St. Lucia, Trinidad e Martinica / Dispacci dai Caraibi

4 Agosto 2017

Sulla strada per Gros Islet, a Saint Lucia, un abitante dell'isola indica allo scrittore in viaggio le alture boscose dell'entroterra. «Da queste parti ci sono le comunità che hanno conservato maggiormente le tradizioni dell'Africa, è stato fatto uno studio sui ritmi dei tamburi, sono più simili a quelli africani; è lì che si sono formate le prime comunità dei maroons». Lo scrittore chiosa: maroon «indica anche gli schiavi fuggiti dalle piantagioni, specialmente sulle alture, o i loro discendenti». Accadeva – era il tempo del lavoro in catene – che schiavi deportati dall'Africa riuscissero a svignarsela nelle foreste caraibiche e fondare irregolari comunità nascoste di fuggiaschi. 

 

Lo scrittore dei Dispacci dai Caraibi sostiene che il termine «arriva dallo spagnolo americano, cimarrón (che è il carnero o borrego cimarrón, la pecora delle Montagne Rocciose), dove cima sta per sommità, come in italiano». Secondo altre fonti, la parola spagnola è un calco di simaran, che in taino – lingua caraibica ormai estinta – significa “selvaggio”. Édouard Glissant, l'autore di un Glossario caraibico citato a margine dei Dispacci, registra alla voce “maroon”: «in Guiana, i Boni e i Saramaccani sono ancora oggi delle comunità specifiche». Altri cronisti sostengono che il saramaccano è una lingua creola che mescola portoghese, inglese e parlate dell'Africa centrale. Si racconta che le comunità dei maroons siano state spesso protagoniste di guerriglie, resistenze e rivoluzioni contro il dominio bianco e coloniale.

Annota il viaggiatore dei Dispacci: «Non so se li avete mai visti, in qualche disegno dell'epoca o in un film, quei collari di ferro con tre o quattro spuntoni che all'estremità s'incurvano in un doppio uncino? Magari sì, però non sempre ci si chiede perché una cosa è fatta in un certo modo. Eppure tutte le cose hanno la forma che hanno perché qualcuno ci ha pensato, qualcuno ha avuto l'idea. Dietro c'è sempre un motivo, pratico o estetico. Quegli spuntoni, per esempio, s'incurvano a quel modo per impigliarsi nei rami. Persino l'angolazione con cui uscivano dal collare era ben studiata, per impedire a chi li portava di appoggiare la testa a terra quando si sdraiava a dormire. Poi a complicare le cose c'era anche il peso. Una soluzione brillante, semplice e multifunzionale a un problema non da poco: gli schiavi scappavano nella foresta».

 

L'anelito alla libertà, la fuga, la nascita di comunità sperdute e il sabotaggio dell'economia coloniale risuonano ancor più fascinose a chi immagina con ribrezzo il collare di ferro. Al lettore bianco, seduto su una poltrona dall'altra parte del grande mare, questi dispacci giungono pregni di un fascino della lontananza. Sfogliamo le pagine sognando la stanza della guesthouse di Soufrière: «La mia è un grande quadrato con il soffitto alto, nella prima metà ci sono un letto di legno con la zanzariera, un tavolino e una cassettiera con sopra uno specchio e il gabinetto. Niente porta. I muri sono pitturati di azzurro, le finestre senza vetri e schermate di gelosie di legno». Ancora, sgraniamo stupiti gli occhi della mente quando a Case en Bas incontriamo una «lavagna con il menu» che «è appoggiata ai resti del razzo ausiliario di una missione spaziale americana portato a riva dalle onde».

 

Da almeno cinque secoli siamo dei sognatori, o visionari come Sir Walter Raleigh, Antonio Berrío e Aguirre: bianchi occidentali attratti dalle irresistibili promesse della magnifica El Dorado. «Sull'Eldorado circolavano diverse storie, tutte riconducibili a un'unica matrice: un regno così ricco d'oro che una volta l'anno nella sua capitale, Manoa, il re veniva spalmato di un unguento, ricoperto di polvere d'oro e poi immerso in un lago. L'immagine aveva fatto presa e il regno era ormai conosciuto come el dorado, l'uomo dorato. I dettagli sull'estensione del regno e le ricchezze che vi si trovavano variavano da storia a storia». Tornano alla mente le pagine dedicate alla «ricchezza degli antichi abitanti di Dorado» nel Viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente di Alexander Humboldt. 

