella sua rinuncia all’architettura (soltanto di poco ricorretta nel Master Plan definitivo del 2010), cede ora il passo all’economia reale, adattandosi alle esigenze dei singoli paesi partecipanti, e dunque – con ogni probabilità – a più prosaici e realistici padiglioni nazionali, con o senza orti.

 

Che dire? che lo si poteva immaginare? Di certo a Milano la prima cosa che “salta”, nella assai praticata urbanistica “delle buone intenzioni”, sono gli spazi verdi, i parchi e i giardini, sempre previsti con grande dispiego di rendering e di promesse di futuri radiosi, e poi immancabilmente soppressi in nome di limitazioni economiche che hanno spesso l’ardire di essere fatti passare per “buon senso”.

 

Dunque, nulla di nuovo sotto il cielo di Milano. Rimane da registrare positivamente soltanto il tentativo di spezzare il fronte della solita gestione affaristico-speculativa delle res milanensis portato avanti dal Conceptual Master Plan del 2009 e dal Master Plan del 2010. Una buona idea, pur con qualche difetto, su cui forse vale la pena soffermarsi, e dalla quale cercare di ripartire.

 

Il primo era e rimane quello di pensare e di offrire l’agricoltura e gli “orti” – in buona sostanza la natura – come qualcosa di straordinario, un dono salvifico che tutti attendono come una terra promessa o un Paradiso perduto. Milano sarà pure “il secondo Comune agricolo d’Italia”, e la Lombardia “la prima regione agricola italiana e tra le prime in Europa”, come si affanna a sottolineare in ogni occasione Letizia Moratti, ma nella realtà Milano è una città eccezionalmente avara di verde (usufruibile), di acqua (attingibile), di aria (respirabile). Se pertanto l’idea del “giardino planetario” può (o poteva) risultare seducente per i milanesi, in costante deficit di natura, per i visitatori di altre nazioni, dall’Olanda alla Francia, dagli Stati Uniti all’Australia, per non dire dei Paesi orientali o dell’Europa dell’Est (ma in realtà anche di molta parte del territorio italiano), la prospettiva di aggirarsi tra orti e serre non è poi così allettante.

 

Inoltre, la popolazione del pianeta sarà pure urbanizzata ormai per una buona metà, ma forse questo risponde anche a un’esigenza diffusamente sentita dalle persone, oltreché essere una condizione imposta dalle “regole” di sfruttamento fondiario e di abuso del suolo caratteristiche del sistema capitalistico. Non per nulla proprio Rem Koolhaas ha colto nella “congestione” newyorkese uno dei requisiti di una vita metropolitana intensificata, e dunque altamente desiderabile per i suoi abitanti. Di norma l’uomo contemporaneo va dove c’è qualcosa – e questo “qualcosa” in moltissimi casi equivale ad attività produttive più o meno artificiali e costruite.

 

Ciò non significa che anche spazi liberi, verdi, naturali o coltivati, non rappresentino potenziali magneti attrattivi. Anzi. Basterebbe a dimostrarlo la letterale “esplosione” del fenomeno del turismo alternativo rispetto alle mete consuete che si è registrato negli ultimi decenni: un turismo desideroso non soltanto di luoghi deserti, di natura incontaminata, ma anche di ritorni a una vita “rustica” e genuina, che trova il suo adempimento in campeggi e agriturismi.

 

Per soddisfare questa domanda, tuttavia, ci vorrebbe qualcosa di più e di meglio di Rho-Pero. Ovvero uno dei luoghi tra i più pesantemente colpiti dall’urbanizzazione e dal degrado ambientale, visivo, acustico e dall’inquinamento. Un sito incuneato tra l’A4 Milano-Torino e l’A8 Milano-Varese. Non è lì, forse, che desidererebbero trascorrere le loro vacanze i “turisti” dell’Expo.

 

Certo, rimane (o rimarrebbe) pur sempre il fascino del contrasto tra una delle aree maggiormente antropizzate del globo e il sorprendente panorama di orti che si offrirebbe ai visitatori. Una ciambella fiorita e fruttata galleggiante nel “mare” inquinato della Brianza post-industriale. Le operazioni di “recupero”, di “salvataggio”, possiedono spesso un alto grado di spettacolarità – ed è proprio su questo che sembravano puntare i Master Plan elaborati dalla Consulta architettonica.

 

Cosa rimarrà di tutto ciò? Conoscendo l’“alta sensibilità” dell’attuale classe politica e imprenditoriale milanese, si può facilmente pronosticare: ben poco. Ma il tempo passa, e le stagioni cambiano. E forse – auspicabilmente – passeranno e cambieranno anche questi. Del resto, se il sogno bucolico di un grande e affascinante “giardino planetario” lasciava almeno potenzialmente “in sospeso” i destini dell’area al termine dell’Expo, ora risulta chiaro che la partita va giocata per intero sulla capacità di produrre fin da subito una soluzione attrattiva e ad alto tasso di qualità architettonica e ambientale per l’Expo, e al tempo stesso reimpiegabile e davvero utile alla città per il dopo-Expo.

 

È con questa sfida difficile, e per molti versi “impossibile”, che chi ne possieda la forza, il coraggio, la bravura, deve ora misurarsi. Cercando di salvare l’idea di una natura fiorente nel luogo forse meno probabile: non per l’ingenuo incanto di assistere al ciclo vitale dei prodotti alimentari come si trattasse di uno spettacolo, ma per assistere al vero e proprio spettacolo – questo sì interessante per tutti – di un territorio (e di una società) che riesce a liberarsi dei propri retaggi, o dei propri fantasmi. Perché anche questa occasione non si trasformi in quell’eterno “coltivare illusioni” che è poi l’unico genere di “coltivazione” che sia consentito da troppi anni a questa parte a chi vive a Milano.

 

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