Barbari appetiti

2 Giugno 2011

Bruce Chatwin è stato ossessionato da un’idea che, ripetutamente, si è affacciata nella sua vita e nel suo lavoro: per sua stessa ammissione, quella di scrivere la storia della civiltà nomade.

Vale a dire raccontare l’altra umanità, quella dimentica e perdente davanti alla rivoluzione neolitica prima e all’industrializzazione dopo; l’umanità che siamo stati e che ancora siamo, qualora non si consideri solo la storia ma l’eredità pesantemente iscritta nei nostri geni.

 

Chatwin non ha mai scritto quel libro ma ha lasciato pagine acute sui riflessi che la natura nomade ha lasciato su di noi e sui segni di sofferenza - fisica e mentale - che subiamo quando quella natura, nell’individuo e nella società, è pervicacemente negata.

L’etimo di nomade ha la sua origine nel verbo pascolare: l’equivalente di pastore, chi cioè vivendo dell’allevamento o dello sfruttamento degli animali li segue alla ricerca dell’erba migliore. Alle nostre latitudini, un oscillare periodico tra il fuggire i rigori invernali e lo scoppio primaverile: vita perennemente in movimento, un incedere leggero sul territorio, comunque e sempre antagonista a chi vive di coltivazioni. Ad altre latitudini e in altri tempi il nomade era il barbaro che oltre i confini delle terre coltivate, aveva rifiutato le mura e le città, rapace sui campi e sulle cose, perennemente mobile su steppe e praterie, estraneo al pane e all’ulivo, vestito di pelli, divoratore di carni.

Divoratore di carni e di latte, formaggi, burro, e poi qualunque cosa avesse a che fare con la caccia e la pesca; quasi bandita la presenza di alimenti gentili, fossero questi pane di frumento, frutta o ortaggi.

 

Vista con i nostri occhi, quella dieta sarebbe barbara non tanto perché estranea ma perché negherebbe ogni saggezza e ogni cultura alimentare; un’alimentazione di carni e grassi è qualcosa che uccide. Dati innumerevoli lo testimoniano; una dieta da suicidio, poco importa se per ipertensione, diabete, ictus o infarto, cancro al seno o all’intestino.

Tutto questo negherebbe ogni sapienza a quell’umanità barbara e dimenticata che siamo stati se non fosse…se non fosse che quella dieta era per vivere una vita – la sola possibile - di soli cinquant’anni; quella la vita media e quella attesa, consumata intensamente nella libertà delle migrazioni, nel fuoco e nel freddo degli elementi, spesa in simbiosi con gli animali, unico bene su cui la civiltà nomade ha investito, capitale fatto letteralmente di “sangue” che cammina.

Cinquant’anni vissuti intensamente per i quali un’alimentazione così ricca era la sola possibile, la migliore possibile…

Ma quella dieta è anche un paradosso della storia quando la scopriamo nei nostri giorni: giorni che ci vedono sulle strade del mondo davanti a uno schermo da 32 pollici e inchiodati ad un divano.

Vite leggere quelle della civiltà che avrebbero bisogno di cibi altrettanto leggeri… se non fosse che quelle stesse nostre vite brillano ancora di barbari appetiti; quelli e non altro, in una vita diventata lunghissima, ci uccidono.

 

Dimentichiamo ogni ristretta spiegazione da dietologo, tralasciamo i microscopici ragionamenti sul colesterolo, sull’obesità e i rimedi corrispondenti; la malattia nasce dalle contraddizione dei nostri geni con la storia: geneticamente simili a quei barbari, ne siamo ancora simili nei gusti, divisi da una storia che ha scelto la sedentarietà e l’agricoltura.

Così, solo saltuariamente e solo con brama nostalgica dovremmo avvicinarci all’arrosto di agnello.

Piatto della primavera, quando i paesi tornavano a riempirsi di gente e di vita dopo il ritorno. Piatto delle pendici appenniniche dell’Emilia e della Garfagnana dove la transumanza era tradizione normale ancora pochi decenni fa: su e giù per le montagne e per la Maremma, due volte all’anno, per ogni anno, fino a quei cinquanta che avesse mandato il Signore.

    

 

Arrosto di agnello/ Appennino Tosco emiliano

(Vite leggere II)

 

1 kg di agnello

lardo

aglio

aceto

sale

 

Lavare la carne di agnello e tagliarla a pezzi non troppo grossi; lasciare riposare in acqua e aceto per circa un’ora; lavare e far asciugare le carni.

In una casseruola, passare il lardo e l’aglio schiacciato; unire l’agnello e far rosolare a fuoco pieno. Dopo circa cinque minuti, cuocere a fuoco moderato per circa trenta minuti, quindi salare.

Servire con patate, preferibilmente arrosto.    

 

 

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