La fantasia, ormai lo sappiamo, non è pura, né innocente. Il viaggiatore dei Dispacci ci avverte dell'oscurità rapace che abita i dolci sogni caraibici: «Da una ricerca dell'oro come tante altre nel Nuovo Mondo, l'Eldorado si era trasformato in un'ossessione, un fantasma creato dalla coscienza sporca dei conquistatori, un contrappasso per i loro peccati. O, come scrive Naipaul, ora che il mondo edenico era stato violato, la fantasia lo ricreava in continuazione per rivivere l'avventura. Gli artefatti d'oro che circolavano tra le tribù dell'Orinoco non erano che i rimasugli del tesoro degli Inca sfuggiti agli spagnoli o da loro stessi trafugati». La voce del viaggiatore esplora le sponde della lontananza esotica e della ragione autocritica. E noi, da questa parte dell'oceano immersi fra le pagine dei Dispacci, noi non sappiamo quale condizione prediligere: il sogno o la veglia, l'abbandono alle brume evocative o la coscienza del fardello bianco?  

 

Erano di certo lucidi e razionali Sir Robert Cecil e Lord Charles Howard, i finanziatori dell'impresa inglese in Guiana. «La prosa e l'immaginazione di Raleigh andavano disciplinate. C'è una grossa differenza tra raccontare un'avventura e promuovere un'iniziativa imprenditoriale. Dove Railegh si perde in racconti favolosi sull'Eldorado, Cecil e Howard spostano l'accento sulle miniere. Furono loro a rendersi conto che senza un'invasione inglese della Guiana ogni sforzo sarebbe stato inutile». Mentre leggiamo i Dispacci, vaghiamo incerti fra il piacere della fantasticheria e la fredda analisi: sentimenti cangianti che discendono dalle stesse movenze di pensiero dei nostri padri colonizzatori. Forse il sogno e il calcolo sono il retto e il verso dello stesso foglio, bianco. 

 

Lo scrittore dei Dispacci ama correre lungo le coste caraibiche di Saint Lucia e un giorno s'imbatte in un resort per turisti occidentali dove l'accesso al mare è riservato. «È così tutta l'isola, le spiagge non possono essere vendute ma ci costruiscono a ridosso e le fanno sembrare private, così alla fine ci vanno solo i clienti dell'hotel. Li chiamano “beach resorts”». Derek Walcott, originario di Saint Lucia, canta desolato in Omeros: «l'antica fucina / di piombo ribollente eruttava teste di speculatori / che gorgogliavano nella lava di Malebolge / parlottando d'affari mentre sorgevano. Erano i traditori / che, eletti, avevano visto le terre come panorami / per gli hotel e promosso a camerieri / i figli degli altri, mentre i loro imparavano altro». La poesia suggerisce l'ombra della speculazione che s'insinua fra le nostre fantasie di mare caraibico cristallino. In Prelude Walcott modula una voce ancor giovane: «Us lost; / Found only / In tourist booklets, behind ardent binoculars; / Found in the blue reflection of eyes / That have known cities and think us here happy». Dunque la letteratura, per noi, non può più essere sogno a occhi aperti, ma critica dello sguardo: un metodo per corrodere le immagini riflesse nel blu del nostro occhio baluginante. In questo senso i Dispacci proseguono la critica al colonialismo nella forma di critica al turismo.

 

Tuttavia il viaggiatore non ci affida risposte certe. A Saint Lucia il turismo ha solo sfiorato la costa: «Non so se sia un bene o un male, forse tutti e due». Ancora un'oscillazione: «Un male perché il turismo è una fonte di guadagno e così le persone del posto che hanno un bar, un negozio o una guesthouse sono in gran parte tagliate fuori. […] Forse è un bene perché il turismo, quello di massa, è anche una forza distruttrice, altera irrevocabilmente tutto ciò che tocca». Chi viaggia è sempre in movimento, è così si sposta, inafferrabile, anche il suo pensiero interrogante. 

 

 

I Dispacci contengono racconti di viaggio, visioni sentimentali, note poetiche sugli scrittori caraibici, compendi di storia del colonialismo atlantico e anche consigli per turisti: «Se potete permettervelo, ci sono due posti dove alloggiare a Soufrière: Fond Doux e Ladera. Altrimenti a Fond Doux andateci a pranzo o anche solo a visitare la tenuta». Il viaggiatore diviene guida esperta: «Di qui il sentiero diventa angusto, ripido e sassoso […] sconsiglierei le infradito». E in appendice al volume troviamo una piccola rubrica: “In pratica. Arrivare, dormire, mangiare”. Seguono notazioni sulla cucina caraibica e sui migliori ristoranti, sugli alloggi più convenienti, sul modo più intelligente di muoversi. Così torniamo a sognare sensualità vacanziere contemplando la lista dei migliori rum di Saint Lucia. 

 

Interdetti, ci domandiamo quale partita stia giocando lo scrittore in viaggio. Per comprendere le sue mosse, dobbiamo tornare a Cristoforo Colombo, ammiraglio e scrittore – anche lui – di dispacci. Dopo il primo viaggio Colombo redasse la celeberrima lettera di Lisbona, stampata poi a Roma, a Venezia e in altre capitali europee. «Tutte queste isole sono amenissime e di varia forma – scriveva l'ammiraglio – piene d'una gran varietà d'alberi che s'elevano a grandi altezze e che...». La voce dello scrittore si insinua fra le parole del genovese: «la lettera di Lisbona è un pezzo di prosa magistrale non tanto per le capacità descrittive dell'Ammiraglio quanto per quello che riesce a dire senza dirlo: raccontando quello che non ha fatto, Colombo dice quello che si potrebbe fare; lodando la bellezza e le ricchezze delle isole, indica anche quelle da cui si potrebbe trarre profitto; dichiarando degli intenti, ne sottende altri, o li inserisce nel discorso quasi incidentalmente. Tutto si presta a una duplice e opposta interpretazione». Le note di Matteo Campagnoli alla lettera di Colombo sono anche la chiave per interpretare i suoi Dispacci: tutto è duplice e ogni stringa significante conserva in sé almeno due interpretazioni possibili, e opposte. In altri termini, e per riprendere le fila del discorso svolto sin qui, ci accorgiamo che ogni frase conserva sia i vaghi toni dell'immaginario desiderante sia il nitore lucido della ragione critica: il sogno e la veglia vibrano insieme. Il nostro compito, se ancora ne abbiamo uno, è muoverci lungo questa frontiera con astuzia

 

A proposito di astuzia, o arguzia, è fecondo ritornare a Humboldt e al suo viaggio lungo l'Orinoco. Franco Farinelli ha indugiato sui paesaggi che corredano le pagine dei resoconti di Humboldt. Le immagini, secondo il geografo italiano, non si limitano ad accompagnare le riflessioni, ma sono strategicamente funzionali al progetto del viaggiatore tedesco. Humboldt, infatti, intendeva trasformare il fascino per la lontananza della borghesia europea – quelle dense brume laggiù, il sapor esotico delle vedute – in progetto critico, dunque politico. Sostiene Farinelli: «Si trattava di condurre il protagonista della dimensione pubblica letteraria, il conoscitore dell'opera d'arte, verso una visione del mondo che potesse svilupparsi in comprensione scientifica del mondo stesso, e che non si arrestasse più allo stadio della semplice contemplazione. Si trattava cioè di trasformare la cultura borghese a partire dalla sua matrice estetica, di mutare il sapere pittorico e poetico, cui tale cultura era limitata, in scienza della natura, atta al dominio e non soltanto alla semplice rappresentazione. Il paesaggio, la veduta pittorica, è stato, con Humboldt, lo strumento di tale trasformazione. Per Humboldt insomma, stratega del pensiero critico borghese, l'entrata nell'ambito della conoscenza scientifica presuppone il totale attraversamento del “regno dell'apparenza estetica”. E proprio il concetto di paesaggio, che tutti i borghesi conoscono perché conoscono i quadri e le altre descrizioni artistiche, viene concepito come il veicolo più adatto ad assicurare tale transito». I Dispacci dai Caraibi aggiornano l'astuzia di Humboldt: al paesaggio si sostituisce il turismo. La critica all'antico e al nuovo colonialismo sorge dalla cronaca di viaggio come pratica elitaria, anelito di lontananze. 

 

Una prima, possibile lezione per il turista critico emerge fra il fragore di diavoli ballerini (i jab jab) che si dimenano in vesti sgargianti: «Finiamo a parlare dei Jab Jab e Che dice una cosa interessante: da ragazzino doveva sempre cercare di capire tutto in modo chiaro, dare un significato univoco alle cose, ma poi crescendo si è reso conto che ci sono cose che non vanno capite in quel modo, che bisogna viverle e lasciare che rilascino da sole i loro significati, ambivalenti, complessi. È un percorso che conosco, imparare ad attendere, ad accogliere le contraddizioni senza per forza doverle risolvere con la logica […]. Non colonizzare intellettualmente un territorio ma abitarlo e basta, assorbirlo ed esserne assorbiti. In fondo è una delle cose che ti insegna l'arte». 

 

E cosa possiamo assorbire? Qual è la figura dei Caraibi che si deposita infine sul fondo del nostro occhio blu? «Dobbiamo immaginare uomini e donne appartenenti a tribù africane di provenienza, culture e lingue diverse sradicati e gettati insieme in condizioni disumane all'interno delle piantagioni, a contatto non solo tra di loro ma anche con i padroni, quindi con ancora un'altra cultura e un'altra lingua, o più di una, che venivano loro imposte». Dopo secoli di colonialismo, violenze, sfruttamento e deportazioni, i Caraibi sono il posto dove i frutti puri impazziscono: «elementi di provenienza molto disparata che in un arco di tempo estremamente ristretto si sono sovrapposti, fusi, mischiati, agglomerati, per contingenza, per associazione, per necessità». Noi turisti che impariamo ad abitare i Caraibi ritroviamo una “via” peculiare: «la via dell'ibrido, del bastardo, della quale i cani per le strade dei villaggi dei Caraibi sono l'emblema; una via difficile perché difficile è astenersi dal giudizio, dalla proiezione dei propri demoni e dei propri desideri sull'altro, difficile perché è una via non definita, che non offre sicurezze, che non fa prendere voti alle urne». L'ibrido diventa un'affezione del pensiero, il ritmo delle strutture di ragionamento: «Il grande pregio della via caraibica è che scardina il meccanismo della dualità e all'opposizione rigida della scacchiera bianca e nera sostituisce l'approccio fluido, le infinite gradazioni, alla verticalità sostituisce l'orizzontalità e con un atto di accettazione riparte dal mondo così com'è». Io vorrei dire che la fluidità ibrida è il portato di popoli che s'affacciano su mari fra le terre. Ma il viaggiatore osa di più e azzarda una conclusione che risuona di speranza: «la situazione che adesso stiamo affrontando nel mondo loro [gli scrittori dei Caraibi] l'hanno già vissuta. Le loro risposte oggi valgono anche per noi europei e per il resto del pianeta».

 

Nota bibliografica

 

Il libro recensito è M. Campagnoli e S. Graziani, Dispacci dai Caraibi. St. Lucia, Trinidad e Martinica, Quodlibet Humboldt, Macerata/Milano 2015. La traduzione dal Glossario di Glissant è tratta da E. Glissant, Le discours antillais, Gallimard, Paris 1997. Per il Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente fatto negli anni 1799, 1800, 1801, 1802, 1803 e 1804 da Alexander von Humboldt e Aimé Bonpland. Relazione storica di Alexander von Humboldt ho consultato sia l'edizione Palombi (Palombi, Roma 1986), sia la recente antologia curata da Franco Farinelli (Quodlibet Humboldt, Macerata/Milano 2014). Sull'arguzia del paesaggio ho citato F. Farinelli, Geografia. Un'introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003, ma si veda anche L'arguzia del paesaggio, in Id., I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, Academia University Press, 2009, pp. 159-165. Prelude di Walcott è tratto dalla raccolta Adelphi: D. Walcott, Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1987. Si vedano anche le recenti traduzioni di Walcott edite presso Adelphi: il traduttore è lo stesso Matteo Campagnoli. 

 

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